#Nagorno-Karabakh #War – ARMENI E CURDI SEMPRE SOTTO TIRO – di Gianni Sartori

Non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur (territori curdi sotto amministrazione-occupazione turca).

In riferimento alla destituzione –  dopo le elezioni del 2019 – dei legittimi rappresentanti politici eletti nelle liste di HDP e l’arresto di centinaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde.

Ma oggi la faccenda si va caricando di ulteriori e peggiori implicazioni.

LA CITTA’ DI KARS (IN BAKUR) DESTINATA A DIVENTARE UN CENTRO DI SMISTAMENTO PER JIHADISTI E MERCENARI DI ANKARA?


Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del ministero dell’Interno del  governo AKP-MHP di Turker Oksuz come  fiduciario (governatore, prefetto, podestà…?) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Sevin Alaca, esponenti di HDP) erano stati preventivamente arrestati insieme a una quindicina di altri esponenti politici nell’ambito delle “indagini di Kobane”, (ossia per le proteste del 2014). Cinque membri del Consiglio comunale e due membri dell’Assemblea generale provinciale venivano sospesi dal servizio o costretti alle dimissioni.

L’arresto del co-sindaco Ayhan Bilgen e di altri esponenti di HDP (Partito Democratico dei Popoli) risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo.  Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.

Giustamente si era parlato di una “confisca dei diritti democratici”. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia. Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura di migliaia di mercenari e jihadisti provenienti dalla Siria (e forse anche dalla Libia) per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.

Un destino, quello di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se “da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars”.

D’altra parte era quasi scontato che Erdogan intervenisse a gamba tesa nella questione del Nagorno-Karabakh ai primi segnali di ripresa del conflitto.

Mettendo a disposizione di Baku, oltre ai già citati mercenari e terroristi, aerei F-16, droni Bayraktar TB-2, veicoli e consiglieri militari.

Niente di strano e niente di nuovo.

Ancora nel 2009 (10 ottobre) a Zurigo la firma – già concordata – dell’accordo di “normalizzazione diplomatica” e per la riapertura delle frontiere tra la Turchia e l’Armenia era rimasta per molte ore in sospeso. Il motivo? La legittima contrarietà della delegazione armena per il previsto discorso del ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Addirittura, la berlina di Hillary Clinton – già in viaggio verso l’Università di Zurigo per raggiungere le delegazioni svizzere, francesi, russe ed europee – aveva fatto repentinamente dietrofront per ritornare all’hotel da dove  – secondo alcune versioni direttamente dal parcheggio – avrebbe tempestato di telefonate i ministri turco e armeno per sbloccare la situazione

Poi la cosa era rientrata e il discorso rimasto nel cassetto. Ma il giornale Hurriyet ne era ugualmente entrato in possesso appurando che il contenzioso verteva proprio sulla questione del Nagorno-Karabakh. In sostanza Davutoglu esigeva il ritiro di Erevan dalla provincia, formalmente sottoposta all’Azerbaijan, ma controllata dall’Armenia dal 1993.

Posizione ribadita – anche per rassicurare il governo di Baku – nei giorni successivi dal primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan. Storicamente amico e alleato di Ankara, l’Azerbaijan vedeva tale accordo come fumo negli occhi.

Ostilità che trovava precise assonanze nel Parlamento turco che avrebbe dovuto poi ratificare l’accordo. Per il parlamentare kemalista Onur Oymen (esponente dell’opposizione nazionalista) si trattava nientemeno che di una “abdicazione, di un cedimento alle pressioni esterne” esprimendo “inquietudine per l’avvenire del Paese” (senza però specificare se si preoccupasse più della Turchia o dell’Azerbaijan).

Contestazioni, se pur in tono minore, provenivano anche dall’Armenia, in particolare dal partito nazionalista Dachnak. Migliaia di persone avevano partecipato a una manifestazione indetta a Erevan  chiedendo che prima di ogni accordo la Turchia riconoscesse le proprie responsabilità in merito al genocidio del 1915.

Risalivano al febbraio 1988 le manifestazioni degli armeni nella città di Stepanakert per la riunificazione con l’allora sovietica Repubblica d’Armenia.

E il 20 febbraio – dopo essere echeggiata anche per le vie di Erevan – la richiesta

dei manifestanti veniva approvata dal parlamento regionale del Karabakh con 110 voti contro 17. Rigettata da Mosca, forniva comunque l’innesco per le prime avvisaglie del lungo, aspro conflitto armeno-azero. Il 22 febbraio una marcia – non certo spontanea – di migliaia di azeri si muoveva da Agdam in direzione di Askeran (nel cuore dell’entità autonoma: oblast, provincia) prendendo di mira sia la popolazione, sia le proprietà armeni. Negli disordini di Askeran si conteranno decine di feriti (sia armeni che azeri) e almeno due azeri uccisi. E’ il segnale per una miriade di scontri “settari” tra le due comunità, sia nel Nagorno-Karabakh che nell’Azerbaijan, ai danni soprattutto delle rispettive minoranze.

Mosca intanto permaneva nella sostanziale incomprensione del problema ponendo, nel novembre 1989, la provincia autonoma sotto il diretto controllo dell’amministrazione azera.

Quanto alla richiesta ufficiale di riunificazione, proclamata con una sessione straordinaria del Soviet supremo armeno e del Consiglio nazionale del Nagorno- Karabakh, resterà lettera morta. Nel novembre 1991 la statuto di autonomia veniva definitivamente abolito e il Nagorno-Karabah si ritrova interamente sottoposto al totale controllo di Baku.

In un referendum organizzato per il 10 dicembre 1991 –  boicottato dalla minoranza azera –  la proposta di uno Stato indipendente sarà approvata con il 99% dei voti.

E a questo punto anche la proposta di ripristino di un’ampia autonomia – tardivamente avanzata da Mosca – veniva rispedita al mittente (sia dagli armeni che dagli azeri, anche se per ragioni opposte). La parola passava definitivamente alle armi al momento dell’indipendenza dell’Armenia (23 settembre 1991) e dell’Azerbaijan (18 ottobre 1991).

Mentre la situazione andava precipitando e il conflitto si alimentava con la partecipazione di migliaia di combattenti, per la provincia – erroneamente definita “separatista” –  il sostegno militare dell’Armenia indipendente risulterà nevralgico.

A fianco degli azeri, oltre ai Lupi Grigi turchi, anche combattenti afgani e ceceni.

Con gli armeni miliziani provenienti dall’Ossezia e –  ma discretamente e solo a livello logistico – la Grecia.

Entrambi i belligeranti inoltre avrebbero fatto ricorso a mercenari provenienti dai territori dell’ex URSS (russi e ucraini).

Quanto alla Russia, sembrava volersi mantenere equidistante vendendo armi a entrambi i belligeranti.

Le vittime, combattenti e civili, alla fine del 1993 si contavano a migliaia. Centinaia di migliaia, come previsto, gli sfollati e rifugiati interni su entrambi i fronti.

Ai primi di maggio del 1994 gli armeni ormai controllavano circa il 14% del territorio dell’Azerbaijan e i primi negoziati (cessate il fuoco del 12 maggio) prendono il via sotto la supervisione di Mosca.

Con la creazione nel maggio 1994  del Gruppo di Minsk per la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (attualmente denominato OSCE) Francia, Russia e Stati Uniti (a cui successivamente si uniranno Italia, Turchia, Germania…) avevano inteso promuovere una soluzione pacifica del conflitto.

Tuttavia – vien da dire – con scarsi risultati, vista l’attuale deriva.

E I MEDIA OCCIDENTALI?

Qualche considerazione in merito alle operazioni propagandistiche in atto (soprattutto da parte di Baku e Ankara) e  rivolte principalmente ai media europei. Con qualche discreto risultato, pare. Forse perché – tutto sommato – conviene schierarsi con l’Azerbaijan (e con la Turchia) piuttosto che con la piccola, quasi insignificante sullo scacchiere internazionale, Armenia.

Per esempio, spesso gli armeni del Nagorno-Karabakh vengono impropriamente definiti “separatisti”. Una definizione mai utilizzata per il nord di Cipro occupata dalla Turchia fin dal 1974 (e direi illegalmente, così a naso). Per non parlare della continua evocazione di una – al momento inesistente – partecipazione di militanti del PKK ai combattimenti (a fianco degli armeni ovviamente).

“Magari” verrebbe da dire. Ma temo che con tutti i problemi che al momento li affliggono (aggrediti come sono da ogni parte, soprattutto dalla Turchia e dai suoi ascari) molto difficilmente i partigiani curdi avranno la possibilità di prendere parte alla resistenza dei loro fratelli armeni. Anche se – presumo – ne sarebbero lieti e fieri.

In fondo di fronte avrebbero l’ennesima versione dei massacratori ottomani, dei responsabili del genocidio degli armeni (poi reiterato) e dei tentativi di genocidio nei confronti di greci, curdi (yazidi in particolare), alaviti, assiro-caldei.

Nel frattempo (gli affari sono affari) pare che la Francia non abbia smesso di vendere armi e tecnologia militare all’alleato della Turchia, l’Azerbaijan. Non è l’unico paese a farlo naturalmente. Ma la cosa appare stridente pensando al ruolo di antagonista storico di Ankara assunto periodicamente da Parigi. Anche recentemente nella recente querelle sulla questione dell’espansionismo turco nelle acque del mar Mediterraneo.

Armi sofisticate, comunque. Forse le stesse con cui le forze militari di Baku stanno colpendo direttamente la popolazione di Stepanakert.

Una cosa comunque va detta. In qualche modo l’attuale conflitto tra Armenia e Azerbaijan appare propedeutico all’intervento diretto della Turchia contro l’Armenia (o ne è addirittura la “vetrina”). Mi auguro di sbagliarmi, ma intravedo una prosecuzione  (magari “con altri mezzi”, ma poi neanche tanto) di quella politica e di quella strategia che nel 1915 avevano determinato lo sterminio della popolazione armena.

Gianni Sartori

#KURDS #CARCERI – IMRALI: PATRIMONIO DELL’UMANITA?? – di Gianni Sartori

Chissà? Magari tra qualche anno anche Imrali – l’isola-carcere dove da oltre vent’anni è segregato Ocalan – verrà dichiarata “Patrimonio dell’Umanità” dall’UNESCO. Così come è avvenuto nel 1999 per Robben Island in Sudafrica.

In quella che originariamente era “l’isola delle foche” (inutile chiedersi che fine abbiano fatto i simpatici pinnipedi all’arrivo dei colonizzatori) furono lungamente rinchiusi molti esponenti dell’ANC. Tra loro Sisulu, Mbeki, Sobukwe e Nelson Mandela. Un destino particolare il suo: da prigioniero politico a premio Nobel per la Pace e presidente del Sudafrica dopo la fine dell’apartheid.

Rimaniamo quindi in fiduciosa attesa, augurandoci che un destino analogo possa compiersi per il leader curdo Abdullah Ocalan. Anche se al momento, purtroppo, le cose non sembrano andare in questa direzione.

A Imrali il fondatore del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) è rinchiuso dal 15 febbraio 1999. Per oltre dieci anni in qualità di unico prigioniero e in condizioni molto dure.

Proseguendo ugualmente, con coraggio e coerenza, nella sua ricerca di una soluzione politica pacifica per i conflitti mediorientali e per la questione curda in particolare. Fonte di ispirazione non solo per il suo popolo, ma per milioni di persone in ogni angolo del pianeta. Persone che hanno riconosciuto nel Confederalismo democratico una possibile risposta, una soluzione equa e praticabile per tante problematiche: dall’ecologia alla liberazione sociale, dall’autodeterminazione dei popoli alla lotta contro il patriarcato.

In sostanza, un “contro-modello” alla stato-nazione che va mostrando ovunque – non solo in Medio Oriente – la sua contraddittoria e fallimentare caducità.

L’ISOLAMENTO COME RITORSIONE

In questi giorni sia Ocalan che gli altri prigionieri (Omer Hayri Konar, Veysi Aktas e Hamili Yildirim) stanno subendo l’ennesima, arbitraria imposizione. Ossia l’interdizione ufficiale delle visite (come stabilito il 23 settembre dal procuratore di Bursa) per altri sei mesi, nonostante da anni siano sottoposti all’isolamento pressoché totale. Ricordo che Ocalan aveva potuto incontrare i suoi avvocati – per la prima volta in otto anni – il 2 maggio dell’anno scorso.

Ma solo in seguito alle lotte condotte dalla popolazione curda e in particolare dai prigionieri (vedi il lungo e tormentato sciopero della fame). Tra maggio e agosto 2019 venivano autorizzate altre quattro visite, ma in seguito ben 107 richieste da parte degli avvocati erano rimaste senza alcuna risposta.

Dal 7 agosto 2019 i difensori e il loro cliente sono rimasti senza alcun contatto e la Procura della Repubblica appare intenzionata a non rispondere – nemmeno negativamente – alle loro richieste.

Un ennesimo giro di vite, quasi una ritorsione preventiva per la prevista iniziativa globale del 10 ottobre.

Un passo indietro. Risale al 9 ottobre 1998, quando Ocalan fu costretto a lasciare la Siria dopo 22 anni (coincidenza: a  31 anni esatti dall’esecuzione in Bolivia di Ernesto CHE Guevara, catturato e ferito il giorno precedente), l’avvio di quella che non impropriamente viene definita “cospirazione internazionale” dal movimento di liberazione curdo.

Una cospirazione orchestrata dalla Turchia e da Ankara e a cui presumibilmente hanno dato il loro contributo anche Italia e Grecia.

Per ricordare tali eventi, disastrosi non soltanto per il popolo curdo ma anche per tutti coloro che ancora credono nella Liberazione, viene proposta una “giornata di azione decentralizzata contro l’isolamento di Abdullah Ocalan sabato 10 ottobre”.

Cosi come sta chiedendo il movimento curdo:

“Mobilitiamoci insieme per porre fine al sistema Imrali, chiediamo la libertà di Ocalan e rompiamo l’isolamento della sua persona e delle sue idee”

 

Gianni Sartori

COMUNICATO STAMPA

Pur ribadendo tutte le perplessità in merito al comportamento degli Stati centralisti, espresse nel numero speciale di Dialogo Euroregionalista “Focus Covid-19 e Libertà”, per senso di responsabilità nei confronti dei nostri Associati e dei nostri simpatizzanti, il Direttivo di Centro Studi Dialogo ha deciso di sospendere ogni abituale attività pubblica (organizzazione di convegni, di incontri pubblici, di presentazioni) per i restanti mesi del 2020, e di prepararsi ad utilizzare altri strumenti tecnologici per rilanciare le proprie idee.

Ci dispiace molto non poter incontrare gli amici che ci hanno sempre appoggiato, ma pensiamo che a questo punto dell’emergenza sanitaria, il mantenimento della buona salute sia un obiettivo primario.

Stiamo già lavorando per il prossimo numero del nostro trimestrale e per la pianificazione dell’attività pubblica per il 2021, anno che riserverà numerose sorprese a chi ci segue, a partire da un esclusivo libro in omaggio ai nostri Soci.

Con un invito a seguirci sui socials (https://www.facebook.com/CentroStudiDialogo  – https://twitter.com/DialogoStudi ) e sul nostro blog  https://centrostudidialogo.com/ per gli aggiornamenti in tempo reale, vi saluto cordialmente

 

                                                                    Giovanni Roversi

                                                                Presidente Centro Studi Dialogo

#KURDISTAN #TURKEY – LA CITTA’ DI KARS (IN BAKUR) DESTINATA A DIVENTARE UN CENTRO DI SMISTAMENTO PER I MERCENARI JIHADISTI DI ANKARA? – di Gianni Sartori

Quello che non certo impropriamente era stato definito “un autentico genocidio politico” in Bakur dopo le elezioni del 2019 (ossia la destituzione dei legittimi rappresentanti politici – eletti nelle liste di HDP – e l’arresto di migliaia di militanti dell’opposizione ed esponenti di associazioni curde), oggi si va caricando di ancora peggiori implicazioni.

Tutt’altro che casuale – per esempio – la repentina imposizione da parte del governo fascistissimo AKP-MHP di un kayyum (un cero Turker Oksuz: amministratore, governatore, prefetto, podestà…? Fate voi…) alla città curda di Kars. Dopo che i sindaci regolarmente eletti (Ayhan Bilgen e Sevin Alaca, esponenti di HDP) erano stati preventivamente arrestati e costretti alle dimissioni.

L’arresto di Ayhan Bilgen e di altri esponenti di HDP (Partito Democratico dei Popoli) risaliva al 25 settembre. Le sue dimissioni da sindaco (praticamente un’autosospensione proprio per evitare l’imposizione di un governatore turco) a cinque giorni dopo.  Ma – in contrasto con la stessa legislazione turca – questo suo gesto non era stato tenuto in considerazione e la nomina – illegittima – del governatore seguiva il suo corso.

Una vera e propria confisca dei diritti democratici. Allo scopo, molto presumibilmente, di controllare totalmente questa cittadina ai confini con l’Armenia. Nella guerra intrapresa dall’Azerbaijan, il ruolo di Ankara si va sempre più definendo. In particolare con la fornitura – non certo disinteressata – di consistenti contingenti di mercenari, jihadisti compresi,  provenienti dalla Siria e dalla Libia per combattere a fianco degli azeri contro gli armeni.

Un destino, quello di Kars, analogo a quello delle città frontaliere di Ceylanpinar e di Reyhanli nel conflitto siriano. Ugualmente utilizzate per smistare le milizie islamo-fasciste.

Per il giornalista curdo Mustafa Mamay non ci sarebbe quindi da stupirsi se “da ora in poi vedremo i salafiti passeggiare per le vie di Kars”.

Gianni Sartori

#AFRICA #MALI – TUAREG, I CURDI DELL’AFRICA? – di Gianni Sartori

Se non proprio malevola, almeno superficiale.

Così almeno mi era apparsa la semplificazione mediatica con cui si proiettava lo spettro jihadista sull’ultima – per ora -ribellione tuareg. Arrivando a sostenere che certe etnie del Mali non potevano essere altro che“ vittime o complici dell’islamismo più feroce”.

Tertium non datur.

In realtà – credo – la questione è più complessa. Si doveva – almeno – precisare quale fosse – e quale sostanzialmente sia – la condizione in cui versano i Tuareg. Quella di una “Nazione senza Stato” che vive, si sposta e – se del caso – combatte ben oltre i ristretti confini del Mali. Per inciso. Appare evidente l’analogia con la Nazione curda, ugualmente frantumata da vari confini statali, più o meno artificiosi, a seguito dei ben noti processi di “decolonizzazione controllata” del secolo scorso.

Invece si è cercato di interpretare la diffusione, il dilagare dell’islamismo radicale come effetto collaterale del “rientro” (in realtà una dispersione) delle “milizie nomadi” (in parte costituite da combattenti tuareg) già “alleate del beduino Gheddafi”. Senza interrogarsi in merito alle ragioni che avevano spinto molti tuareg, legati o meno al MNLA (Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad) in Libia.

Alla fine del ‘900 le lotte per l’indipendenza (o almeno per l’autonomia, il decentramento) e gli scontri armati tra le milizie tuareg e gli eserciti di Mali e Niger risultarono deleteri soprattutto per le popolazioni civili, oggetto di repressione e brutali massacri.

Come per esempio nel 1990 a Tchin Tabaraden in Niger.

E forse non è un caso che anche attualmente nel Niger permangano gruppi armati che lottano per l’autodeterminazione. Tra questi il MNJ (Mouvement des Nigériens pour la justice).

Oltre alla liberazione dei prigionieri politici tuareg e alla possibilità di svolgere liberamente attività politica, il MNJ esige dal governo di Niamey la fine dello sfruttamento coloniale dei territori abitati dai tuareg (vedi le miniere di uranio, devastanti per la salute della gente, in mano alle multinazionali straniere come la francese Areva).

Altra organizzazione armata in parte ancora operativa (o almeno nel primo decennio del XXI secolo) il Front des forces de redressement. Avrebbe (meglio il condizionale in attesa di conferme) invece deposto definitivamente le armi il Front patriotique nigèrien.

Comunque, tornando alla caduta di Gheddafi, all’epoca buona parte dei tuareg prese la via del ritorno. Talvolta portandosi appresso una discreta quantità di armamenti sofisticati. Salvo poi – magari incautamente – venderle a gruppi jihadisti ben riforniti di petrodollari. Peggio ancora. Qualche ex esponente del MNLA (vedi Iyad Ag Ghali) si era avvicinato da tempo alle milizie jihadiste, anche in contrapposizione con gli ex compagni di lotta.

Più che una conversione religiosa, la vedrei come il risultato di personalismi, concorrenze e faide interne.

Risaliva al 6 aprile 2012 la dichiarazione unilaterale di indipendenza  dell’Azawad che di fatto aveva temporaneamente spaccato il Mali in due. Ma dopo nemmeno venti giorni – forse per inesperienza, stupidità o sotto minaccia come nei matrimoni forzati – alcuni referenti del MNLA presenti sul campo firmavano un accordo- capestro con Ansar Al-Din gruppo islamista finanziato da Al Qaida nel Maghreb islamico. Con la velleitaria creazione di un “Consiglio transitorio dello Stato islamico dell’Azawad” formato da 40 membri, 20 del MNLA e 20 di Ansar Al-Din.

Risvolto grave, l’applicazione della sharia e la costituzione della polizia islamica (hisba).

A sua parziale giustificazione Bilal Ag Sherif, segretario del MNLA e firmatario dell’accordo, sosteneva di aver agito per evitare una guerra interna tra Tuareg e convincere i fratelli integrati in Ansar Al-Din  ad abbandonarne i ranghi.

Un accordo che era lecito definire una “mostruosità” e appunto come tale veniva sconfessato dal coordinamento dei responsabili del MNLA.

Il portavoce del MNLA Habaye Ag Mohamed riteneva “inconciliabile con la linea politica del MNLA l’atteggiamento fondamentalista e in particolare il jihadismo salafita portato avanti da Ansar Al-Din”.

Bilal Ag Sherif, firmatario del documento, veniva richiamato all’ordine e costretto a rompere tale accordo.

Per Nina Valet Intalou, esponente dell’Ufficio esecutivo del MNLA, bisognava “rigettare categoricamente questo accordo, perché cercare di evitare una guerra fratricida non significa accettare il diktat imposto da gruppi oscurantisti”.

Il documento, spiegava“era stato firmato pensando che i nostri fratelli Tuareg schierati con Ansar Al-Din avrebbero lasciato questa organizzazione terroristica.

Avremmo potuto accettare uno Stato islamico democratico, pensando che noi siamo già musulmani. Ma il documento proposto da Iyad Ag Ghali è veramente contrario agli obiettivi del MNLA e alla nostra cultura. Quello che lui vorrebbe è uno Stato talebano”. 

Ovviamente nel 2012 il confronto veniva spontaneo con i talebani. Oggi probabilmente si evocherebbe lo spettro dell’Isis.

A conferma dell’estraneità tra il movimento per l’autodeterminazione tuareg e l’integralismo islamista, già il 5 e il 6 giugno 2012 centinaia di donne e di giovani della città di Kidal scendevano in strada per protestare contro i fondamentalisti. Successivamente, nella notte tra il 7 e l’8 giugno, si registravano scontri armati tra militanti di MNLA e di Ansar Al-Din.

Purtroppo la storia della lotta tuareg per l’autodeterminazione (sia indipendentista che autonomista) è da sempre attraversata da scissioni e conflitti interni.

Lo stesso leader di Ansar Al-Din, Iyad Ag Ghali, in precedenza si era distinto come promotore delle rivolte degli anni novanta del secolo scorso.

Ma, almeno fino al 2012, le istanza dell’islamismo radicale non avevano – pare – trovato spazio significativo all’interno del movimento tuareg, da sempre sostanzialmente laico.

Successivamente, nel giro di qualche mese, il Nord del Mali finiva quasi completamente in mani jihadiste (oltre ad Ansar Al-Din, erano entrati in azione anche il Muiao e direttamente AQMI). Ma con la riunione internazionale di Bamako del 19 ottobre 2012 si avviava quel “progetto di intervento militare credibile” richiesto nella settimana precedente alla Comunità economica degli Stati dell’Africa dell’Ovest (Cedao) e all’Unione Africana. La Francia riusciva a coinvolgere i 15 Paesi membri del Consiglio di Sicurezza e porre la questione sotto il capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite (in quanto la situazione del Paese africano costituiva “una minaccia per la pace e la sicurezza internazionale”). Il resto è cosa nota. Prima l’intervento diretto dell’esercito francese (aviazione, forze speciali…) per riprendere il controllo di Gao, Timbuctù, Kidal, Tessalit…con l’operazione Serval (dal nome di un felino africano) dal gennaio 2013 alla metà del 2014.

Operativi da gennaio anche alcune centinaia di soldati africani (provenienti da Niger, Benin, Nigeria e Togo) della Missione internazionale di sostegno al Mali (MISMA).

Poi – dopo la costituzione della missioni onusiana MINISMA (Mission Multidimensionelle Intégrée des Nations Unies pour la Stabilisation au Mali) e una serie di operazioni dai nomi più o meno pittoreschi (Dragon, Constrictor, Centaure, Epervier…) dall’agosto 2014 l’intervento contro le bande salafite assumeva la veste di un dispositivo regionale. L’operazione Barkhane (dal nome di una duna ‘migrante’ nel deserto) a cui partecipavano Mauritania, Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger (comunque sottoposti alla direzione dell’Esagono).

Ma la guerra non si è fermata. Nemmeno dopo migliaia di morti e centinaia di migliaia di sfollati. Un tragico bilancio a cui si deve aggiungere la denuncia di sistematiche violazioni dei diritti umani. Opera soprattutto di soldati africani nei confronti di civili arabi e tuareg (sbrigativamente – e comodamente – identificati come salafiti). Nel frattempo ha visto la luce anche Takouba (“spada di legno” – quella dell’Onore -in tamashek, la lingua dei tuareg), denominazione per le forze speciali europee che dovrebbero sostenere le truppe maliane nella lotta contro il terrorismo jihadista.

Stando alle dichiarazioni della ministra della difesa francese Florence Parly, Takouba era già stata preannunciata da Macron in occasione dell’incontro di Pau, quello indetto proprio per tacitare le voci sul dissenso africano all’intervento francese.

Quanto al governo di Bamako, va riconosciuto che fin dal 2012 – in prossimità dei territori occupati dalle milizie jihadiste – venivano allestiti alcuni campi di addestramento.

Tuttavia – vuoi per mancanza di mezzi, vuoi per imperizia – risultavano alquanto scadenti. Con i volontari alloggiati in strutture  provvisorie, senza armi e addirittura scarsamente riforniti di generi alimentari (letteralmente “alla fame” secondo alcuni visitatori, nemmeno in grado di compiere l’addestramento). Com’era prevedibile, molti disertarono per raggiungere Ansar Al-Din e il Mujao (Movimento unicità e jihad nell’Africa dell’Ovest). Organizzazioni, ben finanziate, in grado di garantire “assistenza economica alle famiglie di ogni combattente vivo o morto e un’abitazione fino al momento in cui i figli saranno in grado di sposarsi”.

Un copione che si va ripetendo su larga scala anche in questi giorni.

CONTRADDIZIONI IN SENO AI POPOLI

Un bel casino, certamente. Senza dimenticare che oltre ai durevoli, tenaci contenziosi tra popolazioni indigene e governi statali ne permangono altri – non meno devastanti – tra le popolazioni stesse.

Troppo spesso strumentalizzati dai governi (e anche in questo Gheddafi aveva fatto scuola) in nome del sempre attuale “divide et impera”.

Come quello tra Tuareg e Tebu (il “Popolo delle Rocce”) chiamati Ikaraden dai Tuareg.

Un breve riepilogo.

Nei suoi 40 anni di permanenza al potere Gheddafi aveva abilmente alimentato le reciproche ostilità tra le tribù arabe e alcune “minoranze” (in realtà popolazioni minorizzate in quanto separate dai confini statali, come i Curdi o anche i Baschi) presenti nel sud della Libia: tebu e tuareg. Utilizzando gli scontri interetnici per controllare, discriminare, emarginare e reprimere. E i tuareg – in particolare nelle zone di frontiera- per far pressione su Algeria, Niger e Mali.

Dopo il 2011, con la caduta regime, esplodevano le istanze di maggior autonomia politica da parte dei tebu per il controllo delle zone petrolifere e aurifere e delle vie di comunicazione. In particolare dei check point utilizzati per sfruttare proficuamente i vari traffici legali e illegali (armi, medicinali, derrate alimentari, droga, alcolici e anche esseri umani).

Mentre la Libia sprofondava nel conflitto, in questo decennio i Tebu si sono imposti – talvolta anche violentemente – alle altre tribù (sia arabe che tuareg, se pur in diversa misura e in maniera differenziata) per trarre benefico dalla nuova situazione generatasi con la caduta ingloriosa del Colonnello. Nei territori meridionali della Libia – lì dove coabitano le varie etnie – sono presenti in grande quantità non solo l’ambita risorsa petrolifera, ma anche minerali rari e perfino l’acqua (per la presenza di vaste falde freatiche). Acqua di cui usufruiscono le popolazioni (il 90% dei libici) che vivono nel nord del paese.

Non si deve comunque generalizzare. Occorre valutare la complessità delle relazioni che si vanno instaurando di volta in volta, di luogo in luogo. Relazioni – si diceva – varie e variabili (differenziate, variegate…), sia politicamente che economicamente

Per esempio nel contenzioso per il controllo delle risorse tra tebu e tuareg nel Fezzan (nel sud-ovest del paese) per un certo periodo sembrava prevalere l’aspetto militare, lo scontro armato.

In passato, in quanto minoranze non arabe, sia tebu che tuareg avevano subito evidenti discriminazioni (entrambi manipolati in funzione della politica “panafricana” di Gheddafi), ma in diversa misura.

Così, mentre migliaia sia di tuareg che di tebu si ritrovavano sostanzialmente nella medesima condizione di apolidi, per i primi esisteva la possibilità di integrarsi vantaggiosamente nel sistema della sicurezza interna. Godendo quindi della possibilità di armarsi adeguatamente e di facilitazioni in campo economico (permessi di lavoro, accesso all’amministrazione…).

Del resto Gheddafi si presentava talvolta come un “garante”, un “sostegno”, un protettore anche dei tuareg del Mali e del Niger. Perfino nei confronti dei loro governi dai quali effettivamente subivano discriminazioni e repressione.

Questo può spiegare la posizione assunta nel 2011 dai tuareg libici (a cui si aggregarono molti altri provenienti da Mali e Niger) che si schierarono con il regime.

Una scelta che in seguito avrebbero pagato duramente.

Ad aggravare ulteriormente il conflitto tra le due etnie, la chiusura nel 2014 della frontiera tra Libia e Algeria fino ad allora vantaggiosamente controllata dai tuareg. Di colpo questi si scoprivano privati di una preziosa fonte di reddito in quanto flussi commerciali, traffici e contrabbando venivano dirottati sulla frontiera con il Niger, tradizionalmente controllata dai Tebu. L’altra frontiera del sud della Libia, quella con il Ciad, dal 2013 è interessata da un imponente traffico di oro estratto, spesso artigianalmente, dalle miniere del Fezzan. Anche questo un traffico gestito principalmente dai tebu.

La scelta infelice di una parte dei tuareg (ormai in difficoltà anche sul piano sanitario) di allearsi militarmente con elementi integralisti forniva ai tebu l’occasione per tacciarli di “terrorismo” (assimilandoli ai salafiti) e di presentarsi all’opinione pubblica internazionale come garanti della lotta al medesimo nel sud della Libia. Così per esempio vennero interpretati gli scontri sanguinosi – con decine di vittime – del settembre 2014 a Ubari (storicamente feudo tuareg del Fezzan, ma con una forte presenza tebu) tra milizie tebu e tuareg. Scontri scoppiati inizialmente non certo per questioni ideologiche o religiose, ma semplicemente per il controllo dei check point e di una stazione di servizio (oltre che -beninteso – dei cospicui giacimenti petroliferi della zona).

Per la cronaca. In un primo momento i tuareg ebbero la meglio, ma successivamente – nel 2019 – persero nuovamente il controllo dei giacimenti, stavolta per mano dell’Esercito Nazionale Libico (ANL).

In questa circostanza le milizie tuareg e tebu si “riconciliarono” e costituirono un fronte comune per combattere contro l’esercito del generale Haftar.

Ennesimo paradosso del conflitto libico (talvolta – benevolmente – definito un ginepraio, ma più spesso un “autentico pantano”)?

Forse non proprio se pensiamo all’accordo di pace faticosamente conseguito e sottoscritto dalle due comunità nel 2015 a Doha.

Gianni Sartori

#ALSAZIA – “Karl Roos, un autre Dreyfus alsacien ?” – di Bernard Wittman

Sarà nelle librerie nelle prossime settimane il nuovo libro scritto dal prof. Bernard Wittman sulla vita di Karl Roos, l’autonomista alsaziano perseguitato dalla Francia per le sue idee e per la sua azione politica.

Ricordiamo che il prof. Wittman ha esposto le sue tesi, frutto di approfondite ricerche storiche, anche in un articolo da noi pubblicato in Dialogo Euroregionalista.

Per ricevere il libro è possibile anche rivolgersi all’editore

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