#Kurds #Syria – AGGIORNAMENTI DAL FRONTE (13 dicembre 2024) – di Gianni Sartori

L’OSDH DOCUMENTA NUOVI CRIMINI DI GUERRA CONTRO I PRIGIONIERI DEL MMC COMMESSI A MANBIJ DALLE MILIZIE FILO-TURCHE

Già il 9 dicembre i mercenari di Ankara avevano giustiziato decine di feriti del Consiglio Militare di Manbij (MMC, alleati dei curdi), ricoverati in un ospedale militare.

Ora, il 12 dicembre, l’Osservatorio dei Diritti dell’Uomo (OSDH) ha denunciato nuovi crimini efferati compiuti dalle medesime bande jihadiste: l’uccisione di altri esponenti del MMC prigionieri di guerra. Come confermano alcuni video ottenuti dall’OSDH in cui si vedono esponenti delle milizie filo-turche aggredire e uccidere prigionieri inermi del MMC.

Da giorni soldati turchi e miliziani dell’esercito Nazionale Siriano (SNA, in cui si sono riciclati molti miliziani provenienti dall’Isis) commettono impunemente furti, saccheggi, sequestri di persone e uccisioni nella città occupata di Manbij.

Coraggiosamente, visto il clima, la popolazione di Manbij è scesa in strada per protestare contro tali arbitrii. Le scene della protesta (foto, video…) sono state diffuse nelle reti sociali.

 A RAQQA L’ISIS POTREBBE COGLIERE L’OCCASIONE PER RIALZARE LA TESTA

Brutti segnali anche da Raqqa. Dopo che la città era divenuta suo malgrado “capitale” del soidisant “Stato Islamico” (e centro di addestramento per quei terroristi che colpivano in mezza Europa, v. in Francia), la “battaglia per la liberazione di Raqqa” era cominciata il 6 giugno 2017. Il 17 ottobre dello stesso anno (dopo quattro mesi di aspri combattimenti) le Forze democratiche Siriane giungevano finalmente a eliminare gli ultimi presidi degli islamisti.

Da allora i tagliagole dell’Isis non avevano più dato segni di vita in città. Purtroppo, complice il nuovo clima incerto e confuso che attraversa la Siria post-Assad, pare che stiano rialzando la testa (o almeno ci provano). Il 12 dicembre, mentre la popolazione assisteva all’alza-bandiera del nuovo vessillo siriano in piazza Al-Naim, uomini armati sparsi tra la folla hanno aperto il fuoco (come confermano alcuni video diffusi in rete) ferendo sia civili che membri delle forze di sicurezza interna (asayish). Per dovere di cronaca, altre fonti hanno parlato di “spari incontrollati di festeggiamento” non necessariamente riconducibili a esponenti dell’Isis. Alla reazione delle forze di sicurezza che intendevano disperdere gli assembramenti, parte dei presenti avrebbero risposto con lanci di pietre. Complessivamente si parla di una cinquantina di feriti. I media filo-turchi (a cui hanno fatto eco alcuni siti “campisti”, forse in cerca di nuovi sponsor dopo essere rimasti orfani di Bashar Hafiz al-Assad) hanno colto l’occasione per diffondere fake-news in merito a una presunta “ribellione della comunità araba” nei confronti delle FDS e dell’AADNES (l’amministrazione autonoma arabo-curda del Rojava che ha appena riconosciuto l’attuale governo siriano).

Gianni Sartori

#Bouganville #Opinioni – MON DIEU! NON CI SONO PIU’ GLI INDIPENDENTISTI DI UNA VOLTA – di Gianni Sartori

RIAPRIRE LE MINIERE A CIELO APERTO IN NOME DELL’AUTODETERMINAZIONE: MA SI PUÒ??

La questione risaliva almeno agli anni novanta e ora sembra tornare di attualità. Anche se in termini direi “rovesciati”. Se in passato la richiesta di indipendenza si coniugava con la difesa ambientale del territorio (devastato dai progetti di sfruttamento minerario) ora, in aperta contraddizione con la questione ambientale, la riapertura delle miniere va a braccetto con le istanze di autodeterminazione. Un ossimoro?

Non saprei. Devo solo constatare che forse quello che non era riuscito – non completamente almeno – al neocolonialismo (v. Rio Tinto), potrebbe realizzarlo la classe dirigente (“compradora” o che altro?) locale (v. Bouganville Copper Limited). Stile veneto, per capirci.

In una recente conferenza-stampa a Sydney, il presidente della regione autonoma di Bouganville (Autonomous Bougainville Government) Ishmael Toroama, ha ribadito che “il popolo ha espresso la sua volontà“ per ”il calendario politico finisce nel 2027”. Si riferiva ovviamente alla scadenza per l’indipendenza dell’isola. Ancora politicamente parte della Papua-Nuova Guinea (ma geograficamente dell’arcipelago delle Isole Salomone) nonostante nel 2019 il 97,7% degli elettori (su una popolazione – in calo da qualche anno – di circa 137mila persone) abbia votato a favore dell’indipendenza. Un referendum che ha rappresentato un primo punto di arrivo, se non la definitiva conclusione, degli accordi di pace risalenti al 2001. Dopo un decennio di guerra a bassa intensità tra gli insorti nativi e le forze di sicurezza governative coadiuvate da mercenari di origine straniera. Con un costo complessivo di circa 20mila morti.

In base agli accordi di Arawa (raggiunti con la mediazione della Nuova Zelanda), la ratifica finale per una dichiarazione di indipendenza (prevista per il 2027) spetterà al parlamento della Papua Nuova Guinea.

Ma questo a grandi linee già si sapeva, era previsto. La novità (bruttissima) è invece nella stessa circostanza Ishmael Toroama ha esplicitamente annunciato l’intenzione di “riaprire la miniera a cielo aperto di Panguna. Il giacimento (la terza miniera di oro e rame a cielo aperto più grande al mondo) che in passato garantiva l’esportazione del 40% del rame dall’intera Papua Nuova Guinea.

Evidentemente la contaminazione (anche mentale) è ormai giunta a uno stadio irreversibile.

La miniera, in attività dal 1972 al 1989, venne chiusa (almeno ufficialmente, visto che in realtà rimase in gestione alla società anglo-australiana Rio Tinto fino al 2016) a causa della violenta ribellione per i danni ambientali e la mancanza di qualsiasi ridistribuzione degli utili per la popolazione locale.

Ma, purtroppo vien da dire, gli esperti hanno calcolato che il sottosuolo di Panguna conservi ancora più di cinque milioni di tonnellate di rame e 19 milioni di once (un’oncia: 28,3495231grammi) d’oro. L’equivalente di miliardi e miliardi di dollari.

La cupidigia umana non poteva restare inerte per cui nel gennaio di quest’anno veniva accordata (NB: dal governo della regione autonoma) alla Bouganville Copper una “licenza esplorativa”, propedeutica alla ripresa del devastante sfruttamento.

Prevedendo un’attività addirittura “aumentata” rispetto al passato, Toroama ha lanciato la richiesta di “abbondanti investimenti” (da parte di compagnie straniere presumibilmente) per riprendere l’attività estrattiva. Ipotizzando che in vent’anni la miniera potrebbe generare almeno 36 miliardi di dollari di entrate.

Tutto questo senza nemmeno aspettare l’agognata indipendenza, dato che l’iniziativa sarebbe in perfetta sintonia con il governo di Port Moresby (capitale della Papua Nuova Guinea) e in particolare con il primo ministro James Marape.

Nonostante un recente rapporto abbia confermato la presenza – a ben 30 anni dalla chiusura dell’impianto – nelle sorgenti e nel terreno di metalli pesanti e sostanze tossiche varie. E il prezzo, al solito, viene pagato dalla popolazione indigena.

Tutto quello che Toroama ha concesso è che “dobbiamo firmare ulteriori memorandum d’intesa con la Rio Tinto e la Bougainville Copper Limited per l’inizio dei lavori delle infrastrutture obsolete che comportano rischi gravi e imminenti per le comunità coinvolte e per il proseguimento delle trattative”. Aggiungendo – bontà sua – che “Bougainville continua ad essere una lezione, un avvertimento, un promemoria di ciò che non si deve fare nello sviluppo del settore delle risorse”.

L’indagine condotta dalla Tetra Tech Coffey, avviata dopo il ricorso del 2020 contro la Rio Tinto (v. il documento “Valutazione sull’impatto dell’eredità della miniera di Panguna”), era stata finanziata dalla stessa azienda (che però contemporaneamente si rifiutava di versare un risarcimento alla popolazione).

Oltre a confermare “la presenza di sostanze chimiche tossiche in vecchi serbatoi di stoccaggio, in container di spedizione, in un impianto di trattamento delle acque reflue e in alcuni campioni di terreno” si rilevava che “le inondazioni provocate dalla miniera hanno avuto un impatto sulla coltivazione di terreni agricoli, sull’accesso all’acqua e ai servizi essenziali”. Quanto alla qualità dell’acqua del fiume Kawerong-Jaba, lungo cui vivono circa 12-14mila persone, sarebbe “migliorata nel corso degli anni”. Tuttavia diverse sorgenti rimangono “nocive a causa della contaminazione da metalli”. Mi ripeto: a 30 anni dalla chiusura della miniera.

In agosto veniva firmato un memorandum d’intesa tra la Rio Tinto, la Bougainville Copper Limited e il governo locale per il ripristino ambientale della città di Panguna. Ma si è poi scoperto che la bonifica prevista non riguarderebbe diverse zone contaminate.

Vecchie storie irrisolte quelle di Bouganville, dicevo. Sia l’apocalisse ambientale dovuta all’estrattivismo, sia le rivolte indigene indipendentiste oggi “deturpate” dagli esponenti politici locali.

Vicende di cui negli anni novanta del secolo scorso quasi non si parlava. Tranne in qualche documento dell’ecologia radicale (v. gli articoli su “Terra selvaggia”).

Dai primi sabotaggi contro la realizzazione della devastante miniera di rame a cielo aperto, gli indigeni erano passati alla guerriglia secessionista contro Port Moresby. Su richiesta del governo, le truppe mercenarie di una società privata inglese avrebbero dovuto “bonificare” le foreste dove si nascondevano i ribelli. Fortunatamente, pochi giorni prima dalla spedizione, la società venne incriminata per aver organizzato un golpe in uno stato africano. I mercenari restarono in Gran Bretagna e la miniera da rimase inattiva. Almeno fino ad ora.

Ma intanto un altro colonialismo era sbarcato in Melanesia per aprire miniere (di nichel e cobalto) e distruggere foreste, minacciando i diritti e la cultura tradizionale degli indigeni. Sulla costa nord orientale di Papua Nuova Guinea veniva insediata una raffineria della Ramu NiCo per la lavorazione del nichel. Il contratto per l’estrazione del minerale era stato siglato nel 2004 dal primo ministro papuano Michael Somare a Pechino. Nel 2007 la società, controllata dal China Metallurgical Group, inviava squadre di operai cinesi nella foresta per costruire strade, impianti di lavorazione, uffici e dormitori per i lavoratori.

Gli abitanti dell’area, una delle regioni più arretrate ma anche più integre della Papua Nuova Guinea, si erano immediatamente ribellati armati di fionde e di machete. I pochi autoctoni assunti per lavorare nella miniera parlavano di condizioni indegne di sfruttamento, mentre alcune organizzazioni locali per la difesa dell’ambiente e dei diritti delle comunità indigene denunciavano il sistematico “saccheggio delle nostre risorse naturali da parte dei cinesi”. E – forse non del tutto disinteressatamente (per la serie: “da che pulpito vien la predica”) l’australiano Mineral Policy Institute definiva “totalmente infondati” i rassicuranti dati forniti dall’azienda mineraria in merito all’inquinamento da scorie nelle acque della baia di Basamuk.

Nel luglio 2009 anche la miniera di nichel veniva chiusa) ma solo provvisoriamente) per ragioni di sicurezza.

La presenza delle “State’s companies” cinesi in Papua Nuova Guinea rientrava e rientra nell’ampio rilancio di investimenti globali che Pechino da tempo va effettuando in Asia, Africa e America latina. Una presenza gradita a molti governi anche perché non implica particolari richieste nel rispetto dei diritti umani, sindacali e ambientali.

Non solo in campo minerario-estrattivo.

Come aveva documentato Parag Khanna (“I tre Imperi – Nuovi equilibri globali nel XXI secolo”) in Cina la conversione di terre arabili in spazi edificabili destinati all’industria ha impresso una forte “spinta verso l’outsourcing agricolo e verso la produzione agricola offshore”. Vedi l’Indonesia e le Filippine destinate a diventare una grande “risaia cinese”. Il “secondo anello della strategia di reperimento di risorse” è rappresentato dall’Oceania, in particolare dalla Melanesia, tradizionalmente legata all’Australia.

Nella Papua Nuova Guinea la penetrazione cinese ha causato una drastica accelerazione della deforestazione.

Mantenendo i ritmi di saccheggio attuali la foresta vergine potrebbe scomparire completamente entro il 2030. In cambio delle risorse naturali (minerali, legname, terreni agricoli…) il governo cinese fornisce finanziamenti per strade, ferrovie, stadi e palazzi governativi. Gran parte delle infrastrutture vengono però realizzate con mano d’opera cinese. Al seguito degli operai arrivano anche le loro famiglie che aprono bar e negozi di merci cinesi a basso costo mandando in crisi l’economia locale. Una possibile spiegazione per le rivolte anticinesi scoppiate negli anni scorsi sia in Asia che in Africa e in Oceania (dal Lesotho alle isole Salomone, Tonga, India e Zambia).

Gianni Sartori

#Kurds #Syria – AGGIORNAMENTO DAL FRONTE (12 dicembre) – di Gianni Sartori

elaborazione su immagine @ ANF

MENTRE A MANBIJ POTREBBE ENTRARE IN VIGORE UN ACCORDO DI CESSATE IL FUOCO TRA SDS E SNA, VIENE CONFERMATO IL BRUTALE ASSASSINIO DI TRE DONNE ARABE DELL’ASSOCIAZIONE ZENUBIYA

Ancora un crimine di guerra. Ancora tre donne vittime del fanatismo jihadista. Kamar El-Soud, Aysha Abdulkadir e Iman sono state assassinate da mercenari di Ankara a Manbij. La triste nuova viene dalla Comunità di Donne Arabe Zenubiya: “Le nostre tre compagne sono diventate un esempio di sacrificio comportandosi con coraggio e dignità di fronte alla morte. Il loro martirio non è la fine della lotta, ma un nuovo inizio per il nostro impegno nella causa delle libertà e dell’indipendenza. Kamar, Aysha e Iman hanno condotto una dura battaglia contro le forze dell’oscurità e contro il nemico, compiendo grandi sacrifici bella difesa di Manbij”.

Il cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA dalla sigla in inglese, conosciuto anche come Fajr al-Hurriya) è formato da un’accozzaglia di jihadisti (v. Ahrar al-Sharqiyah) sul libro-paga di Ankara. A cui si sono aggiunti estremisti di destra (turchi o filo-turchi) con un’unica “ragione sociale” in comune: l’odio per i curdi.

Come già segnalato, ancora il 9 dicembre il canale televisivo turco Habertürk ha trasmesso in diretta (forse senza il tempo di censurarle) le immagini di miliziani del SNA affianco a quelli dell’Isis. Con in sovraimpressione un titolo tanto lapidario quanto fasullo: “Manbij libera dal PKK/YPG. Il SNA ha completato l’operazione in Manbij”. In realtà i feroci combattimenti erano ancora in corso nei quartieri multietnici di Manbij. Le informazioni che circolavano in rete, soprattutto quelle diffuse dall’agenzia ufficiale turca Anadolu, erano false. Il loro scopo era di scoraggiare la resistenza e rientravano in quella che possiamo chiamare “guerra psicologica”.

I combattimenti proseguivano infatti anche nella notte di martedì mentre l’esercito turco intensificava le operazioni sia dell’aviazione che dell’artiglieria contro Kobane, prossimo obiettivo della guerra di occupazione.

Contemporaneamente alcuni esponenti di questa banda di tagliagole diffondevano nelle reti sociali i video di alcuni feriti (presumibilmente resistenti curdi) assassinati in un ospedale di Manbij da membri del SNA che se ne vantavano apertamente (e anche questa a ben guardare è brutale “guerra psicologica”).

E non si tratta di episodi isolati.

Anche l’osservatorio Siriano dei Diritti Umani ha denunciato “dozzine di esecuzioni di combattenti feriti del Consiglio Militare di Manbij” assassinati dai mercenari di Erdogan.

Kongra Star (il movimento delle donne del nordest della Siria) ha denunciato che a Manbij diverse donne integrate nelle forze di sicurezza Asayîş sono state catturate e sequestrate, nei video diffusi dai tagliagole del SNA venivano esposte come “bottino di guerra” (in stile Isis).

Si registrano inoltre innumerevoli saccheggi e incendi di abitazioni curde. Oltra a rappresaglie contro la popolazione civile. Tra cui il caso ignobile, già citato, delle tre militanti di Zenobiya assassinate.

Atti di terrorismo speculari a quelli compiuti dallo Stato turco che il 10 massacrava un’intera famiglia (otto persone) con un veicolo senza pilota (UCAV) nel villaggio di Sefiya (Ayn Issa).

Altre otto vittime che si aggiungono alla lista di circa 200 civili assassinati quest’anno da Ankara nel Nord e nell’Est della Siria.

CESSATE IL FUOCO A MANBIJ?

A Manbij, dopo due settimane di combattimenti, un possibile accordo di cessate-il-fuoco si sarebbe raggiunto (pare con la mediazione degli Stati Uniti) tra le Forze Democratiche Siriane (SDF, dalla sigla in inglese) e l’Esercito Nazionale Siriano (SNA, dalla sigla in inglese).

Mercoledì mattina 11 dicembre, il comandante delle SDF Mazlum Abdi annunciava che i combattenti del Consiglio Militare di Manbij si sarebbero ritirati dalla città per “garantire la sicurezza della popolazione civile”.

Dichiarando inoltre che “il nostro obiettivo è quello di un cessate-il-fuoco in tutta la Siria e l’inizio di un processo politico sul futuro del paese”.

Va preso atto che il Consiglio Militare e le altre organizzazioni facenti parte delle SDF in questi ultimi quindici giorni hanno lottato con coraggio e determinazione. Al prezzo di un gran numero di caduti, ma causando ai mercenari del SNA centinaia di perdite.

In questo momento la resistenza dei partigiani curdi si concentra sullo strategico ponte di Qereqozax, tra Manbij e Kobanê. Quanto alla diga di Tishrîn (più a sud e altro possibile punto di invasione del nordest) sarebbe ormai fuori uso a causa dei bombardamenti subiti. Ragion per cui vaste zone della regione autonoma (tra cui il cantone di Kobanê) sono prive di elettricità.

L’importanza assunta dal cantone multietnico di Manbij nella lotta per l’autogoverno è soprattutto politica e va ben oltre quella della posizione strategica. Liberata dall’Isis nel 2026 grazie alle SDF e alle YPJ (Unità di Protezione delle Donne), ha rappresentato la prima zona autonoma nel Nord e nell’Est della Siria con una popolazione a maggioranza non curda. Praticamente l’ultimo cantone dell’AADNES rimasto a ovest dell’Eufrate.

Con il Consiglio Civile Provvisorio di Manbij (poi “Legislativo dell’Amministrazione Democratica di Manbij) venne introdotta in ogni ufficio una doppia direzione donna-uomo con uguaglianza di genere. Per cui la proporzione delle donne nell’amministrazione arrivava al 50%. Così come vi erano rappresentati tutti i gruppi sociali. Un modello di nuova, radicale democrazia che aveva garantito sicurezza e protagonismo per le donne e le minoranze.

Un modello che la brutalità regressiva delle gang jihadiste potrà forse provvisoriamente calpestare ma non estirpare.

Ma intanto non si attenua, anzi si intensifica inesorabilmente, la pioggia di bombe turche (sia con l’aviazione che con l’artiglieria) sui territori amministrati dall’AADNES, in particolare sul cantone di Kobanê. Uccidendo civili (oggi altre due vittime, una donna e un bambino nei pressi del ponte di Qaraqozaq), colpendo indiscriminatamente obiettivi sia civili che militari.

Almeno una ventina gli attacchi (soprattutto con droni) documentati da ANHA nella giornata dell’11 dicembre tra Raqqa, Tel Tamr e Kobanê.

Gianni Sartori

#EuskalHerria #PrigionieriPolitici – MANIFESTAZIONE ORGANIZZATA A BILBO (11 gennaio 2024) – comunicato di Bake Bidea/Artisans de la Paix

L’11 gennaio, alle 17, si svolgerà a Bilbo la manifestazione organizzata da SARE che, con lo slogan “Behin betiko” (“Definitivamente”), partirà da La Casilla. Anche quest’anno Bake Bidea/Artisans de la Paix si uniscono a questo appello che mira al ritorno a casa di prigionieri, esuli e deportati, alla risoluzione e alla convivenza.

Nell’ultimo decennio nei Paesi Baschi è emersa una maggioranza favorevole alla costruzione di una pace duratura. L’attivazione e la mobilitazione della società civile hanno permesso di compiere passi significativi verso la risoluzione. In questo processo, è urgente fornire una soluzione giusta e definitiva alla questione dei prigionieri, esuli e deportati baschi, nonché un trattamento equo per tutte le vittime della violenza. Entrambe le cose sono le chiavi del successo della convivenza nel nostro territorio.

Chiediamo una mobilitazione massiccia nelle strade di Bilbo. Anche noi, nei Paesi Baschi del Nord, daremo il nostro contributo. Nei prossimi giorni saranno organizzati raduni durante le vacanze di Natale (più info tra pochi giorni) ma anche bus per partecipare alla manifestazione di Bilbo.

#Africa #Popoli – FEMMINICIDI IN KENYA: IL GOVERNO È PARTE DEL PROBLEMA – di Gianni Sartori

elaborazione su immagine @ AP

Già verso la fine di gennaio a Nairobi si erano svolte manifestazioni di protesta per il grande numero di femminicidi che insanguinano il Kenya. Ma allora vi presero parte alcune centinaia di persone, mentre il 10 dicembre le strade della capitale sono state invase da migliaia di manifestanti (non solo donne) che denunciavano come nei soli ultimi tre mesi un centinaio di donne erano state assassinate (97 quelle accertate).

Alla fine di gennaio, in nemmeno un mese, le donne uccise erano già oltre una decina (da 9 a sedici stando alle diverse fonti). Per ricordarle, le loro sorelle in corteo portavano striscioni con scritte come “Essere una donna non deve costituire una condanna a morte” e “Il patriarcato uccide”.

Altre inalberavano cartelli con le foto delle vittime. Paralizzando il traffico nel quartier commerciale mentre di dirigevano verso il Parlamento lanciando lo slogan “Smettete di assassinarci!”

Tra i femminicidi che avevano maggiormente turbato l’opinione pubblica, quello di una giovane di 26 anni trovata cadavere il 4 gennaio. Dalle indagini risultò che i responsabili erano i membri di una banda che contattava le donne sui social. Solo una settimana dopo venne rinvenuto il corpo smembrato di un’altra donna di 20 anni (dalle indagini risultava strangolata, ma i colpevoli non vennero mai individuati).

Uno stillicidio che era proseguito nel corso del 2024. Confermando quanto denunciava Amnesty International di Nairobi: “Il femminicidio è l’espressione più brutale della violenza di genere”.

In un documento governativo del 2023 si documentava che “in Kenya più del 30% delle donne sono state vittime di violenza fisica nel corso della propria vita”.

Per l’Ong Feminicide Count i femminicidi compiuti in Kenya nel 2023 erano stati almeno 152 (calcolando solo quelli denunciati).

Numeri ancora peggiori quelli forniti per il 2022 dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la Droga e il delitto: ben 725.

Con queste premesse, era inevitabile che le donne tornassero a protestare. Stavolta in migliaia.

Ma il 10 dicembre il nuovo corteo di Nairobi contro i femminicidi è arrivato, mentre si dirigeva al Parlamento, a scontrarsi con la polizia. Inizialmente si erano limitate a lanciare slogan (“Vergognatevi!” e “Educate i vostri figli!”) chiedendo al governo misure adeguate. In un paese dove le radici del patriarcato sono profonde e si lamenta la carenza di leggi adeguate in difesa delle donne.

Le forze di polizia (presenti in gran numero, sia in divisa che in borghese) avevano ripetutamente interrotto il flusso del corteo lanciando granate lacrimogene. Puntando in particolare su alcune ragazze con slogan femministi sulle t-shirt. Alla fine molte di loro venivano arrestate.

Come ha commentato una ragazza che aveva preso parte alla contestazione: “Se quando chiediamo al governo leggi adeguate in difesa della nostra vita ci rispondono con i lacrimogeni, significa che il governo fa parte del problema”.

Gianni Sartori

#Syria #Focus – FINISCE L’ERA DI BASHAR AL-ASSAD: PROSEGUE LA GRANDE GUERRA DEL VICINO ORIENTE. (10 dicembre 2024) – di Maurizio Vezzosi

immagine fonte @ Al Jazeera

Con la fuga di Bashar al Assad a Mosca finisce la storia della Repubblica araba di Siria nata con il tramonto del mandato coloniale francese. L’offensiva delle milizie sostenute dalla Turchia è riuscita ad arrivare a Damasco nel giro di pochi giorni, forte della copertura aerea israeliana che per mesi, ed anzi per anni, ha bombardato la Siria e della debolezza ormai terminale di Assad. Quello che le milizie antigovernative non sono riuscite a fare in oltre dieci anni di guerra civile si è compiuto in una settimana. Le forze israeliane stanno continuando ad attaccare le infrastrutture dell’ormai ex esercito siriano avanzando nell’area del Golan – denominando la nuova area d’occupazione “zona cuscinetto” – e distruggendo con i bombardamenti aerei infrastrutture – come il porto di Latakia – centri di ricerca ed industriali. Contemporaneamente gli attacchi delle milizie sostenute dalla Turchia si stanno concentrando sulle aree controllate dalle forze curde. Il quadro, ancora opaco, fa intravedere almeno per il momento il maggiore successo israeliano, turco, britannico e statunitense raggiunto nell’area negli ultimi anni. Oltre a Damasco, le forze sostenute dalla Turchia avrebbero già anche il controllo di Tartus, città costiera dove si trova la base navale russa. Il nesso degli eventi siriani con tutte le altre crisi del Vicino Oriente – su tutte, quella palestinese – è evidente: non meno evidente è il nesso di questi con la transizione Biden – Trump. Se si tratti dell’ennesima mossa dell’amministrazione Biden pensata per mettere condizionare il successore, di una mossa volta ad anticipare la politica della nuova amministrazione o di un “do ut des” tra Mosca e Washington legato all’Ucraina diventerà chiaro nel 2025. Quello che è certo è che quanto è avvenuto in Siria nelle ultime ore non sarebbe potuto accadere senza l’avallo statunitense, visto anche il presidio delle truppe di Washington presso i pozzi petroliferi della parte nord-orientale dell’ormai ex-Siria ed i legami tra gli attori coinvolti con gli Stati Uniti. Mentre l’ex membro dell’ISIS e di al-Qaeda Abu Mohammed al-Jawlani – Ahmed al-Shara – viene presentato come l’uomo forte sulla scena, Mohammed al-Bashir è stato incaricato capo del gabinetto di transizione dopo un incontro con l’ex primo ministro siriano Mohammed al-Jalali: quest’ultimo era apparso poche ore prima scortato da uomini dell’HTS (acronimo di Hayat al Tahrir al Sham, “Organizzazione per la liberazione del Levante”) che hanno ormai il controllo della capitale Damasco. Questi elementi potrebbero spiegare le diserzioni di massa tra le forze armate siriane e come queste ultime abbiano rinunciato ad opporre una resistenza significativa all’avanzata delle milizie sostenute da Ankara. La debolezza di Assad sul piano interno era nota da tempo anche a Mosca: una conferma di ciò si può trovare ricordando i colloqui promossi dal Cremlino tra il governo di Damasco e le opposizioni nell’ormai lontano 2018: sullo sfondo di questi colloqui era trapelata persino la bozza di nuova costituzione che avrebbe dato alla Siria un assetto più decentrato e maggiormente federale. Un progetto riformatore teso a dare maggiore rappresentatività e potere soprattutto alle grandi comunità sunnita e curda: un progetto mai attuato anche per l’oltranzismo di Assad con cui forse, almeno in alcune aree della Siria, sarebbe stato possibile salvare l’eredità di quel laicismo che appare destinato a scomparire. Considerando il proprio impegno in Ucraina ed il quadro siriano Mosca ha attuato la scelta probabilmente più logica in difesa dei propri interessi: del resto con una forza terrestre estremamente ridotta – impiegata ad oggi principalmente come polizia militare – e con le forze governative scioltesi – sul piano politico e militare – come neve al sole qualunque altra scelta sarebbe risultata velleitaria. Per Mosca ma soprattutto per Teheran il nuovo scenario siriano apre una nuova fase di rischi ed incognite. Oltre alle basi presenti nell’area un problema significativo per Mosca riguarda i combattenti jihadisti provenienti da tutto lo spazio post-sovietico inquadrati tra le fila dell’HTS: un problema che rimarrà sicuramente al centro dell’interlocuzione tra il Cremlino e la nuova dirigenza siriana. L’Iran rischia di perdere il corridoio terrestre con cui attraverso l’Iraq ha avuto fino ad oggi un accesso diretto al Mediterraneo, oltre a subire una maggiore pressione militare a ridosso delle proprie frontiere: nonostante questo rischio e la forte contrapposizione degli anni scorsi tra HTS ed Hezbollah le prime dichiarazioni del partito-milizia libanese sugli eventi siriani hanno evitato ogni presa di posizione marcata. L’era di Bashar al Assad è terminata, a differenza della grande guerra che si sta combattendo in tutto il Vicino Oriente.

Maurizio Vezzosi

Maurizio Vezzosi, analista e reporter freelance. Collabora con RSI Televisione Svizzera, LA7, Rete4, L’Espresso, Limes, l’Atlante geopolitico di Treccani, il centro studi Quadrante Futuro, La Fionda ed altre testate. Ha raccontato il conflitto ucraino dai territori insorti contro il governo di Kiev documentando la situazione sulla linea del fronte. Nel 2016 ha documentato le ripercussioni della crisi siriana sui fragili equilibri del Libano. Si occupa della radicalizzazione islamica nello spazio postsovietico, in particolare nel Caucaso settentrionale, in Uzbekistan e in Kirghizistan. Nel quadro della transizione politica che interessa la Bielorussia, nel 2021 ha seguito da Minsk i lavori dell’Assemblea Nazionale. Tra la primavera e l’estate del 2021 ha documentato il contesto armeno post-bellico, seguendo da Erevan gli sviluppi pre e post elettorali. Nel 2022, dopo aver seguito dalla Bielorussia il referendum costituzionale, le trattative russo-ucraine, e sul campo l’assedio di Mariupol, ha proseguito documentare la nuova fase del conflitto ucraino. Nel 2023 ha continuato a documentare la situazione nelle aree di Lugansk, Donetsk, Zaporozhe e Kherson sotto controllo russo. Durante l’estate si è recato in Georgia approfondendo la situazione sociale e politica della repubblica caucasica. A settembre ha partecipato al’AJB DOC Film Festival (Al Jazeera Balkans) di Sarajevo e al festival Visioni dal Mondo di Milano con il documentario “Primavera a Mariupol” (Spring in Mariupol). È assegnista di ricerca presso l’Istituto di studi politici “S. Pio V”.