#DialoghiSulWeb – i #Podcast di Centro Studi Dialogo – #Trentino – L’identità tirolese dei trentini – reg. 04.11.2022

Nella ricorrenza di un anniversario che ha interessato in prima persona il popolo trentino, incontriamo Carlo Simeoni, ricercatore storico e scrittore, per ricostruire le traversie di una popolazione, coinvolta in un conflitto dal nazionalismo italiano, schiacciata dal Fascismo e che anche nel secondo dopoguerra ebbe difficoltà ad ottenere il riconoscimento della propria identità.

#Ambiente #Opinioni – AFRICA: AIUTIAMOLI (A INQUINARSI) A CASA LORO? – di Gianni Sartori

Per chi scrive (sempre più pervaso da pessimismo cosmico in merito al futuro, sia sul piano sociale che – ancor più – su quello ambientale) l’ennesima conferma. Del fatto che – stando così le cose (con le ideologie dominanti del profitto, delle gerarchie, dell’antropocentrismo…) in questo sistema capitalistico (in senso lato, anche quello di stato), fondato su rapporti sociali di sostanziale prevaricazione e sfruttamento (per quanto talvolta edulcorati e riverniciati) non c’è via d’uscita. Anche le soluzioni proposte “a fin di bene” si rivelano – nella migliore delle ipotesi – inutili, specchietti per le allodole (povere!). Se non addirittura controproducenti.

Risaliva a due anni fa (in occasione della Giornata mondiale delle api) la notizia che in base a studi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), si stava pensando all’utilizzo di api africane (oltre che per sfamare le popolazioni locali) per salvaguardare l’apicoltura e la produzione di miele in Europa e Nord America (e uno!).

Negli ultimi anni in Europa e Stati Uniti intere colonie di api risultano scomparse. Negli USA nella seconda metà del secolo scorso, in circa 60 anni, più della metà. Sarebbe andata un po’ meglio in Europa con una perdite del 20% negli ultimi venti anni.

Inoltre, sempre stando all’Europa, quasi il 10% degli insetti impollinatori si trova ormai sulla soglia dell’estinzione. Un problema non indifferente se pensiamo che la stragrande maggioranza delle piante dipende da questo tipo di impollinazione.

Tra le cause principali, la diffusione dei pesticidi, eufemisticamente: “fitosanitari”. Oltre a un generale indebolimento delle varietà europee, legato presumibilmente a carenze alimentari, diventate più fragili nei confronti degli agenti patogeni.

L’idea della Fao sarebbe stata quella di utilizzare api mellifere africane (descritte come “più aggressive e più resistenti”). Si tratta per lo più di insetti ancora allo “stato brado” (buon per loro!) che si rifugiano nelle cavità degli alberi o delle rocce. E che – sottolineava il documento della Fao – soprattutto godono di ottima salute. La qualità del miele prodotto sarebbe eccellente come confermano gli apicultori sudafricani che le impiegano (dopo averle “addomesticate”) da molti anni. Anche se – data la loro “aggressività” – ricorrono ad alcuni espedienti come l’utilizzo di alveari singoli, di un abbigliamento adeguato (tute complete con stivali, guanti e velo) e soprattutto di grandi quantità di fumo.

Stupore quindi nell’apprendere che in questi giorni – proprio a causa di un intervento promosso dalla Fao – in Africa si stia calcolando non in milioni, ma in miliardi il numero di api morte a causa dei pesticidi (e due!).

Apprendo infatti da Nigrizia (sempre il meglio del meglio per l’informazione – e non solo – sul Continente africano) del 22 maggio che:

”per due anni la Fao ha usato in Etiopia e Kenya oltre 1 milione di litri di “insetticidi convenzionali”, alcuni finanziati dall’Unione europea che però sul suo territorio ne aveva vietato l’uso”.

Tra il 2019 e il 2021 (in coincidenza con il dilagare del Covid-19) le locuste del deserto (Schistocerca Gregaria, in genere provenienti dalla penisola arabica) planarono a sciami sulle terre dell’Africa orientale, Kenya ed Etiopia in particolare. Mettendo a repentaglio la sicurezza alimentare di milioni di oersone.

La risposta è stata quella di inondare con i pesticidi chimici (di sintesi) milioni di ettari di terreno. Sia quelli a colture che quelli a pascolo.
Stando alle indagini del Topfer Muller Gabner (Tmg, centro di ricerca berlinese), pubblicate su Agronomy, solo in Etiopia questo avrebbe provocato la morte di miliardi di api (e l’abbandono degli alveari per altrettante), con un forte calo nella produzione di miele.

Curiosamente, se vogliamo, il Tmg è il settore di ricerca di un ufficio di consulenza fondato da ex funzionari della Fao (e tre!) e del Programma per l’ambiente della Nazioni Unite.

Ora questi esperti fuoriusciti dalla Fao (stando a quanto dichiarato dalle agenzie) avanzerebbero “critiche al finanziamento dato dall’Unione europea, tramite la Fao, per l’approvvigionamento di agenti chimici da tempo vietati nell’Ue”.

In particolare il pesticida clorpirifos che – si è scoperto – produrrebbe “danni cerebrali nei bambini piccoli e in quelli non ancora nati”.

(Allora il cerchio si chiude? Forse, o anche no…staremo a vedere).

Per la cronaca (nera?):

L’Etiopia ha fatto uso principalmente di malatione e clorpirifos (quest’ultimo vietato in Europa e comunque entrambi ritenuti tra i più nocivi per le api) mentre sul Kenya si è sparso deltamethrin e fenitrotion (anche questo vietato in Europa). Conosciuti come “organo-fosfati” tali sostanze “disinfestano” in breve tempo, ma con spiacevoli effetti collaterali. Non solamente sulle api, ma sulla microfanuna (altri insetti, uccelli, piccoli mammiferi e rettili) e sugli ecosistemi in generale.

Ma quello che sembra preoccupare maggiormente organizzazioni internazionali e autorità è la “perdita di circa 500 milioni di dollari” per il calo dell’80% della produzione di miele (tra il 2017 e il 2021).

Più intelligentemente (e più eticamente per quanto umanamente possibile) la Somalia avrebbe contrastato le locuste con il metarhizium acridum (considerato un “bio-insetticida) e soprattutto con il teflubunzuron (un regolatore di crescita degli insetti). Non sarà la panacea, ma meglio che niente. Mi permetto di suggerire maggior rispetto per quei volatili che di locuste fanno scorpacciate (vedi le cicogne). Un po’ come – si parva licet – da noi gli aironi cenerini con il cosiddetto “gambero killer” (di importazione) e gli storni (strioi) con le cimici orientali (quelle scure).

Lievemente sconcertante ricordare che solo pochi giorni fa (maggio 2023) alcuni apicultori veneti (veronesi e vicentini) avevano annunciato di aver avviato un progetto umanitario (“contro la denutrizione infantile” e per “lo sviluppo di una nuova economia locale” bassata sui piccoli produttori) in Africa, rispettivamente in Guinea Bissau e in Angola.*

Con “corsi intensivi” di due settimane per gli apicoltori della Guinea Bissau a cui avrebbero anche donato varie attrezzature (arnie, smielatori, bilance, tute…).

Insegnando, cito testuale “…a fare ulteriormente selezione, per addolcire il carattere ancora selvaggio e un po’ aggressivo che le loro api conservano, in modo da lavorare più facilmente…”.

Non solo. Ora, invece del “miele dal gusto affumicato che riuscivano a fare con metodi tradizionali, oggi sono passati a produrre ottimi mieli di varie tipologie”. Non discuto le buone intenzioni, ma posso dire che intravedo un atteggiamento vagamente paternalistico …?

In realtà direi che anche in questo (utilizzo dei pesticidi inteso come omologazione, una forma di neocolonialismo…) l’Africa si va “modernizzando”.

Quello che sta accadendo (chissà cosa ne direbbe Rachel Carson ?) è in sintonia con recenti episodi che si sono manifestati nel Veneto. Vedi nel novembre dell’anno scorso proprio in Lessinia con forse un milione di api morte, tutte nello stesso luogo, nel giro di poche ore. Le analisi effettuate hanno dato conferma che si trattava di “avvelenamento fulminante da pesticidi”.

Più recentemente migliaia di api risultavano sterminata nei pressi di Abano per i pesticidi sparsi su un campo di colza (qui l’amministrazione sarebbe intervenuta prontamente, forse preoccupata per le possibili disdette dei turisti teutonici, in genere attenti a ‘ste cose)

Gianni Sartori

nota 1: (le care vecchie ex colonie portoghesi che negli anni sessanta e settanta, insieme al Mozambico, infiammarono i nostri cuori con le loro lotte per l’indipendenza. Un pensiero commosso per Amilcar Cabral, Agostinho Neto, Eduardo Mondlane… e anche per Ruth First e Pietro Bruno). Paradossale – a mio modesto avviso – che proprio in questi giorni un ministro diciamo “di destra” debba incontrare, a pranzo o a cena, il presidente dell’Angola. Ben sapendo quanti italici neofascisti combatterono in Angola al fianco dei Sudafricani (quelli dell’apartheid che l’avevano invasa) e del collaborazionista Savimbi…mah?!?

#Kurdistan #News – CON UN COMUNICATO IL KCDK-E DENUNCIA LA SITUAZIONE DEL CAMPO PER RIFUGIATI DI MAKHMOUR – di Gianni Sartori

fonte immagine @ Rojnews

Sulla questione campo per rifugiati Rustem Cûdî à Makhmour, circondato da giorni dai soldati iracheni, è ora intervenuto il Congresso delle società democratiche del Kurdistan in Europa (KCDK-E). Chiedendo apertamente la mobilitazione internazionale a sostegno dei rifugiati curdi.

Fondato nel 1998, Makhmour ospita attualmente oltre 12mila persone e sorge a una sessantina di chilometri a sud-ovest di Hewlêr (Erbil), la capitale del Kurdistan del Sud (Bashur, in territorio iracheno).

Per la maggior parte si tratta di curdi costretti nell’ultimo decennio del secolo scorso ad abbandonare i loro villaggi del Bakur (Kurdistan del Nord, entro i confini turchi) per sfuggire alla repressione di Ankara.

Gestito finora in maniera autonoma (sulla base dei principi del Confederalismo democratico) costituisce probabilmente la più consistente comunità di rifugiati curdi al mondo.

Nel comunicato del KCDK-E si denuncia che mentre “lo Stato turco continua a rappresentare una minaccia per i territori del Kurdistan” contemporaneamente “Makhmour viene posto sotto assedio”. In un contesto già preoccupante di suo, con le elezioni in Turchia che saranno determinanti per il futuro dell’intera regione. Così, da un lato “il governo fascista dell’AKP-MHP, in collaborazione con gli Stati reazionari, continua nei suoi attacchi genocidi contro il popolo curdo”. Dall’altro l campo di Makhmour, teoricamente sotto la protezione dell’HCR delle Nazioni Unite (e – ripeto – finora autogestito) “subisce ora l’assedio del PDK e del governo iracheno”. In realtà è dal 2014 – a causa degli attacchi dello Stato islamico – che la presenza dell’ONU qui è soltanto nominale.

Il timore espresso dal KCDK-E è che anche da parte irachena si intenda procedere con metodi definiti “genocidi”. Il campo starebbe per essere isolato, circondato con recinzioni metalliche e si fa insistente la voce di un imminente attacco militare vero e proprio. Nella mattinata del 20 maggio, senza preavviso, alcuni rappresentanti del ministero degli Interni e della Difesa iracheni (supportati da personale militare, forze speciali e unità di polizia) si erano recati a Makhmour per imporre manu militari (con una sfilata di veicoli blindati) l’istallazione delle recinzioni metalliche. Con la chiara intenzione di chiudere tutte le via di accesso al campo, tranne quella principale, con barriere in cemento sulla strada e torrette di guardia. Se i rifugiati curdi non sono rimasti a guardare, protestando vigorosamente, da parte dei soldati iracheni si è risposto sparando in aria (un ferito accertato tra i rifugiati). Già in altre occasioni si era cercato di circondarlo con il filo spinato, ma la resistenza dei residenti aveva costretto le autorità a desistere.

Gianni Sartori

#Asia #Pakistan #Opinioni – IL PAKISTAN BRUCIA, MA NON PER QUESTO SI DEVE RINUNCIARE ALLE SETTIMANE BIANCHE…CI MANCHEREBBE – di Gianni Sartori

fonte immagine @ Akhtar Soomro/REUTERS

Il Pakistan, già in sofferenza per gli attacchi dell’estremismo islamico e per i disastri ambientali, rischia forse di precipitare nella guerra civile. Niente di nuovo naturalmente. Almeno per le minoranze etniche e religiose e – soprattutto – per le donne, i bambini, i diseredati.

 Vittime designate di una costante “guerra a bassa intensità”.

 Ma l’importante e continuare a sciare sulle “cime inviolate” del terzo Polo. Come non mancano di segnalarci amabilmente su Instagram (mi dicono) i vacanzieri d’alta quota nostrani.

Ma cosa sta succedendo in Pakistan? Davvero siamo alle soglie di una guerra civile? O stiamo assistendo al preludio (“con altri mezzi”) della campagna elettorale in vista delle elezioni di ottobre (salvo modifiche, rinvii)?

In realtà per alcune minoranze etniche o religiose: hazara (https://centrostudidialogo.com/2021/01/26/asia-popolioppressi-pakistan-il-dramma-dimenticato-degli-hazara-di-gianni-sartori/ ), beluci (https://www.rivistaetnie.com/pakistan-spariscono-minoranze-etniche-132877/ ), (https://www.rivistaetnie.com/pakistan-eliminazione-fisica-dei-beluci-127008/ ) cristiani (https://www.rivistaetnie.com/zafar-bhatti-condannato-a-morte-133615/ ), sciiti…così come per le donne, i bambini e un gran numero di diseredati, la situazione era già difficile. Tra attentati, aggressioni, (guerra a bassa intensità?), discriminazioni…che si vengono a sovrapporre (con effetti sinergici) alla grave crisi economica e alla disastrosa situazione sanitaria (https://bresciaanticapitalista.com/2022/10/11/mentre-le-popolazioni-e-i-territori-pakistani-se-la-passano-sempre-peggio-gli-scanzonati-turisti-dalta-quota-insistono-nella-conquista-delle-vette/ ). Per non parlare di alluvioni e altre emergenze ambientali (https://centrostudidialogo.com/2023/03/19/asia-sindh-a-sei-mesi-dallalluvione-nelle-zone-devastate-la-popolazione-resta-in-attesa-di-gianni-sartori/ ). Ma questo non sembra turbare più di tanto i vacanzieri  (https://centrostudidialogo.com/2020/02/17/pakistan-ma-sono-moralmente-accettabili-le-settimane-bianche-in-paesi-sottoposti-a-regimi-militaristi-e-repressivi-di-gianni-sartori/ ). Sempre intenti a individuare qualche residua “cima inviolata” (lapsus rivelatore?) da cui scendere con gli sci (anche qualche giorno fa nella regione del Gilgit-Baltistan).

Mentre – che so – negli anni ottanta del secolo scorso era quasi normale (almeno per persone con un minimo di coscienza sociale, politica…) boicottare almeno turisticamente un paese come il Sudafrica dell’apartheid e in epoca più recente la Turchia che reprime il popolo curdo, oggi come oggi andare a trascorrere le “settimane bianche” in Pakistan per alpinisti, escursionisti e sciatori nostrani non sembra assolutamente fuori luogo. Anche a persone che magari poi se la tirano con le questioni umanitarie e ambientali.

Ultimamente uno dei personaggi più in vista, noto per le sue superspedizioni sponsorizzate (neocolonialismo?) è andato in televisione a denunciare il riscaldamento globale consigliando ai comuni mortali di “farsi meno docce”!

Cominciasse lui a rinunciare a elicotteri e altro, magari si potrebbe anche riparlarne.

O quelli che mentre denunciano lo scioglimento dei ghiacciai del “Terzo Polo” vi contribuiscono con i loro mezzi (nel senso di veicoli).

Detto questo, segnalo un recente avvenimento, sintomo emblematico di una situazione in via di ulteriore degrado (e qui non mi riferisco a quello ambientale).

Qualche giorno fa Muhammad Alam Khan, un poliziotto assegnato alla protezione della Catholic Public High School (una scuola cattolica femminile) nel nord-ovest del Pakistan (a Sangota, nella valle dello Swat, provincia del Khyber Pakhtunkhwa), ha aperto il fuoco contro il pulmino che trasportava le allieve uccidendone una di 8 anni e ferendone altre sei e un’insegnante.

Il tragico episodio è avvenuto nella stessa regione da cui proviene Malala Yousafzai, l’attivista premio Nobel per la pace per aver condotto una campagna contro il divieto all’istruzione femminile imposto dal Tehreek-e Taliban Pakistan (TTP, i talebani pakistani). Nel 2012 anche lei era stata colpita alla testa da un proiettile sull’autobus per tornare a casa da scuola, mentre anni fa la Catholic Public High School aveva dovuto chiudere per le minacce e per gli attentati.

Nel 2022 in questa provincia si sono registrati almeno 225 attentati (“solo” 168 nel 2021). O almeno secondo le cifre ufficiali. Da parte loro i miliziani legati alTTP ne avevano rivendicato oltre 360. Senza dimenticare gli attacchi di un’altra organizzazione jihadista- terrorista operativa anche in Pakistan: lo Stato islamico che solo nel marzo 2022 aveva ucciso oltre 60 persone.

E anche il 2023 non sembra promettere bene. Solo nei primi quattro mesi sono già 180 quelli ufficiali.

Nel gennaio di quest’anno i talebani pakistani avevano rivendicato anche il sanguinoso attacco suicida (con oltre una trentina di morti e centinaia di feriti) ad una moschea di Peshawar, situata in un complesso dove si trova il quartiere generale della provincia del Khyber Pakhtunkhwa.

Per completezza va anche ricordato che gli attentati non sono monopolio esclusivo degli estremisti islamici. Un attacco suicida dell’agosto 2021 nella città di Gwadar (contro un veicolo cinese) era stato rivendicato dai separatisti beluci.

Una situazione drammatica, convulsa e foriera di ulteriori lutti.

Non per niente tra le questioni sollevate dall’attuale conflitto interno tra governo e opposizione (ma anche tra militari e una parte della società civile) appare rilevante l’accusa di ambiguità rivolta all’ex primo ministro Imran Khan. Per aver consentito, favorito il rientro in patria dei talebani pakistani purché garantissero di deporre le armi (cosa auspicabile ma difficile da realizzare). Come era prevedibile, nonostante le trattative per il loro reinserimento e per una “soluzione politica” del conflitto, dopo poco tempo gli attentati erano ripresi. Alimentando il sospetto che i colloqui, le trattative avessero in realtà consentito al Ttp di riorganizzarsi.

Quanto alle numerose azioni giudiziarie lanciate contro il leader del Pakistan Tehreek-e-Insaf (PTI) per corruzione e reati finanziari (e anche un probabile tentativo di eliminarlo fisicamente, stroncato dalla mobilitazione dei militanti del PTI), presumibilmente in parte strumentali, per ora sembrano aver portato più che altro all’incarcerazione di tanti suoi seguaci. Pare anche dietro sua indicazione: farsi arrestare per “saturare le carceri e screditare il governo” … (quanto meno un rischioso azzardo direi).

Tra le accuse principali, quella relativa all’Al-Qadir Trust, proprietà di Khan e della moglie, a cui l’impresa immobiliare Bahria Town avrebbe fornito un terreno del valore di 530 milioni di rupie (1,71 milioni di euro)

Ma forse Imran Khan sta anche pagando il prezzo di un suo avvicinamento alla Russia (malvisto dagli Usa, oltre che dall’India per ragioni inverse).

Questo potrebbe aver innescato la rottura con l’esercito e favorito la sua defenestrazione.

Come è noto l’ex primo ministro è stato arrestato (a quanto sembra da un gruppo paramilitare legato ai servizi segreti) mentre si trovava all’Alta corte di Islamabad per testimoniare in un processo.

Naturalmente non mancano (anche a sinistra, tra quella più “campista”) gli estimatori del regime pakistano.

Pensando di intravedervi una componente di possibili ”blocchi egemonici alternativi musulmani” per un mondo multipolare contro l’imperialismo statunitense. Blocchi di cui potrebbero far parte sia la Turchia che l’Iran e in buoni rapporti con Russia e Cina. Sarà, ma non mi convince. In realtà è più probabile che il Pakistan (come da tradizione) continuerà a giocare su due tavoli.Se con gli Stati Uniti prevale la collaborazione sul piano militare (e i finanziamenti), con la Cina va sviluppando l’aspetto commerciale (vedi la Via della Seta)..

Lasciando per ora da parte l’altro rischio, quello di un possibile conflitto nucleare con l’India. Magari a causa di un “malfunzionamento tecnico”, di un errore. Come quando nel marzo scorso l’India ha lanciato accidentalmente un missile supersonico in Pakistan. Caduto senza danni particolari nel Punjab (distretto di Khanewal).

Gianni Sartori