#7NotePerUnaNuovaEuropa #EuskalHerria – Il nuovo disco di Kepa Junkera

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Il noto suonatore basco di trikitixa Kepa Junkera ha presentato il suo nuovo album, ‘Erromeriak. Kepa Junkera Urraza’, un omaggio alle donne suonatrici di “pandereta”, a sua nonna e a sua madre, il ramo familiare da cui proviene la sua “vena musicale”, in cui dirige più di 40 donne suonatrici di pandereta di Euskal Herria, Cantabria, Asturie, Galizia, León, Valladolid e Portogallo.

Questo primo album della nuova fase della sua carriera offre otto brani inediti su cui Kepa Junkera stava lavorando nel suo studio poco prima di subire l’ictus che lo ha lasciato fuori dalle scene nel 2018, ed è completato da altre sette registrazioni speciali, arrangiate appositamente per questo progetto.

Il bertsolari Koldo Gezuraga Seijido ha collaborato all’album per i testi di alcune canzoni, così come gli improvvisatori Yeray Rodríguez e Miguel Cadavieco.

#Americhe #Popoli – BRASILE: GLI INDIOS ESISTONO – E RESISTONO – DA MOLTO PRIMA DEL 1988 – di Gianni Sartori

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Mentre la lobbyng dell’industria agricola impone modifiche distruttive alla politica di Lula a sostegno degli Indios e delle foreste, gli indigeni manifestano vigorosamente.

Aveva fatto ben sperare la decisa presa di posizione in difesa degli Indios di Inácio Lula da Silva appena eletto presidente del Brasile.

Contro quello che possiamo definire quantomeno un tentativo di genocidio (operazione che il presidente di prima aveva non solo tollerato, ma anche favorito).

Apprezzabile per esempio l’invio dei soldati nella riserva degli indigeni Yanomani (circa 30mila, tra gli stati di Roraima e Amazonas) dove la situazione era diventata ormai disperata (foreste devastate, inquinamento delle acque, malattie – malaria e altro -e denutrizione, soprattutto per i bambini).

Una catastrofe umanitaria e ambientale, effetto collaterale (ma neanche tanto “collaterale”) dell’invasione di oltre 20mila cercatori d’oro fai-da te (illegali) che – oltre a disboscare e sparare agli indigeni – utilizzano il mercurio per estrarre l’oro, contaminato corsi d’acqua e falde acquifere. Non solo. In precedenza avevano anche distrutto almeno quattro tra centri medici e ambulatori.

Lula, si diceva, aveva espresso non soltanto a parole l’intenzione di una radicale inversione di rotta.

Ma ora sembra che stiamo tornando al punto di partenza.

Un pessimo segnale è arrivato il 24 maggio quando deputati e senatori della Commissione mista (legati all’agro business) hanno votato a favore di una serie di – pessime – variazioni alla “misura provvisoria 1.154”. Indebolendo, di fatto invalidando, le possibilità di intervento dei ministeri dell‘Ambiente e dei Cambiamenti Climatici e dei Popoli Indigeni. Spingendosi a minacciare, oltre all’Amazzonia, anche il relativamente integro ecosistema costiero della Foresta Atlantica.

Naturalmente i rappresentanti delle comunità indigene non sono rimasti a leccarsi le ferite, ma hanno reagito denunciando la nuova proposta di legge che renderebbe vuoti di contenuto i diritti degli autoctoni e alimenterebbe la deforestazione. Basti dire che limiterà la creazione di nuove riserve indigene solo alle terre che risultavano occupate dagli autoctoni prima del 1988 (anno della promulgazione dell’ultima costituzione brasiliana). Un elemento ulteriore che conferma la potenza della lobbyng dell’industria agricola.

In questi giorni si stanno svolgendo molte proteste anche bloccando qualche autostrada e scontrandosi con la polizia. I manifestanti hanno inalberato cartelli con scritto “Noi esistiamo da prima del 1988”.

Ricordando anche che molte comunità tribali vennero espulse con la forza dai loro territori ancestrali durante la dittatura militare (durata fino al 1985), rientrandovi solo in epoca più recente.

Mentre gli indigeni impugnano archi e frecce, le forze dell’ordine sparano granate lacrimogene e utilizzano cannoni ad acqua.

Attualmente i territori indigeni formalmente riconosciuti in Brasile sono 764 (la maggior parte in Amazzonia). Ma quasi la metà non sono state ancora delimitate rimanendo sospese in una sorta di limbo legislativo.

Gianni Sartori

#Veneto #Memoria – UN RICORDO GRATO PER LA “SIGNORA DEL MULINO” DI CERVARESE SANTA CROCE – di Gianni Sartori

Da tempo vado annaspando in quella fase della vita in cui molte delle persone incontrate, mi riferisco soprattutto a quelle significative, sono “andate oltre”. Se in passato prevaleva un senso di vuoto (anche per la scomparsa repentina, spesso tragica, di amici, compagni e compagni di cordata…), ormai questo viene sovrastato, ammorbidito dalla rassegnazione. Al punto che non scrivo neanche più necrologi in memoria.

Ma talvolta la notizia della morte di una persona, tra l’altro conosciuta solo superficialmente, apre inspiegabilmente il flusso di ricordi, vari ed eterogenei.

Come per la recente dipartita a 84 anni di Luigina Nicchio che avevo incontrato molti anni fa nel suo mulino restaurato di Cervarese Santa Croce (per chi proviene da Montegaldella – provincia di Vicenza – lungo l’argine del Bacchiglione, il primo paese della provincia di Padova). Località non estranea alla memoria familiare di chi scrive in quanto qui, sulla storica passerella, transitava mia nonna bambina (la nona Pina, al secolo Evoli Marta) prima della guerra (la Prima G. M.) provenendo da Veggiano per andare a immergersi e lavorare nelle lontane risaie di Mossano, alle falde dei Colli Berici (nella zona ora conosciuta come Palù).

E sorvolo sul fatto che proprio alla prima Guerra Mondiale (un massacro indecente) qui è stata dedicata una vistosa cartellonnistica. Con in bella vista alcune fotografie dell’epoca dove eleganti signore provviste di ombrellino parasole  assistono alle esercitazioni dei soldati in procinto di partire per il fronte. Emblematiche. Quella che per le classi subalterne si avviava a diventare l’inutile strage (come la definì Benedetto XV, ma “ignobile” sarebbe stato più consono), per quelle dominanti era spettacolo.

Tornando alla signora Luigina, in molti l’hanno ricordata soprattutto per il meritevole recupero dei ruderi di un antico mulino (si ritiene millenario). Opera realizzata ancora negli anni settanta con il marito Giorgio Macrelli, imprenditore milanese. Originaria di un paesotto dell’estremo Basso Vicentino, si era trasferita giovanissima a Milano dove conobbe il futuro marito. Ma i due coniugi non si erano limitati al restauro. Intorno al mulino, sulle sponde del fiume e nei campi circostanti avevano realizzato un piccolo “paradiso” (come legittimamente lo definiva Luigina) dove pascolavano, correvano, saltavano capre e caprette, un pony e un paio di asinelli.

Ed è qui che la storia dei due meritevoli personaggi si intreccia con le mie aspirazioni. Nel paese  natio di Luigina era in vigore una pratica discutibile, pare importata da un sacerdote originario del Veronese. Durante la sagra dall’alto del campanile veniva calato giù con le corde un asinello tra le grida e gli sghignazzi della plebe (il termine “popolo” in questo caso sarebbe fuori luogo). Ovviamente la creatura, terrorizzata ragliava (gridava) e spesso per la paura defecava vistosamente. Suscitando l’ilarità beota del pubblico sottostante. Nel frattempo si procedeva alla lotteria e chi vinceva si portava a casa l’animale desinato a finire in tavola come musso (considerato una specialità locale).

Un rituale che – presumibilmente – rimandava all’epoca dell’Inquisizione quando in alcune località a venir scaraventato direttamente dal campanile era qualche eretico. In seguito simbolicamente sostituito dall’asino (analogamente a quanto avveniva fino a pochi anni fa in qualche località iberica dove invece l’asinello veniva picchiato con spranghe e bastoni, sempre per rievocare analoghe esecuzioni di eretici, streghe o dissidenti).*
Negli anni la pratica ignobile era stata “umanizzata” (almeno formalmente) e l’asino veniva calato con le corde (per essere poi comunque macellato).

Forse inorriditi, sicuramente impietositi, Luigina e Giorgio una volta chiesero di poterlo acquistare prima della squallida esibizione.

Gli indigeni non sentivano ragioni. Forse per orgoglio campanilistico (e qui il termine ci sta) nei confronti dei “milanesi” o in nome di una malintesa salvaguardia delle “tradizioni”. Ma i due avevano tanto insistito che alla fine la ebbero vinta. E almeno per una volta ci fu il lieto fine. Qui, al mulino di Cervarese, l’asinello trascorse quasi 30 anni. In pace e serenità come si addice a tutti gli asini del mondo.

La storia mi era stata riferita a grandi linee da un’amica (animalista e vegetariana, ca va sans dire) e in seguito avevo avuto modo di approfondirla direttamente con la signora Luigina. Ogni volta che passavo, generalmente in bici, verificavo che la creatura fosse ancora in buona salute e – quando mi capitava di incontrarla – ne parlavo con la “Signora del mulino”.

L’ultima volta, pochi anni fa, mi aveva informato, con rammarico, che aveva raggiunto le Grandi Praterie. Ma ci consolava entrambi sapere che comunque era vissuto a lungo e dignitosamente, sfuggendo al brutale destino a cui era stato destinato.

Gianni Sartori

* nota 1: Rinvio ad un’altra occasione la discussione in merito alla sacralità degli asini e all’ipotesi di rituali del cristianesimo originario (esoterici? Apollinei?) in cui l’asino non veniva denigrato, ma venerato.

#Catalunya #Opinioni – RECUPERARE L’INIZIATIVA NAZIONALE – di JOSEP-LLUÍS CAROD-ROVIRA

Abbiamo tradotto in italiano questa analisi di Josep-Lluis Carod-Rovira del voto amministrativo catalano pubblicata su un media catalano nei giorni scorsi

Fascistizzazione degli spazi pubblici

Per decenni, il discorso di Jean Marie Le Pen sull’immigrazione in Francia è stato contagioso per tutte le altre forze politiche, tanto che si è utilizzato il termine di “lepenizzazione” del discorso politico francese su questo tema ed altri. Il razzismo latente o disinibito è presente ovunque, dai campi sportivi ai media o alle conversazioni nei bar. Gli immigrati, solo i poveri, naturalmente, sono da biasimare per tutte le cose malvagie che ci accadono, e in Spagna, in particolare gli immigrati dal Maghreb, dall’Africa nera e dall’ Asia… L’ondata ultrareazionaria, che gli Stati Uniti e il Brasile conoscono bene, con espressioni antidemocratiche, avanza ormai da tempo in Europa, occupando alcuni spazi pubblici, nel bel mezzo di una profonda crisi che colpisce direttamente i settori popolari. La paura e l’incertezza sul futuro, la povertà crescente, la disperazione per la precarietà delle condizioni di vita lasciano il posto a risposte demagogiche che fanno ricadere le colpe non all’attuale sistema economico perverso, né alla minoranza privilegiata che ne beneficia, ma sugli ultimi della fila: quelli che arrivano da fuori, quelli che sono senza casa e occupano quelle che le banche tengono vuote, quelli che sono “diversi” in tante cose…

Da qui, dall’insoddisfazione per la politica, dall’oblio istituzionale e dalla convinzione di appartenere alla periferia permanente della vita, nasce un discorso impregnato di odio nelle aree più depresse in cui si combattono le politiche di genere, interculturalità, libero orientamento sessuale, azione per il clima, laicità e normalizzazione della propria lingua che,  inoltre, si avvolge dalla testa ai piedi con la  “rojigualda” (la bandiera spagnola – NdT) e la catalanofobia. Questo spiega il paradosso che Vox ha svolto un ruolo importante nelle aree ricche, ma allo stesso tempo nei quartieri più popolari e marginali e, significativamente, anche nei seggi elettorali vicino alle sedi dei dipendenti pubblici in uniforme. Facendo la vocale neutra perfetta, o in spagnolo, questa reazione molto pericolosa dal punto di vista civile conta già più di 400 rappresentanti municipali in tutti i Paesi catalani. Al populismo xenofobo va riconosciuto di aver sviluppato un discorso anti-élite e anti-oligarchia che è demagogico quanto comprensibile ed efficace alle urne. Non è la cosa più importante di queste elezioni, ma è un avvertimento allarmante.

Deideologizzazione della sinistra

Dal crollo dell’URSS – e parliamo di 32 anni fa! -, coloro che ancora si dichiarano socialdemocratici non hanno una vera alternativa al capitalismo e al modello economico e culturale che ha generato tanta miseria, emarginazione e crudeltà. Incapace di costruire un modello diverso che dia priorità agli interessi della maggioranza, la sinistra vinta e disorientata ha sofferto troppe sconfitte, soprattutto quelle morali, da decenni. E alcuni partiti sono diventati semplici gestori del capitalismo, sedotti da parole taumaturgiche di dimensione quasi religiosa, come “efficienza, modernizzazione, rigore, realismo o pragmatismo”, senza alcun briciolo di umanità o di speranza, di fronte alla durezza delle difficoltà della vita quotidiana. La massima aspirazione di alcune forze sembra essere solo il riconoscimento da parte delle élite economiche di essere buoni tecnici, persone che sanno gestire bene, come se i problemi del dominio politico, dello sfruttamento economico, della discriminazione di genere o di razza, o anche dell’oppressione nazionale, fossero meri problemi tecnici e non di natura politica.

La destra, quando governa, non ha manie. Applica il suo programma in funzione dei suoi interessi, li difende con il sangue e il fuoco, e tutto il resto non conta. La sinistra al governo è di solito condizionata dal fatto che avrà l’acquiescenza o la minima complicità del potere finanziario e commerciale, semmai. Ed è per questo che, a volte, è troppo timorosa quando si tratta di adottare politiche pubbliche progressiste, con cambiamenti reali, nel campo della fiscalità, del lavoro, dell’assistenza sociale, dell’alloggio o dei trasporti. Fa passi avanti, sì, ma insufficienti. Pacificato dal rilassamento nazionale e sociale costruito dal PSOE, con l’aiuto inspiegabile di ERC, il Partito Socialista Catalano ha trovato un tappeto d’oro attraverso il quale sfilare, gioioso, verso la vittoria. E nonostante abbia perso 55mila voti, il messaggio ricevuto dalla società è ben diverso. In generale, tutto è in ordine, il paese sotto controllo e il PSC è rimasto al centro come “il giovedì” ed è cresciuto come il partito più votato. ERC ha perso 302mila voti e i “Comuns” 92mila.

Doppio percorso di indipendenza

Il movimento indipendentista che abbiamo vissuto nell’ultimo decennio non è mai stato omogeneo a livello di sigle, ma ora non è omogeneo a livello sociale. C’è stato un movimento indipendentista che ha votato e un altro che non lo ha fatto. E 1.200.000 elettori di questo orientamento politico, ideologicamente plurale, che sono andati alle urne, quando quattro anni fa, nello stesso tipo di elezioni, lo hanno fatto 1.557.089 persone. Più di 350.000 indipendentisti sono rimasti a casa, esprimendo il loro rifiuto alla gestione politica, portata avanti dai partiti, dalla Generalitat e dai consigli comunali, dell’enorme capitale umano accumulato fino al 2017. È un avvertimento rigoroso, ai destinatari organici della protesta, che questa non è la strada verso la libertà nazionale e il benessere sociale. L’astensione militante, consapevole e volontaria, è stata la vera differenziazione della Catalogna nelle ultime elezioni, rispetto alla mappa spagnola: un gesto politico di protesta. Non c’è stata, quindi, deflazione per disinteresse, ma reazione di protesta, stanchezza, delusione nazionale. E anche irritazione per il costo della vita, il disastro delle ferrovie, le liste d’attesa, ecc.

Un “vecchio gatto” come Xavier Trias è riuscito ad accumulare il voto anti-Colau (indipendentista e nazionalista spagnolo, poco importa) e, sebbene il peso di “Junts” non abbia più nulla a che fare con quello della vecchia CiU, ormai suddiviso in quattro opzioni, loro sono riusciti ad essere la seconda forza più votata del Principato, nonostante la presenza prominente nelle liste di nomi che ci ricordano più il passato che deve essere superato che il futuro che ha emozioni da costruire. ERC, la cui caduta consente poche manovre di “sbianchettatura” anche se c’è chi si sforza di farlo, è passata da essere la prima a essere la terza forza ed è quella che più ha mostrato la sensazione di disillusione, disgusto, disconnessione emotiva con un elettorato tradizionalmente fedele. La sua scommessa “tutto o niente”, di rapporto idiliaco con il PSOE, da cui non ha ricavato altro che disprezzo, l’ha colpita, ma soprattutto ha colpito il paese, poiché ha ufficializzato l’impressione che la lotta per l’indipendenza fosse acqua passata, agli occhi di quel mondo che la guardava con speranza. Senza lotta, non c’è vittoria, e se non poniamo loro un problema, non avremo mai una soluzione. La CUP, a sua volta, ha perso 43.000 voti, e se vuole consolidare lo spazio che aspira ad occupare, in parte in competizione con i “Comuns”, deve finalmente decidere di fare politica e non può apparire con proposte a volte percepite come bizzarre dalla maggioranza, ma con misure utili, comprensibili e incoraggianti, come ha fatto Lluc Salellas a Girona. Altrimenti, può sempre essere collegata solo a una trasgressione estetica, a un’ultra-ideologizzazione e a una specializzazione generazionale che non gli permetterà di saltare la barriera delle minoranze.

Països Catalans: ritorno in trincea

Nel resto del Paese, sia nelle Isole Baleari che nella Comunità Valenciana, i partiti della tradizione e della cultura democratica, che hanno governato in coalizione, hanno subito una colossale battuta d’arresto, tanto che hanno perso il controllo di tutte le istituzioni: Generalitat, Governo delle Baleari, Corts Valencianes, Parlamento delle Baleari, Consigli delle Isole (compresi i tradizionali feudi progressisti di Minorca e Formentera),  Consigli provinciali e consigli comunali di grandi capitali e città. Il marchio “Podemos” è scomparso dai parlamenti e il PP è ancora una volta il loro padrone e signore, con l’aiuto complice di VOX. La destra perdona la corruzione e l’incompetenza se, allo stesso tempo, può continuare a mantenere il controllo politico che garantisce loro la continuità dei loro interessi. Un discorso profondamente spagnolo e reazionario in tutti i settori ha permeato ancora una volta tutto. D’ora in poi, la Lingua continuerà a soffrire ancora di più del processo di sostituzione, persecuzione e minorizzazione, mentre il turismo di massa si aggirerà liberamente, a scapito dell’ambiente, del territorio e della qualità della vita dei settori più penalizzati dalla crisi.

Alla timidezza, alla moderazione e alla modestia della sinistra nel portare avanti politiche di sinistra a cui abbiamo accennato prima, dobbiamo ora riferirci, per il caso di Valencia e delle Isole Baleari, all’indecisione, all’esitazione e ai complessi permanenti delle forze che le hanno governate, comprese quelle che si sono presentate con un pedigree sovranista, nel prendere decisioni nel campo dell’identità nazionale. Si sono perse straordinarie occasioni per rafforzare i legami tra tutti i Països Catalans, soprattutto in campo culturale, cessando di adottare misure che saranno ormai impossibili negli anni prossimi: Institut Ramon Llull, reciprocità televisiva, esigenze linguistiche nella funzione pubblica, insieme ad altre che riguardano la salute o i trasporti, in particolare ferroviari, e un’interconnessione generale molto più fluida in tutti i campi. Nascondere la Nazione, come mettere la sinistra sotto la sabbia, avvantaggia solo la Spagna e la destra.

Un nuovo fuoco

Sembrava che, dopo il crollo, ci fosse stata una reazione diversa da parte della direzione del partito che più ha sofferto la punizione elettorale. Ma, purtroppo, non è stato così, anzi, con sorpresa di molti militanti che si aspettavano un minimo di autocritica. Si sono trincerati nello stesso superbo discorso di superiorità morale su tutti, non c’è stato riconoscimento nemmeno di un semplice errore e vogliono persistere in strategie dagli esiti catastrofici, attribuendo la responsabilità del declino agli elettori e non alle decisioni che sono state prese. Nulla da dire sulla mancanza di iniziative governative entusiasmanti, l’assenza di grandi progetti nazionali, le strategie di alleanza completamente sbagliate, l’alienazione dall’elettorato, la distanza dalle persone che non vengono ascoltate prima di prendere decisioni, l’incapacità di individuare il vero avversario e una leadership insindacabile, senza discrepanze interne, con troppe persone dipendenti dal proprio lavoro garantito dalle sigle. Alcune dimissioni sono tuttavia indice della percezione che debbano cambiare alcuni atteggiamenti e, difficile da ammettere, delle persone.

Forse, generalmente ovunque, è giunto il momento di un grande cambiamento, di un nuovo fuoco, di voltare pagina. È il momento del ricambio storico, di nuovi volti, di pensionamenti anticipati, di approfittare di persone che ora sono lontane da tutto, in esilio professionale o politico, o che sono rimaste a casa, di chiarezza del messaggio, di comunicazione ben fatta, di proposte comprensibili, di cultura del patto democratico, di solidarietà effettiva con le vittime della repressione spagnola, di senso istituzionale e statale, di coraggio, di patriottismo, di umiltà, di idee fresche, nuove, utili per recuperare la capacità di mobilitarci di nuovo, di emozionarci e di essere di nuovo egemonici nelle strade e nelle istituzioni, di fare del nostro un popolo di uomini e donne uguali e liberi, pienamente sovrani tra popoli liberi e solidali.

Recuperare l’iniziativa nazionale

Nessuna situazione può essere paragonabile a quella precedente al 2012, perché fino ad allora si era in una fase autonomista che portava le cose al massimo limite con un grande consenso nazionale: uno Statuto confederale fatto in qualche modo, “ritagliato” e sfigurato dalle cattive arti dei socialisti e una Corte Costituzionale per la quale l’unità della Spagna era ed è più importante della democrazia. Ma, dal primo ottobre 2017, siamo entrati in un contesto totalmente diverso, una volta iniziato un processo di emancipazione nazionale che ha già cambiato tutto, perché gli ha conferito un carattere diverso e una prospettiva diversa. Forse sarebbe bene se smettessimo di illuderci e riconoscere che nel 2017 i nostri leader, nei momenti decisivi e più difficili, non sono stati all’altezza del compito. Ma ora non è il momento di fare a meno di nessuno, ma di contare su tutti e questo significa porre fine alla lotta estenuante tra sostenitori del President legittimo e del President legale, lotte sterili nel nostro campo, seguite con gioia dai nemici della nostra libertà, e in nome delle quali spendiamo energie inutili e contribuiamo a far perdere interesse alla politica.

Recuperare l’iniziativa significa stabilire un’agenda politica nazionale che stabilisca le nostre priorità, le priorità catalane per i tempi a venire, che non sono, e non possono essere, quelle della sinistra spagnola, ma nemmeno quelle della sinistra basca. Ogni terra fa la sua battaglia e il nostro obiettivo, ancora una volta, non può essere quello di fermare l’estrema destra in Spagna, ma di fermare la Spagna nei Països Catalans. La nostra priorità non deve essere la liberazione di duecento ex membri di un’organizzazione armata, ma la liberazione della Nazione catalana. E ricostruire ponti, facilitare la creazione di leader di fiducia, ma non messianici e incontestabili, organizzare un’agenda internazionale intelligente, costruire un’egemonia culturale capace di tessere complicità nazionali e popolari al di là delle sigle, perché nelle strade e a difesa delle urne eravamo tutti uniti, indipendentemente dalle nostre origini. Perché l’Indipendenza che vogliamo, l’Indipendenza per la quale molti di noi hanno lottato fin da adolescenti, non è l’Indipendenza di ERC, né quella di Junts, né quella della CUP, né quella dell’ANC, né quella di Òmnium, ma l’Indipendenza della nazione catalana.

Già pubblicato su https://www.naciodigital.cat

L’AUTORE – JOSEP-LLUÍS CAROD-ROVIRA

(Cambrils, Tarragona, 1952) – E’ stato “Conseller en cap” (2003-2004) e vicepresidente della Generalitat de Catalunya (2006-2010), deputato di ERC e Presidente del partito tra il 2004 e il 2008. Nel 2014 lascia la politica attiva per dedicarsi alla ricerca e alla scrittura. Attualmente è direttore della Cattedra di “Diversitat Social” della Universitat Pompeu Fabra.

#Kurds #Sweden – MENTRE OCALAN RIMANE SOSTANZIALMENTE “DESAPARECIDO”, PER LA SVEZIA L’INTEGRAZIONE NELLA NATO E’ ORMAI QUASI UNA CERTEZZA (A SPESE DEI CURDI PRESUMIBILMENTE) – di Gianni Sartori

fonte immagine @ Magnus Persson/Sopa Images/Zuma Press

Stando a quanto dichiarato dal segretario generale Jens Stoltenberg, l’adesione della Svezia alla Nato sarebbe ormai “assolutamente possibile”. 

Anzi, con la rielezione di Erdogan e mentre il Parlamento turco è in fase di costituzione, si sarebbe spalancata una nuova “finestra”.

Anche se – i soliti curdi rompi…. – un nuovo incidente, l’ennesimo, ha fatto infuriare il rieletto presidente turco.

Da tempo, oltre all’estradizione dei militanti curdi, Ankara pretende da Stoccolma un maggiore controllo sulla comunità curda in Svezia. Impedendo lo svolgimento di manifestazioni ostili al regime turco e a favore della liberazione di Ocalan, imprigionato dal 1999 a Imrali e da due anni completamente tagliato fuori dal mondo, al punto che si teme per la sua stessa vita.

La prossima iniziativa sarebbe prevista per domenica. Nel frattempo il “Comitato Rojava” ha diffuso un video in cui (oltre alla richiesta di scarcerazione per il leader curdo) si vedono chiaramente il volto di Ocalan e la bandiera curda proiettati nottetempo sulla facciata del parlamento svedese. 

Operazione definita da Ankara “inaccettabile” accusando il governo svedese di consentire attività propagandistiche a quelli che considera “fiancheggiatori del PKK”. 

Richiedendo – attraverso il portavoce della presidenza Fahrettin Altun – un’immediata inchiesta sull’episodio e l’arresto dei responsabili.

Minacciando in caso contrario di porre ulteriori ostacoli all’entrata della Svezia nella Nato.

Come è noto, dopo decenni di neutralità e di non-allineamento sia la Svezia che la Finlandia, avevano chiesto di poter aderire all’Alleanza atlantica.

E’ possibile che per dare il suo assenso, ora Erdogan pretenda in cambio (oltre alla repressione della diaspora curda) la fornitura da parte degli Stati Uniti  degli aerei da combattimento F-16 (come auspica da tempo).

Mentre per Blinken si tratterebbe di “due questioni distinte”, in precedenza Biden ne aveva già parlato in un incontro con Erdogan.

Purtroppo nel frattempo rimane drammaticamente incerta la situazione di Ocalan a cui per l’ennesima volta viene interdetta la possibilità di visite. Sia per i famigliari che per gli avvocati.

Le continue richieste degli avvocati per poterlo incontrare vengono regolarmente rigettate (anche recentemente, in aprile). A un precedente divieto assoluto di visita di tre mesi, in aprile se ne è aggiunto uno ulteriore per ben sei mesi.

Tuttavia gli avvocati non demordono e contro tale proibizione hanno immediatamente deposto richieste a livello individuale presso la Corte costituzionale (AYM).

Gianni Sartori