
Se i curdi piangono (o almeno ne avrebbero ben donde, anche quando non lo fanno per forza di carattere), di sicuro i palestinesi non ridono.
Due popoli oppressi da decenni (come minimo) che le contraddizioni, le intemperie della geopolitica sembrano aver scaraventato sulle rive opposte (ma non contrapposte; forse complementari?) del grande fiume della Storia.
Talvolta i compromessi con cui si devono adattare, convivere (in sintesi: la collaborazione con gli USA per le YPG del Rojava; gli “aiuti”, non sempre disinteressati, di Teheran e Ankara per i palestinesi di Gaza) sembrano al limite del corto circuito (almeno per chi ancora crede nell’internazionalismo e nell’autodeterminazione dei popoli). Ma non mancano eventi di segno opposto che fanno ben sperare. Quando la reciproca solidarietà di fondo (tra popoli entrambi perseguitati, braccati, talvolta sterminati…) sa ancora riconoscersi e manifestarsi. Vedi, per dirne una, la visita – a Diyarbakir il 15 aprile 2019 – della palestinese Leila Khaled alla curda Leyla Güven. Da 159 giorni in sciopero della fame per chiedere la fine dell’isolamento del prigioniero politico Abdullah Öcalan.
Forse conviene riandare a quanto mi spiegava l’esponente del MOVE Ramona Africa (anni novanta, nel sede del Centro sociale Stella Rossa di Bassano, poi demolito): “Quando ti trovi di fronte a un’ingiustizia, l’importante non è la vittima, ma l’ingiustizia”.
Sul momento non compresi. Ma come, mi dicevo (impregnato di retaggi cristiani e di solidarismo vagamente pietistico) “non è importante la vittima?”.
In realtà, se si considera la Storia anche recente, può capitare che non sempre le “vittime” siano all’altezza del ruolo. Ossia non sempre e necessariamente buone, brave, disinteressate, del tutto innocenti come colombe. E addirittura le vittime di oggi si possono trasformare nei carnefici di domani.
Gli esempi non mancano. Ziegler ne elencava alcuni in “Le mani sull’Africa”.
I rivoluzionari del FLN diventati poi i carcerieri di altri algerini, non meno rivoluzionari di loro, ma dissidenti.
O, macroscopico, i bolscevichi russi che nelle medesime carceri dove erano stati segregati e maltrattati (vedi la famigerata Lubjanka), finirono per infliggere lo stesso trattamento ai loro ex compagni di lotta non allineati con le direttive del partito (per non parlare di quello che capitò agli anarchici).
Oppure pensiamo alle esecuzioni sommarie di presunte spie (anche solo per qualche sospetto) di cui si resero responsabili i Provisionals in Irlanda.
O l’eliminazione di militanti di altre organizzazioni (vedi tra gli Officials e l’INLA, emblematico il caso di Seamus Costelo) all’interno del movimento repubblicano irlandese.
Ciò non toglie che così come il popolo algerino e le classi subalterne della Russia, anche i cattolici irlandesi fossero sostanzialmente delle vittime. Del colonialismo britannico, delle discriminazioni. Indipendentemente dalle derive autoritarie, repressive – talvolta semplicemente criminali – di cui si macchiarono alcuni esponenti dell’IRA o dell’INLA.
Detto ciò, anche negli ultimi giorni sono giunte ulteriori conferme della situazione di perenne, quotidiana, persistente oppressione (al limite dell’apartheid) in cui versa la vessata popolazione palestinese.
Il 25 gennaio a Gerusalemme-Est i bulldozer israeliani hanno demolito un’altra abitazione, abitata ovviamente da una famiglia palestinese che è stata espulsa.
Una famiglia, quella dei Karameh composta da sedici persone.
Con la scusa, il pretesto, della mancanza del permesso di costruzione e rifiutandosi di prendere in considerazione i documenti presentati dal nucleo familiare palestinese. Immediate le reazioni di protesta che hanno portato inevitabilmente a scontri. Bilancio: nove palestinesi feriti (quelli di cui si è venuti a conoscenza) e una ventina di arrestati.
Qualche giorno prima, il 20 gennaio, un tribunale israeliano aveva imposto il domicilio coatto alla ricercatrice universitaria Somaya Falah con la proibizione di entrare nella città di Haifa per un mese e mezzo. Proibito anche l’uso del computer, del telefono e di ogni media elettronico (quindi anche internet) da qui a marzo.
Non solo. Il 25 gennaio il tribunale di Haifa le ha imposto una settimana supplementare di tale segregazione.
Somaya Falah, originaria di Arab al-Hib, è conosciuta come esponente di Hirak Haifa, un movimento giovanile che si occupa dei diritti dei palestinesi.
Qualche giorno prima della prevista manifestazione di solidarietà con Hisham Abu Hawash (in sciopero della fame) la polizia israeliana era entrata in casa della giovane impadronendosi del suo cellulare e del computer. Veniva inoltre portata via per essere interrogata. Subiva poi, il 24 gennaio, un ulteriore interrogatorio di circa dieci ore.
Stando a quanto ha dichiarato l’avvocato, nei suoi confronti non esistono accuse precise, tanto meno prove di alcunché. La sua “colpa”, sarebbe quella di aver assistito alla conferenza di Basar Badil a Madrid nel novembre 2021.
Basar Badil (“Strada alternativa”) è l’espressione adottata per stabilire la connessione tra gli eventi del 1948 e del 1967 con la diaspora palestinese.
Quasi contemporaneamente, il 21 gennaio, circa un centinaio di palestinesi erano rimasti feriti negli scontri con l’esercito israeliano in Cisgiordania. Almeno dieci quelli colpiti dalle pallottole rivestite di gomma, molti di più coloro che hanno mostrato segni di asfissia per aver inalato i gas lacrimogeni.
Per la Croce Rossa palestinese – che li ha soccorsi – erano oltre una settantinai feriti in un villaggio vicino a Nablus (nel nord della Cisgiordania). Una decina quelli colpiti nella città di Beita e altrettanti a Beit Dajan. Come ormai avviene quasi abitualmente, le forze di sicurezza israeliane hanno reso problematici gli interventi di soccorso bloccando alcune strade.
Gianni Sartori