#Kurds #Repressione – KURDISTAN: ANCORA UNA “MORTE PICCINA” E INGIUSTA – di Gianni Sartori

ciao mæ ‘nin l’eredítaë
l’è ascusa
‘nte sta çittaë
ch’a brûxa ch’a brûxa
inta seia che chin-a
e in stu gran ciaeu de feugu
pe a teu morte piccin-a.

Così cantava De André in Sidùn, pensando ai bambini palestinesi e libanesi.
Oggi come oggi, probabilmente, dedicherebbe queste parole anche a tanti bambini curdi.
Anche al piccolo Erdem Aşkan, di cinque anni. Morto non sotto le bombe al fosforo, ma per un “normale” incidente stradale, uno come tanti.
Ma comunque – per le modalità e per gli eventi successivi – organico al clima di repressione genocida che nella Turchia di Erdogan si abbatte quotidianamente sulla popolazione curda. Minori compresi.
L’incidente si era verificato sulla strada per Van nella provincia di Hakkari (Bakur, Kurdistan del Nord sotto amministrazione turca) quando un veicolo blindato dell’esercito aveva investito Erdem Aşkan, un bambino di cinque anni. Alla guida del mezzo un sergente turco (qualificato come “esperto” e identificato solo con le iniziali A.K.P.) della Gendarmeria del distretto di Yüksekova. Per l’impatto il piccolo veniva proiettato a oltre cinquanta metri ed era deceduto. Tuttavia, invece di soccorrerlo, il militare aveva puntato la sua arma contro le persone che avevano assistito al dramma per allontanarsi immediatamente.
Sottoposto in un primo momento al fermo di polizia, dopo l’interrogatorio (nonostante la gravità del suo comportamento sul luogo dell’incidente) veniva rimesso in libertà se pur “condizionale”. Come massima restrizione, gli veniva ritirata la patente.
Un episodio che riporta all’ordine del giorno la questione della sicurezza sulle strade del Bakur, percorse quotidianamente (e in genere ad alta velocità) da migliaia di veicoli militari, in buona parte blindati.
Stando ai dati forniti da TIHV (Fondazione dei diritti dell’Uomo della Turchia) tra il 2018 e il 2022 almeno una ventina di persone (di cui una metà bambini) sono morte per essere state investite da tali mezzi. Oltre una cinquantina i feriti gravi (di cui almeno quindici sotto i 18 anni).
TIHV denuncia inoltre che per i responsabili degli incidenti (militari o poliziotti) praticamente non esistono sanzioni penali.

Rimane invece dietro le sbarre il giornalista curdo Abdurrahman Gök, “reo” di aver fotografato (e pubblicato l’immagine) un giovane curdo ucciso dalla polizia durante il Newroz del 21 marzo 2017. Non solo. Non gli vengono concesse visite e anche una sua lettera ad un altro giornalista è stata confiscata in questi giorni.
Forse perché vi era scritto che “questa lettera verrà completata quando sarà garantita la libertà di espressione”.

Destino assai diverso quello di un altro curdo, Hakan Fidan, già ministro dei servizi segreti turchi (MIT) sospettato di essere responsabile della morte e del sequestro di centinaia di curdi e altri oppositori in varie parti del pianeta.
Forse come riconoscimento per la sua esperienza a livello internazionale, Erdogan lo ha piazzato a capo del ministero degli affari esteri.
Tra i suoi precedenti, nel 2014 per giustificare un attacco militare in Siria (contro i curdi del Rojava, ça va sans dire) avrebbe detto (e pare scritto anche su YouTube, poi cancellato) che “Se fosse necessario potrei inviare quattro persone in Siria per lanciare una decina di granate contro la Turchia”.
Evidentemente nascere curdi non è una garanzia. Si può diventare un collaborazionista, un “ascaro” anche ai danni del proprio stesso popolo.
Di origini curde anche l’ex ministro delle Finanze Mehmet Simsek, attuale ministro dell’economia. In passato aveva goduto di una certa notorietà affermando che “le donne che lavorano sono la causa principale della disoccupazione”.
Ma oltre ad arruolare nei suoi ministeri questi – e altri come Cevdet Yılmaz – personaggi di origine curda, Erdogan ha portato in Parlamento vari esponenti di HUDAPAR, partito conosciuto come gli Hezbollah curdi (presumibilmente manovrati dai servizi e utilizzati per disgregare il movimento curdo in generale e quello delle donne curde in particolare).

Gianni Sartori

#Turkey #Women – DONNE IN TURCHIA: NON CERTO ROSE E VIOLE – di Gianni Sartori

fonte immagine @ DepoPhotos

Mentre i sostenitori di Erdogan tentano di impedire i concerti della femminista Melek Mosso, un medico molestatore rientra al suo posto ospedaliero. Tra le proteste della popolazione.

Ovviamente “tutto il mondo è paese” e non si pretende (tantomeno dall’Italia) di dar lezioni a nessuno, nemmeno alla Turchia.

Tuttavia a volte sembra che in alcuni contesti geopolitici le cose per le donne siano particolarmente difficili.

In questi giorni in Turchia due episodi (ma volendo sarebbero ben di più) sembrano dar conferma ulteriore.

Il 5 giugno Melek Mosso (Melek Davarcı), cantante turca, aveva dedicato un premio (Premio della musica PowerTurk) ricevuto quel giorno alle donne vittime della violenza maschile.

Dichiarando pubblicamente di essere riconoscente a tutte coloro che da secoli ormai “sono state giudicate, assassinate. Ma le nostre voci non saranno mai uccise. Nessuno potrà farmi tacere. Continuerò a parlare, a scrivere, a cantare“.

Quanto basta (e avanza) perché dai sostenitori del partito AKP partisse sui social una campagna per la sospensione di tutti i suoi concerti. E’ risaputo che nel ventennio dominato da Erdogan le violenze contro le donne sono aumentate in maniera esponenziale. Al punto che le militanti femministe parlano, a ragion veduta, di “genocidio delle donne”. E’ lecito pensare che tale situazione venga favorita, alimentata dal clima “culturale” che ha contraddistinto le politiche governative. Ma su questo è stato steso un velo impietoso.

L’interdizione, si prevede, interesserà in particolare le località amministrate dall’AKP. Al momento la boria dei sostenitori di Erdogan si va concentrando sul previsto concerto dell’11 giugno a Tekirdağ Süleymanpaşa per l’annuale “Festival delle ciliegie di Tekirdağ”.

Altra vicenda solo apparentemente diversa.

Decine di donne avevano denunciato le aggressioni sessuali subite dal medico İsmail Hakim, assunto all’ospedale del distretto di Pertek (provincia di Dersim, a prevalenza curda). Il medico, di origini pachistane, era stato anche arrestato, ma per altre ragioni. In quanto sospettato di far parte della confraternita FETÖ (v.Fethullah Gülen). In precedenza veniva ugualmente accusato di analoghe aggressioni nei confronti delle sue pazienti nella provincia di Izmir. Per precauzione era stato trasferito in un ospedale della provincia di Agri. Tuttavia, avendo fatto ricorso, recentemente è rientrato a Pertek. Dove evidentemente la sua presenza non è gradita, viste le mobilitazioni di questi giorni. Oltre alle donne che ne hanno subito le aggressioni, alle manifestazioni partecipano molti altri cittadini e militanti di Ong che ne chiedono le immediate dimissioni.

Gianni Sartori

#Asia #Popoli – ANCORA BOMBARDAMENTI SULL’INDIA TRIBALE – di Gianni Sartori

fonte immagine @ counterview.net

Mentre le agenzie turistiche continuano imperterrite a proporre viaggi organizzati ed escursioni (magari sotto scorta armata) nel “pittoresco mosaico etnico” dell’India profonda, giunge la notizia di altri bombardamenti governativi sui villaggi delle popolazioni originarie.

Sarà perché recentemente sono stato informato sul viaggio con scorta armata nelle aree tribali dell’India (alla ricerca del “pittoresco” presumo) di un personaggio vicentino con cui ho avuto modo di litigare assai. Sia per questioni politiche nel secolo scorso (militando in “opposte fazioni”, ma proprio opposte, incompatibili),sia più recentemente su questioni ambientali. Sarà perché ormai considero il turismo una forma di neocolonialismo e sfruttamento. Sarà anche per altre ragioni, ma leggere le offerte di agenzie e altro (compresa qualche rivista specializzata che in passato mostrava maggior rispetto per i popoli indigeni) dove si svende “l’incredibile mosaico tribale” che popola le colline dell’Orissa e del Bastar (Bonda, Gadabha, Desia Kondh, Kuttiya Kondh, Dongariya Kondh, Paroja, Maria, Muria, Dhuruwa…nda) mi ha proprio infastidito. Della resistenza delle popolazioni dell’Orissa, sottoposte a repressione e deportazione per consentire alle multinazionali di devastare le colline ricche di minerali, mi ero già occupato in varie occasioni (https://www.rivistaetnie.com/india-inferno-per-le-minoranze-etniche-e-religiose-126871/).

Del Bastar (attualmente un distretto dello Stato del Chhattisgarh) più recentemente per per i sistematici bombardamenti operati dall’esercito indiano sui villaggi tribali.

Come aveva denunciato a Strasburgo un’eurodeputata portoghese, Maria Matias. Una ulteriore conferma è venuta dai sopralluoghi effettuati dagli inviati del giornale Scroll.

Per il governo indiano la zona sarebbe “infestata dai naxaliti”. Ossia i guerriglieri maoisti che sostengono le popolazioni tribali (adivasi) nella loro battaglia quotidiana contro le devastanti attività estrattive. E contro cui da diversi anni è stata lanciata l’operazione militare denominata Samadahn-Prahar.

I bombardamenti aerei (e i mitragliamenti con elicotteri) sui villaggi (i più recenti in aprile, senza contare quelli degli anni precedenti) hanno chiaramente lo scopo di intimidire la popolazione e i gruppi ambientalisti ostili all’ulteriore realizzazione di miniere nel distretto.

Sfortunatamente per i nativi, le terre tribali sono ricche di risorse naturali e minerarie e scatenano gli appetiti di varie compagnie (in particolare del gruppo Adani).

La guerra a bassa intensità che si svolge nei territori contesi finora è costata la vita di migliaia di persone. Stando ai dati forniti un paio di anni fa dalla Commissione militare del Pci-m (Partito comunista dell’India-maoista), sarebbero morti a causa del conflitto circa tremila poliziotti, oltre duecento esponenti politici, un migliaio di “informatori e collaborazionisti” (veri o presunti naturalmente) e quasi cinquemila guerriglieri del PLGA (People’s Liberation Guerrilla Army).

L’ultimo caso accertato risale alla serata del 2 giugno quando Lazim Ansari è stato ucciso dalle forze di sicurezza nella foresta di Semla Bartoli Bhagat Kona (distretto di Gumla, Stato del Jharkhand). Originario dal villaggio di Kotam, l’esponente del Partito Comunista dell’India (maoista), era da tempo ricercato 

Gianni Sartori

#Kurds #Rojava – RESISTENZA CURDA, ORA E SEMPRE! – di Gianni Sartori

fonte immagine @ ANF

Mentre le pressioni di Erdogan influenzano l’agire politico sia della Svezia che dell’Iraq, in Rojava le milizie filo turche incendiano i raccolti. Curdi quindi sempre sotto tiro, ma anche sempre indomiti. Per quanto “senza altri amici che le Montagne”.

Curdi sempre all’ordine del giorno. Anche se talvolta – penso – ne farebbero anche a meno.

Nell’indifferenza (eufemismo) di cancellerie e media (in buona parte almeno) occidentali che proprio non sembrano vedere, rendersi conto del dramma che si va compiendo ai danni di questo popolo coraggioso.

Non dico di fornire gli F16 alle YPG, ma almeno un po’ di informazione, cazzo!

D’altra parte, di questi tempi poi, nessuno sembra voler mettersi a discutere con Erdogan & C.

Ma i curdi resistono e con loro anche qualche residua minoranza non omologata, ancora solidale e internazionalista.

A Stoccolma domenica pomeriggio si è svolta una manifestazione, a cui hanno preso parte centinaia di persone, indetta per dire “NO alla Nato e alle leggi di Erdogan in Svezia”. Ossia contro l’inasprimento legislativo (entrato in vigore da circa una settimana), sostanzialmente un modo per assecondare le richieste del neoeletto presidente turco Recep Tayyip Erdoğan.

E con cui si finirà per far pagare ai curdi (sia con la repressione, sia con le estradizioni) l’entrata della Svezia nell’Alleanza atlantica.

Tra gli organizzatori, la rete “Alleanza contro la Nato” (NEJ TILL NATO), varie organizzazioni curde, movimenti di sinistra (anarchici, comunisti, femministe…) e per la giustizia climatica. Oltre a qualche organizzazione per la difesa dei Diritti umani, da segnalare la presenza di alcuni intellettuali e di esponenti politici.

Con le nuove norme vengono inasprite le pene per la partecipazione, la promozione e il sostegno a quella che viene considerata un’organizzazione terrorista (sostanzialmente il PKK, ma la legislazione finirebbe per colpire anche dissidenti e oppositori politici), sia in patria che all’estero. Con pene previste fino a cinque anni.

Per Erdogan finora la Svezia avrebbe offerto asilo a quelli che in Turchia vengono considerati “terroristi”, sia membri del PKK (veri o presunti), sia esponenti dell’opposizione politica curda.

Da ciò il suo veto all’ingresso della Svezia nella Nato (come il Paese scandinavo aveva chiesto ancora l’anno scorso).

Intanto sembra si stia allentando l’assedio dei militari iracheni al campo per rifugiati di Makhmour (Kurdistan entro i confini iracheni). Stando alle dichiarazioni di Yusuf Kara, copresidente dell’Assemblea del campo il ritiro sarebbe già stato completato.

Dopo 16 giorni di assedio e altrettanti di resistenza popolare e grazie agli accordi presi congiuntamente nei negoziati che si sono svolti a Bagdad.

Qualcosa del genere era già accaduto nel 2021 (con chiusura degli accessi e barriere di filo spinato intorno al campo), quando Barzani (PDK) aveva sottostato al volere di Ankara. Così  allora come in questi giorni, il fine nemmeno tanto celato sarebbe quello di costringere gli abitanti del campo all’evacuazione. Nonostante non si siano resi responsabili di nessuna violazione della legge irachena.

Intanto in Rojava, ancora una volta e non casualmente nella stagione del raccolto, diversi incendi dolosi sono scoppiati nei campi dove il grano è ormai maturo.

Da manuale: incendiare i raccolti – così come “avvelenare i pozzi” – rientra  nei metodi delle “guerre a bassa intensità”. In Rojava, relativamente bassa comunque.

In genere la Turchia ricorre al bombardamento con cannoni e mortai, oppure al sabotaggio per mano di incendiari prezzolati che appiccano il fuoco. Alcuni sono anche stati catturati dalle forze di sicurezza curde e – oltre a telefoni e carte SIM fornite direttamente da una rete turca – erano in possesso anche delle coordinate delle principali fattorie.

Ovviamente quella che viene messa in serio pericolo è la sicurezza alimentare delle popolazioni locali.

Un ulteriore tentativo per costringerle ad andarsene, a trasformarsi in sfollati, profughi.

Gianni Sartori