#KANAKY – IN NUOVA CALEDONIA, ANCORA SCONTRI TRA MANIFESTANTI E POLIZIA PER IMPEDIRE LA SVENDITA DI UN’AZIENDA: LO SPETTRO DI LOUISE MICHEL SI AGGIRA SULLE BARRICATE – di Gianni Sartori

foto THEO ROUBY / HANS LUCAS / AFP

Chissà cosa ne penserebbe Louise Michel. Lei che di barricate e rivolte se ne intendeva e si sentiva “come l’ago di una bussola che, sconvolto da una tempesta, cerca il nord. Il mio nord era la rivoluzione” .


Scampata, una tra i pochi, alla repressione sanguinaria che costò la vita a migliaia e migliaia di Comunardi (dopo la sconfitta della Comune nel 1871), la combattente libertaria, già blanquista, completò il suo percorso verso l’anarchismo nel corso del viaggio per mare che la vide deportata in Nuova Caledonia.
Da subito, solidarizzò con la popolazione indigena, i Kanaki, oppressi e sfruttati dal colonialismo francese. Per tale ragione , oltre che dai rivoluzionari internazionali (non solo anarchici) e dalle femministe più radicali (non “borghesi”), viene ricordata dai Kanaki come una loro compagna di lotta. Per aver saputo coniugare, non è da tutti, le lotte dei lavoratori salariati per la giustizia sociale con quelle per l’autodeterminazione dei popoli. Creando un giornale (“Petites Affiches de la Nouvelle-Caledonie”) e scrivendo una raccolta di “Légendes et chansons de gestes canaques”. Ma soprattutto schierandosi al loro fianco – diversamente dalla maggioranza dei deportati che temevano ritorsioni dalle autorità – nel corso della rivolta del 1878. Dopo che nel 1880 le era stata concessa la grazia (non richiesta), una folla di indigeni tentò fisicamente di impedirle di lasciare l’isola. Dove comunque, come aveva promesso, tentò – se pur invano – varie volte di fare ritorno. In Francia proseguì nella sua militanza venendo – in almeno altre tre occasioni – nuovamente incarcerata. Accusata, in particolare, dell’assalto ai forni (o “esproprio proletario” che dir si voglia) ai danni di alcune panetterie durante uno manifestazione di disoccupati organizzata con Emile Pouget (teorico dell’anarco-sindacalismo e del sabotaggio). Louise subì anche un attentato in cui rimase leggermente ferita (da parte di un “estremista di destra” dell’epoca), ma non volle – per spirito libertario e umanitario – costituirsi parte civile.

A quasi un secolo e mezzo di distanza, la Nuova Caledonia rimane inquieta e non omologata. O almeno così sembrerebbe.
Lunedì 7 dicembre, al mattino, in una località nel sud dell’arcipelago, un folto gruppo di manifestanti (per la maggior parte esponenti del collettivo “usine du sud: usine pays”) si è scontrato con la polizia protestando per la ventilata vendita a un non meglio precisato “consorzio” di imprenditori, sia locali (francesi, prestanome…?) che internazionali (sentite anche voi odor di multinazionali?) della grande fabbrica di nickel che sorge nei pressi del giacimento di Goro. I preliminari sarebbero a buon punto e – pare – i primi accordi potrebbero già essere stati sottoscritti. Per cui ormai sarebbe solo questione di giorni.
Gli incidenti hanno interessato anche il battello che porta i lavoratori di Vale all’azienda. “Rotti gli ormeggi” – e non in senso metaforico – per mano dei manifestanti, il battello è andato lungamente alla deriva ed è stato recuperato solo grazie all’intervento del soccorso marino.
Gli scontri successivi in diversi punti di Numea hanno visto le granate lacrimogene della polizia contrapporsi al lancio di pietre degli “insorti”. Con il solito corollario di auto incendiate e tentativi di barricate. Alcune strade sono rimaste bloccate e la circolazione si è fermata a causa dei numerosi imbottigliamenti. Un gendarme e un vigile sono rimasti feriti. Altre barricate intanto venivano costruite nel corso di analoghe proteste nel comune di Mont-Dore e in quello di Bourai. Negli scontri avvenuti davanti alla fabbrica il giorno prima – domenica 6 dicembre – almeno altri sei gendarmi erano rimasti feriti.


Gianni Sartori

 

#KURDISTAN #NATURA – Un ennesimo ecocidio in vista che si traduce anche in un affronto alla fede alevita – di Gianni Sartori

A un cacciatore seriale statunitense, il già tristemente noto collezionista di trofei Bradley Garret Van Hoose, è stato concesso di abbattere una delle rare capre selvatiche di montagna (simili allo stambecco e in via di estinzione) che vivono nella regione curda di Dersim.

Permesso – ça va sans dire – graziosamente concesso dalle autorità turche che pur di guadagnarci sopra mettono a rischio la sopravvivenza stessa della specie.

Considerati sacri dai curdi aleviti (per l’importanza del loro ruolo nelle mitologie locali), gli splendidi animali sono protetti, difesi dagli abitanti di Dersim. Purtroppo durante la stagione invernale talvolta cadono vittime di cacciatori provenienti da altre regioni e da altri Paesi. Col benestare delle amministrazioni turche (in questo caso dell’Agenzia turca di protezione dell’ambiente) che ne consentono, dietro pagamento, l’abbattimento. Tra l’altro quella tra dicembre e febbraio è la stagione degli amori per questi animali, quando si riduce la loro vigilanza. E i cacciatori (sia quelli col permesso, sia i bracconieri) ne approfittano per abbatterne il maggior numero possibile.

A darne la notizia un’associazione locale, la Dersim Arastirmalari Merzeki. Secondo quanto comunicava DAM, il lugubre personaggio dovrebbe compiere l’annunciato misfatto (definito un “passatempo crudele e maniacale”)  tra il 7 e il 13 dicembre, quando si troverà appostato in armi nella zona del villaggio di Salordek a Pulumur.

Nel luglio scorso il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, dove aver offerto la possibilità di abbattere (sempre a pagamento) ben 17 esemplari della capre sacre selvatiche, aveva dovuto far marcia indietro per le proteste degli abitanti dell’intera provincia. Quello di questi giorni è l’ennesimo tentativo per aggirare sia la sensibilità dei cittadini, sia le norme – ratificate anche dalla Turchia – a protezione di questa specie a rischio.

Nel gennaio 2019 una campagna di proteste e manifestazioni, coronata dalla raccolta di migliaia di firme, aveva ottenuto la sospensione della caccia a molti animali selvatici presenti in quest’area montagnosa. La proibizione – con un’ordinanza di Tuncay Sonel, all’epoca governatore della provincia e, si dice, persona dotata di sensibilità ambientale – riguardava varie specie, non solamente le capre sacre di montagna. Si proibiva l’abbattimento anche di linci, orsi bruni, lontre, lupi e altri animali selvatici. Ma poi il vecchio governatore è stato trasferito ad un’altra provincia (forse non casualmente) e le norme sono nuovamente cambiate.

Nella regione di Dersim la presenza dei curdi aleviti è molto consistente. La loro religione sgorga  sul convincimento che le relazioni tra esseri viventi si basano sull’aiuto reciproco (sul “mutuo soccorso”) e promuovono un sistema sociale fondato sulla solidarietà, la condivisione e l’uguaglianza tra tutti i popoli, a qualsiasi religione o etnia appartengano. Ogni essere vivente, non solo gli umani, ma anche animali e piante, viene considerato sacro. Le capre di montagna godono di una particolare venerazione in quanto costutiscono – nella mitologia locale –  il gregge del profeta Xizir.

I due fratelli profeti della fede alevita – Xizir e Ilyas – dopo aver bevuto “l’acqua dell’immortalità” correvano in soccorso di chiunque si trovasse in difficoltà o in pericolo. Rispettivamente, il primo sulla terra, l’altro nel mare.

Ultima ora: la notizia va presa con riserva, ma comunque fa ben sperare. Il deputato di Tunceli (Dersim) del CHP, Polat Şaroğlu, dopo un incontro con il nuovo governatore Ozkan, ha dichiarato che il permesso di abbattimento potrebbe venir revocato.

In attesa di ulteriori conferme, incrociamo le dita

 

Gianni Sartori