Di sicuro, tra manifestazioni, scontri e arresti, non si può certo dire che l’ultima settimana nella Repubblica di Maurizio (Republic of Mauritius, République de Maurice, in lingua creola mauriziana Moris) sia trascorsa tranquillamente.
Colonizzata successivamente da Olanda, Francia e Gran Bretagna, è indipendente dal 1968. Ma con l’esclusione del conteso arcipelago di Chagos (vedi il caso emblematico di Diego Garcia, base militare statunitense) e della piccola Isola Tromelin sotto amministrazione francese.
Oggetto comunque di sfruttamento neo-coloniale sotto varie forme (deforestazione, riduzione a “paradiso” turistico per gli occidentali…) con conseguente riduzione della biodiversità. Del resto era l’isola dell’estinto Dodo, massacrato dalle fameliche ciurme in transito.
In questi ultimi giorni gli annunciati ulteriori aumenti del prezzo delle derrate alimentari di prima necessità (farina, latte…) così come di gas e carburante, ha innescato dure proteste da parte della popolazione esasperata.
Nel pomeriggio e nella serata del 21 aprile i primi scontri con la polizia nel quartiere di Camp-Levieux, poco a sud di Port Louis. Altre manifestazioni, sostanzialmente pacifiche il 22.
Ma la protesta si riaccendeva in diverse zone dell’isola il giorno successivo (sabato 23 aprile), proseguendo per tutta la serata e nelle prime ore notturne. Con barricate, lanci di pietre, incendi di mezzi della polizia e dei camion dei pompieri.
Dal canto loro le forze dell’ordine avevano risposto con granate lacrimogene e – sembrerebbe – anche sparando.
Diversi poliziotti dovevano ricorrere alle cure mediche, così come anche alcuni pompieri.
In nottata un padre di famiglia, Jean-Francois Gowin, veniva ferito da un colpo di arma da fuoco (di provenienza finora non accertata) nel quartiere Résidence-Barkly di Beau-Bassin.
Al momento (25 aprile) è ancora ricoverato in gravi condizioni e sottoposto a cure intensive nell’ospedale Victoria di Candos. Secondo i medici – che disperano di salvarlo – potrebbe sopravvivere soltanto se sottoposto a delicati interventi impossibili da realizzare nell’isola. Dovrebbe quindi venir trasportato all’estero. Non possedendo il denaro necessario, i suoi familiari hanno chiesto un aiuto alle istituzioni statali in modo da poterlo trasferire e curare adeguatamente.
Forse per ridurre la tensione, il 25 aprile è stato rimesso in libertà (sotto cauzione) Dominique Seedeeal (Darren) un manifestante arrestato per aver preso parte alle manifestazione di Camp-Levieux. Già noto come attivista (vedi la sua pagina Facebook, Radio Mo Pep), al momento è accusato di “sedizione”. Dovrà comunque presentarsi quotidianamente per firmare in commissariato, rispettare il “coprifuoco” dalle ore 21 alle cinque del mattino e astenersi dal partecipare ad ogni genere iniziativa pubblica.
#25Aprile#PopoliAlpini ci sembra doveroso ricordare oggi chi si è battuto per la #Libertà con uno sguardo avanti, con una visione del futuro molto chiara. Stiamo parlando di #EmileChanoux e dei firmatari della famosa #CartaDiChivasso. Ve ne proponiamo una rilettura grazie al contributo tramessoci dal nostro amico ed associato Diego Genta Toumazìna e dal figlio Loïc.
Sono previste entro un mese le udienze dei baschi Ion Parot e Jakes Esnal, entrambi con più di 70 anni di età. Detenuti da oltre 32 anni (così come un altro prigioniero basco, l’altro fratello di Parot, Unai) dovrebbero già essere in libertà, ma nei loro riguardi sono scattate misure restrittive ulteriori e particolari (“d’eccezione”) così da mantenerli ancora dietro le sbarre.
Anche per questo, qualora non venisse loro concessa la libertà condizionale, ma rimanessero ancora in carcere, le organizzazioni che esprimono solidarietà ai prigionieri baschi (in particolare Bake Bidea e gli “Artigiani della Pace”) preannunciano di voler bloccare (letteralmente) tutto il Paese basco Nord (Ipar Euskal Herria, sotto amministrazione francese).
Il comunicato risale al 19 aprile (a pochi giorni di distanza dal giorno 8 aprile, quinto anniversario del disarmo di ETA) e annunciava in particolare iniziative pubbliche per il 13 maggio (a Bayonne) e il 19 maggio (a Saint-Jean-de- Luz) nei giorni previsti per le le due udienze. Un’altra azione di protesta è prevista per l’11 giugno a Lauga che dovrebbe diventare “l’espressione di massa di questo territorio e di tutte le sue componenti per sostenere il processo di pace e sorvegliarne i progressi”.
Nelle intenzioni dei promotori dovrebbe trattarsi di vere e proprie “azioni di disobbedienza civile”, così come per altre già annunciate (ma in data ancora da definire, forse “a sorpresa”) e che dovrebbero caratterizzarsi come maggiormente “significative e impattanti”.
Nel comunicato non mancava un riferimento alle elezioni francesi. “Vogliamo convincere il futuro governo – se leggeva nel comunicato – a inserire urgentemente la questione dei prigionieri nell’agenda politica”.
Invitando quindi i candidati alle prossime elezioni legislative a “partecipare pubblicamente e attivamente al processo di pace”.
Com’era prevedibile, quotidianamente sottoposto al “bombardamento” mediatico su quanto avviene – o si racconta – in Ucraina (mai visti così tanti inviati in Kurdistan, Yemen, Palestina…), vengo nuovamente meno al proposito di evitare di occuparmene.
Finora avevo sgarrato soltanto per celebrare l’audace antimilitarista russo fuggito dopo l’arresto (saltando da una finestra e scavalcando un muro alto oltre tre metri) e per ricordare Edy Ongaro, il compagno veneto caduto combattendo per l’autodeterminazione del Donbass (apparentemente su fronti contrapposti, ma solo apparentemente. o almeno da un certo punto di vista).
Ci ricasco per colpa di Staino, l’ideatore di “Bobo”.
Umanamente simpatico, generoso, ma talvolta – mi sembra – altalenante e confuso.
Qualche anno fa, inaspettatamente, me lo ero ritrovato tra i collaboratori di “A, Rivista anarchica” (durata quasi cinquant’anni per l’indefesso impegno del compianto Paolo Finzi) dove si dichiarava, tardivamente e ormai fuori tempo massimo, “anarchico” (pur rimanendo iscritto al PD).
Lui che oltre a quella nel PCI poteva rivendicare anche una precedente militanza da m-l. Non proprio il massimo da un punto di vista libertario. La collaborazione fu di breve durata e si concluse quando, su richiesta di Renzi, andò a dirigere nientemeno che l’Unità. Esperienza sostanzialmente fallimentare e destinata a non durare più di tanto. Da allora lo avevo perso di vista. Ops! Un lapsus evidentemente; so che Staino (come anche Luigi Manconi) sta letteralmente perdendo la vista, una tragedia per un disegnatore e su questo gli esprimo tutta la mia umana solidarietà.
Me lo ritrovo ora – Staino – in polemica con l’ANPI per via delle posizioni critiche assunte da una parte della stessa in merito all’invio di armi in Ucraina. Ora, fermo restando che ogni opinione è lecita, quello di Staino mi sembra un caso da manuale. Un maldestro tentativo di rifarsi una verginità. Lo sto riscontrando in molti compagni, (o forse ex-compagni) socialdemocratizzati – o peggio – dopo anni di fedele osservanza leninista.
Tra gli altri Erri de Luca (qualcuno ricorda le “polemiche” – eufemismo – tra femministe e servizio d’ordine di Lc negli anni settanta?) o addirittura l’ottimo (sia detto senza ironia, va sicuramente encomiato per il suo impegno in difesa delle vittime di ogni genere di ingiustizia, anche quelle istituzionali, vedi il caso di Mastrogiovanni) Luigi Manconi, un altro ex di Lc. Tutti favorevoli, senza se e senza ma, all’invio di armi in Ucraina.
Così come molti di quelli che, all’epoca della mia tarda adolescenza di proletario auto-alfabetizzato con velleità consiliari, mi apostrofavano con “faremo come in Spagna”. Un evidente riferimento al maggio 1937 di Barcellona e all’agosto ’37 in Aragona contro gli anarchici della CNT, i poumisti e le collettività libertarie. Sorvoliamo sul fatto che rivendicare l’assassinio di Nin, Berneri, Barbieri e altre centinaia di militanti libertari (perfino un fratello di Ascaso!) puzzava più di stalinismo che di leninismo. Non parliamo poi di Kronstadt e della Machnovščina, la grande avventura comunista libertaria che infiammò buona parte – appunto- dell’Ucraina almeno fino al 1921. E qui si aprirebbe un altro contenzioso con gli eredi di Leon Trotsky, il maggior responsabile della dura repressione sia di Kronstadt che della Machnovščina. Magari un’altra volta.
All’epoca, fine anni sessanta, primi settanta, mi capitò spesso di litigare sia su queste questioni (Kronstadt, Machnovščina, maggio ’37…) sia, per esempio, sulla rivolta ungherese del 1956 che – avendo letto qualcosa dei situazionisti – avevo inquadrato come “consiliare, soviettista” (del resto era partita dall’iniziativa del consiglio di una fabbrica di lampadine). O anche sulla Primavera di Praga 1968. Ricordo – a Vicenza – una manifestazione per il martirio di Jan Palach al grido di una parte del corteo: “Vietnam Libero, Cecoslovacchia Libera!”.
Potrei continuare, ma osservo soltanto che ora me li ritrovo (i sopravvissuti almeno) cambiati e non in meglio.
Se non proprio tutti, perlomeno parecchi: atlantisti, europeisti, liberisti e soprattutto anticomunisti.
Comunque dalla parte di un potere.
Per cui, paradossalmente e non avendo particolari scheletri nell’armadio (non di questo genere almeno), oggi mi ritrovo a difendere anche le ragioni dell’Unione sovietica (pur sapendo che di autenticamente “sovietico” dopo il ’21 rimaneva poco). Perlomeno ci avevano provato, a superare lo stato di cose presente. Anche se poi i risultati, va detto, furono piuttosto deludenti.
Non quelle di Putin ovviamente e nemmeno dei compagni “campisti”.
Ma questo nuovo atteggiamento che ho riscontrato in diversi esponenti della mia generazione (quelli del ’68 a grandi linee) è solo un elemento ulteriore di confusione in un contesto già complicato e ambiguo di suo.
Pensiamo alle falsificazioni (o forse solo scemenze frutto di ignoranza) udite alla tv sulla “scalinata Potenkin” (dimenticando che la rivolta dei marinai scoppiò sull’incrociatore omonimo, quando la scalinata era ancora denominata “Gradinata Richielieu”). Un inviato evidentemente non al corrente dei fatti (se si esclude l’incongrua citazione in un film con Paolo Villaggio), si era spinto ad affermare (e senza che in studio nessuno lo contraddicesse) che qui si sarebbe scatenata la “sanguinaria repressione bolscevica” (nel 1905?), confondendo evidentemente le truppe zariste responsabile del massacro di civili (ma non sulla scalinata, bensì di notte per le strade di Odessa) con l’Armata rossa ancora di là da venire. Oppure alle farneticazioni sulla “svastica da interpretare come antico simbolo indoeuropeo” divulgate – ora – da quelli dell’Azov e prese per buona da certa stampa nostrana. Dimenticando – o semplicemente ignorando – che la svastica ostentata dall’Azov (insieme alla bandiera statunitense, a quella della Nato e alla Wolfsangel) è quella hitleriana, rovescia, non quella tradizionale ed è comunque inserita in campo bianco su sfondo rosso, come quella nazista doc.
Quanto alla Wolfsangel, di fatto la firma dell’Azov anche se talvolta viene rovesciata, sostanzialmente è lo stesso simbolo adottato dalla famigerata 2° divisione Panzer SS “Das Reich” (responsabile di stragi di civili in Francia, in stile Marzabotto, vedi quello di Oradour-sur-Glane nel 1944).
Scelto dall’Azov non a caso, ma per l’alto valore simbolico.
Infatti i reparti della “Das Reich” furono quelli che arrivarono fino a Mosca, a pochi chilometri dal Cremlino, raggiungendo il punto più avanzato dell’invasione tedesca della Russia. Inoltre combatterono in Ucraina a Charkiv.
Tra l’altro, contraddizione nella contraddizione, la runa Wolfsangel (in passato conosciuta come “dente di lupo”, oggi forse più correttamente come “amo per lupi”), negli anni settanta era stata adottata da Terza Posizione, di fatto l’antenata della neofascista Forza Nuova (vedi Fiore, Morsello…), organizzazione neofascista schierata, almeno ufficialmente, con Putin (sul fronte opposto di casa Pound).
Grande quindi la confusione sotto il cielo. Ma stavolta, a mio avviso, la situazione è pessima assai.
Approfittando dell’interessata “distrazione” dell’opinione pubblica, in particolare di quella occidentale, tutta concentrata sull’Ucraina, l’aspirante “pacificatore” Erdogan va intensificando gli attacchi militari contro la resistenza curda.
E – purtroppo – col sostegno di un partito curdo che a questo punto possiamo definire “collaborazionista”. Ovviamente mi riferisco al PDK (Partito Democratico Curdo).
Infatti gli attacchi nel Kurdistan del Sud (con un massiccio utilizzo di elicotteri, in particolare nella zona di Kurojahro), godrebbero non solo dell’approvazione, ma anche della collaborazione del partito di Barzani.
In un comunicato dell’Ufficio stampa delle HPG (Forze di Difesa del Popolo, braccio armato del PKK) si può leggere che “alle 22h36, nella notte del 21 aprile, elicotteri appartenenti all’esercito turco hanno attaccato la zona di resistenza di Kurojahro (zona controllata dal PKK nda) dopo aver sorvolato le zone controllate dal PDK controllato dal clan Barzani. Oltre agli elicotteri d’attacco e agli elicotteri Sikorsky S-61 (di fabbricazione USA nda ), le forze turche hanno utilizzato un elicottero Chinook (sempre di fabbricazione statunitense nda). L’esercito turco ha tentato di far atterrare dei soldati dagli elicotteri. Le nostre forze sono intervenute distruggendo gli elicotteri”.
Nel corso delle ore successive della notte l’esercito turco ha messo in campo un’altra decina di elicotteri e altri sarebbero stati danneggiati dai guerriglieri. Un altro è stato abbattuto in prossimità della base di Sîre a Shaladize al momento del decollo.
Intanto i combattimenti tra la guerriglia curda e l’esercito di Ankara proseguivano anche nella zona di Zap.
Paradossalmente, mentre il PDK mostra “comprensione attiva” (se non peggio) per le operazioni turche, il governo iracheno, attraverso il ministero degli Esteri, ha smentito le affermazioni di Ergogan sulla presunta collaborazione di Bagdad.
Testualmente, il portavoce del ministero, Ahmed Sehaf, ha dichiarato che “il ministero iracheno degli esteri considera l’operazione militare della Turchia come una palese violazione del territorio iracheno, pericolosa per l’integrità dell’irak. Questa operazione nuoce all’Irak e suscita molta inquietudine”.
Tuttavia, stando alle dichiarazioni di comando delle unità di resistenza di Shengal l’esercito iracheno starebbe attaccando la regione yazida di Shengal. Colpendo provocatoriamente le forze di sicurezza di Asayîşa Êzîdxanê e delle YBŞ e YJŞ (unità femminili di Shengal)
E questo starebbe accadendo sotto precisa richiesta sia del PDK che della Turchia.
Dal comunicato delle YBŞ si ricava che “nel pomeriggio del 18 aprile, l’esercito iracheno ha attaccato direttamente un posto di controllo di Asayîşa Êzîdxanê a Digur.
Le forze di sicurezza sono state costrette a rispondere all’attacco dell’esercito iracheno”. In realtà sarebbero stati esplosi, più che altro, colpi di avvertimento. Ma comunque nel breve scontro a fuoco sarebbero rimasti feriti sia membri delle forze di sicurezza che alcuni civili. Almeno un militante sarebbe deceduto per le ferite.
Altre provocazioni si registravano il 19 aprile, verso le 2 di notte, quando i soldati iracheni tentavano, invano, di catturare qualche civile. Si tratta di zone da cui le milizie dei curdi yazidi avevano scacciato l’Isis e che finora erano controllate congiuntamente da YBŞ e YJŞ con l’esercito iracheno.
Sempre dalla fonte delle YBŞ apprendiamo che “la nostra posizione finora si basava sulla soluzione di problemi non sulla risposta alle provocazioni. Non pensiamo che questi attacchi dell’esercito iracheno siano estranei a quelli del PDK e dello stato espansionista turco. Essi avvengono sotto la loro pressione, hanno lo scopo di riportare il nostro popolo sotto l’oppressione (…) e mirano a distruggere la nostra volontà politica riportandoci nella situazione del 2014”.
In precedenza, il 9 ottobre 2020, governo iracheno e PDK avevano concordato di liquidare l’autonomia della regione di Shengal (mentre la Turchia manovrava la riunione da dietro le quinte). Da parte loro le YBŞ, convinte che “i problemi si possono risolvere con il dialogo”, anche dopo l’ottobre 2020 avevano “continuato a lavorare per una soluzione concordata, ma dopo gli ultimi attacchi siamo costretti a reagire”.
Nel loro comunicato YBŞ e YJŞ rivendicando i loro “coraggiosi combattenti caduti a centinaia per la liberazione e la difesa di questo paese” ribadiscono con forza di aver “liberato il nostro popolo e la nostra terra in condizioni molto difficili conducendo una guerra implacabile contro il terrore dello Stato islamico senza mai abbandonare le nostre posizioni. Oggi come ieri siamo determinati a resistere contro qualsiasi attacco. Promettendo al nostro popolo di difendere la nostra terra ancestrale fino all’ultima goccia di sangue”.
Incontriamo Maurizio Onnis, Presidente di Corona de Logu, l’associazione degli amministratori pubblici indipendentisti sardi, per trattare argomenti di carattere territoriale ed internazionale, tra i quali spicca la visita in Sardegna del President catalano in esilio Carles Puigdemont.