Il Centro Studi Dialogo al fianco del Popolo Kurdo – Roma 16 febbraio 2019 – di Alfredo Gatta

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Il Centro Studi Dialogo che fin dalla propria nascita si è configurato come punto d’incontro tra le persone che si interessano di Terre e di Culture differenti, non poteva in questi giorni esimersi dal focalizzarsi su una delle ricorrenze più drammatiche per coloro che hanno a cuore ed auspicano un cambiamento delle istituzioni presenti attualmente nel Continente europeo ed in Medio Oriente, in favore di un modello futuro che riconosca le autentiche Regioni dei Popoli. Va precisato che la nostra Associazione già da tempo si dedica alla questione inerente all’autodeterminazione e al riconoscimento dell’identità della comunità nazionale curda, avendo curato tra le altre cose la pubblicazione di un’edizione di “Capire il Kurdistan” di Gianni Sartori, uno dei massimi conoscitori ed esperti in materia. Così una nostra delegazione ha voluto partecipare al corteo organizzato dalla UIKI Onlus, associazione curda operativa sul territorio italiano, che si è svolto Sabato 16 febbraio a Roma e che ha visto la partecipazione di 5000 persone. La manifestazione era facente parte dell’alveo di una serie di iniziative andate in scena in tutta Europa finalizzate a commemorare il ventesimo anniversario dell’arresto di Abdullah Ocalan, leader del PKK e Presidente unanimemente riconosciuto dal Popolo curdo, avvenuto in Kenya il 15 febbraio 1999. Infatti, dopo un’operazione congiunta che vide la partecipazione oltreché di Stati Uniti, di Israele ed in maniera passiva purtroppo anche dell’Italia alla quale Ocalan provò a chiedere inutilmente asilo politico, il leader curdo fu imprigionato nel “carcere per un uomo solo” situato nell’isola di Imrali in Turchia, sorvegliato da ben 1500 soldati. Da quel giorno la politica da lui successivamente sviluppata in carcere ha aperto la strada, grazie alla teorizzazione della piattaforma sociale del “Confederalismo democratico”, ad una soluzione nel conflitto tra lo Stato turco ed il PKK. Tra gli anni 2008 e 2015 infatti ci sono state trattative dirette tra Ocalan e le autorità turche culminate con i “colloqui di Oslo” tra il PKK e la Repubblica di Turchia supervisionati anche dall’UE. In questa fase gli scontri bellici e le perdite di vite umane sono state minime. Il Governo Erdogan ha purtroppo unilateralmente interrotto questo processo inasprendo il regime carcerario nei confronti di Ocalan a cui furono vietate sia le visite dei familiari sia gli incontri con gli avvocati. Dall’11 settembre 2016 non vi è più alcuna notizia certa e precisa riguardo la vita, la sicurezza e la salute del leader curdo. Nonostante le richieste continue, l’UE ed il Consiglio d’Europa non hanno compiuto alcun intervento per rompere questo muro d’isolamento. A fronte di tutto ciò, oltre trecento prigionieri politici curdi nelle carceri turche, tra i quali merita una menzione particolare Leyla Guven, hanno iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato nella speranza di sensibilizzare l’opinione pubblica su questa grave violazione dei diritti umani.
Alfredo Gatta

VENEZUELA – CATALUNYA – un parallelo in un articolo di Massimo Fini

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Da un articolo apparso sul sito http://www.massimofini.it uno spunto che riguarda la Catalunya: “……Non più di un anno e mezzo fa il governo spagnolo, appellandosi alla Costituzione, come in Venezuela fa Maduro, ha messo in galera tutti i più rappresentativi esponenti indipendentisti, da Junqueras a Turull a Rull, e costretto all’esilio il loro leader, Puigdemont, nonostante l’indipendentismo catalano fosse uscito vincitore da un regolare referendum….Adesso la Spagna sostiene la legittimità di Guaidò”

per leggere l’intero articolo clikkare >QUI<

 

A 20 anni dal rapimento di Ocalan, oltre settanta curdi sono stati arrestati in Turchia. Germania e Gran Bretagna sembrano volersi accodare – di Gianni Sartori

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Alquanto discutibile. Intendo il modo adottato dalla Turchia per celebrare l’anniversario della cattura (meglio: sequestro) di Ocalan.

Rinnovando i fasti della peggior repressione anti-curda!

Il 14 febbraio la polizia turca ha perquisito diverse abitazioni nella provincia di Agri. In particolare, oltre al capoluogo, sono state passate al setaccio le case di Dogubayazit, Patnos, Tutak, Diyadin, Taslicay, Hamur e Eleskirt. Tale operazione ha portato all’arresto di 55 persone. Sia per quanto avevano pubblicato in rete, sia per aver partecipato ai funerali di alcuni militanti o a conferenze stampa. Episodi risalenti, tra l’altro, a qualche anno fa (2014-2015).

Il giorno dopo la medesima sorte toccava a Yeliz Karaasian, candidata sindaco di Agri per il Partito democratico popolare (HDP). E ancora nella giornata del 15 febbraio altre sette persone sono state arrestate nel corso di perquisizioni nel quartiere di Ercis a Van.

Particolarmente brutali le perquisizioni (con violente irruzioni da parte della polizia che ha sfondato le porte) nella città di Amed. Altri sei persone si sono così aggiunte a quelle già catturate, ma si teme che il numero possa aumentare ulteriormente.

ANCHE LA GERMANIA CONTRO I CURDI…

Pochi giorni fa in Germania la polizia aveva ugualmente perquisito – e costretto alla chiusura – due case editrici accusate di legami con il Pkk.

In attività da molti anni, la Mezopotamien Verlag und vertrieb GmbH e la MIR multimedia GmbH hanno pubblicato le opere di Abdullah Ocalan, oltre ai testi e alla musica di numerosi artisti curdi tra cui Ahmet Kaya e Sivan Perwer.  

Il ministro dell’Interno tedesco ha accusato Mezopotamia Verlag e Mir Multimedia, con sede rispettivamente in Renania del Nord e in Bassa Sassonia, di aver “utilizzato le case editrici come copertura per attività economica a favore del Pkk”.

…E LA GRAN BRETAGNA VUOLE INCARCERARE GLI INTERNAZIONALISTI

Una legge concepita per combattere il terrorismo islamico potrebbe venir utilizzata anche contro coloro che alla violenza insensata  dell’Isis si erano opposti rischiando la vita.

Questo potrebbe accadere in Gran Bretagna dove in futuro si rischieranno dieci anni di carcere per aver “soggiornato in Siria senza un valido motivo”. Resta naturalmente tutto da stabilire se  combattere contro l’Isis sia o non sia un motivo sufficientemente valido.

La legge era nata – legittimamente  – per contrastare il rientro di jiadisti stranieri nel paese di origine, ma ora potrebbe colpire anche chi ha combattuto con i curdi e nelle FDS. Già il londinese Ozkan Ozdil, volontario con le YPG,  era stato posto in manette appena sbarcato all’aeroporto di Luton. Con le nuove disposizioni, appena approvate, non si richiede più per l’arresto di dimostrare che le persone rientrate dalla Siria vi hanno effettivamente svolto attività terroristiche. Basta avervi soggiornato per aver compiuto il reato. Fatta eccezione per alcune categorie come i giornalisti o il personale di organizzazioni umanitarie. Anche l’aver partecipato alle esequie di un congiunto è ritenuto motivo sufficientemente valido e plausibile.

Quindi gli internazionalisti inglesi sono avvisati. Da questo momento hanno un mese a disposizione per lasciare i territori del Nord della Siria, prima che il decreto entri definitivamente in vigore.

Gianni Sartori

1999-2019: FINALMENTE SI TORNA A PARLARE DI OCALAN (ma ora non dimentichiamolo per altri vent’anni) – di Gianni Sartori

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Articoli di giornale, manifestazioni, appelli…

Grazie soprattutto al sacrificio dei militanti curdi – da mesi ormai in sciopero della fame – l’opinione pubblica è tornata a sentir parlare di Ocalan.

Bene, era ora. Ma sapendo come vanno le cose (passata la festa, gabbato lo santo…) sarebbe il caso di insistere. Altrimenti rischiamo di rivederlo in libertà magari tra un altro decennio, ben che vada.

Intanto vediamo di ripassare la questione rievocando il contesto e le circostanze del suo drammatico peregrinare in cerca di asilo politico. Vicenda conclusasi con il sequestro-rapimento a Nairobi.

Alla fine del 1998 la mobilitazione suscitata  dall’arrivo a Roma di Abdullah Ocalan (leader del Partiya Karkeren Kurdistan-Partito dei lavoratori del Kurdistan) apparve come la naturale conclusione di un processo iniziato mesi prima. Il 28 agosto 1998 Ocalan aveva annunciato una tregua da parte curda; lo aveva fatto dopo esplicite proposte ricevute dai vertici dello stato turco attraverso intermediari qualificati (esiste in proposito una precisa documentazione). Tuttavia, dopo l’iniziale interesse dimostrato dalle autorità turche, ben presto subentrava  un rinnovato atteggiamento bellicista. Forse – ipotizzo – un “effetto collaterale” del viaggio in Israele dell’allora premier turco Mesut Yilmaz. Appariva chiaro infatti che la questione implicava accordi ed interessi internazionali ben oltre lo storico contenzioso tra stato turco e popolo curdo. Il 28 ottobre, attraverso il suo portavoce in Europa, Kani Yilmaz (nessuna parentela con il premier turco, ovviamente), il PKK aveva dichiarato che “essendoci state delle proposte formali da parte turca, la leadership curda aveva il dovere di verificarle, anche se è apparsa chiara fin dai primi giorni l’insincerità dello stato turco e la sua volontà di usare il cessate il fuoco curdo all’interno di una tattica dilatoria, tenendo contemporaneamente costante l’opzione militare“.

Nei messaggi pervenuti a esponenti della resistenza curda e presentati a Roma dal portavoce del PKK, Ankara si impegnava a garantire l’agibilità politica del PKK; a verificare gli errori commessi da entrambi i contendenti ed in particolare l’inasprimento della repressione dopo il 1993; a dare spazio ad una assunzione di responsabilità da parte del PKK e delle forze di opposizione nel processo di cambiamento dello stato. La Turchia diceva anche di voler assumere un atteggiamento positivo nei confronti di alcune richieste (definite plausibili) avanzate dal PKK come il blocco delle operazioni militari da parte dell’esercito turco e lo scioglimento dei corpi paramilitari in vista di una soluzione politica e pacifica della questione curda. Si prospettava lo svolgimento pacifico e veramente democratico di elezioni (con la garanzia di osservatori internazionali) e la possibilità di una amnistia generale per i prigionieri politici. Addirittura si evocava la possibilità  di un incontro dei vertici militari turchi con Ocalan. Ma si trattava  – sostanzialmente – di una trappola.  Nonostante da parte dei curdi venissero rispettati gli impegni di tregua, la Turchia sceglieva ancora una volta la via repressiva e militare: almeno 15mila soldati turchi penetravano nel Kurdistan sud (in territorio irakeno) in vista di una’ ennesima offensiva anticurda. Era la medesima tattica adottata dal governo turco nel ’93 e nel ’96, in occasione di due tregue unilaterali annunciate dal PKK. Appariva evidente che il fallimento del “cessate il fuoco” era imputabile soprattutto alla non volontà di dialogo della Turchia. Nel frattempo si intensificavano le operazioni repressive contro vari organismi curdi. Veniva chiuso il quotidiano Ulkede Gundem,  devastate le sedi del partito legale Hadep (i cui dirigenti, da tempo in carcere, erano in sciopero della fame) e centinaia di persone venivano  fermate o arrestate. In particolare il leader del PKK Ocalan diventava bersaglio di una politica di annientamento fisico. All’attacco contro Ocalan il popolo curdo sapeva reagire con determinazione, sia con manifestazioni di protesta che con nuove lotte nelle carceri (dove si trovavano rinchiusi circa diecimila prigionieri politici e di guerra curdi). Nel mese di ottobre 1998 ben diciassette di loro si davano fuoco. Sei di loro perdevano la vita mentre altri sette venivano ricoverati in ospedale con gravissime ustioni. Il 20 ottobre 1988 altri due curdi, imprigionati perché membri del PKK, morivano carbonizzati nel carcere di Midyat durante una protesta contro le disumane condizioni detentive. Altri tre perdevano la vita in tre diverse prigioni turche. In fin di vita anche il prigioniero curdo Mehemet Aydin che si era dato fuoco il 13 novembre. Nei giorni successivi un’altra decina di prigionieri curdi  tentavano il suicidio per protestare contro le minacce di estradizione per Ocalan. A questi se ne aggiungevano altri tre (due a Mosca e uno a Roma, rispettivamente il 17 e il 18 novembre) che si erano dati fuoco dopo essersi cosparsi di benzina. E la repressione turca intanto imperversava. Soltanto il 17 ottobre, alla manifestazione delle “Madri del sabato” organizzata dai parenti degli scomparsi (i “kayiplar“, migliaia ormai), si registravano più di cinquecento arresti. Ma questi fatti clamorosi potrebbero aver oscurato un gran numero di episodi considerati, a torto, minori. Ne riporto solo un paio riguardanti minorenni e da cui emerge tutta la brutalità del regime turco nei confronti del popolo curdo.

In una conferenza stampa tenuta dalla Human Right Association la madre di un handicappato mentale ha accusato pubblicamente due agenti di aver torturato suo figlio a Istanbul il 13 settembre 1998. Il ragazzo, Metin Caglayan, era stato arrestato mentre giocava in strada e quindi trascinato in una cella della stazione di polizia.

Pochi giorni prima, il 7 settembre, quattro ragazze di età compresa fra gli 11 e i 15 anni venivano arrestate nei pressi di Izmir perché indossavano abiti rossi, gialli e verdi (i colori della bandiera curda). Secondo il quotidiano Radikal le ragazze stavano organizzando uno spettacolo di beneficenza. Inoltre tra il 16 e il 22 novembre 1998  – nel corso delle retate contro gli esponenti del partito Hadep – finivano in carcere circa 2.700 persone. Due militanti arrestati (Metin Yurtserver e il diciottenne Halit Cakir) morivano a causa delle percosse subite.

Normale amministrazione per il popolo curdo che da anni patisce torture, squadroni della morte, leggi di emergenza.

Una situazione di brutale repressione e controllo sociale che non riguarda solo i curdi ma anche ampi settori delle classi popolari turche e da cui hanno tratto consistenti benefici i nostri industriali. Sono più di cinquemila le imprese italiane installate in Turchia dove usufruiscono dei sottosalari turchi, della repressione antisindacale (vedi – sempre alla fine degli anni novanta – il caso della Fiat dove almeno duecento operai turchi venivano licenziati per aver lasciato il sindacato ‘giallo’ di regime Turk Metal ed essersi iscritti al Birlesik Metal-is) e del lavoro minorile (almeno tre milioni di bambini sfruttati soprattutto nelle aziende del campo tessile e del vestiario). La maggior parte dei minori che all’epoca lavoravano per Benetton (vedi il caso della Bermuda Tekstil) erano figli di profughi curdi, arrivati nelle metropoli turche dopo la distruzione dei loro villaggi.

È tempo – scrivevo già allora – che anche l’opinione pubblica italiana reagisca adeguatamente, prima che questo secolo, apertosi con il genocidio armeno, si concluda sulle stesse terre con il genocidio dei curdi. Ripensando a quello che è stato fattocontro il regime sudafricano dell’apartheid bisognerebbe denunciare e boicottare tutti coloro (Benetton, Fiat, Turbanitalia, gli orafi veneti…) che con le loro attività commerciali contribuiscono a mantenere in vita il regime fascista di Ankara; fermare almeno l’esportazione di armi dall’Italia verso la Turchia*. Sarebbe anche necessario che nuove delegazioni di parlamentari, giuristi, giornalisti, esponenti di associazioni in difesa dei diritti umani si recassero in Turchia per denunciare la logica di sterminio applicata contro i dissidenti nel circuito carcerario turco. Inoltre le vittime di questa politica criminale che giungono in Italia andrebbero trattate come profughi di guerra, una sporca guerra genocida di cui anche noi dobbiamo sentirci responsabili”.

A venti anni di distanza sostanzialmente sottoscrivo e ribadisco.

Ma intanto proseguiva il peregrinare di Ocalan e la vicenda si avviava verso il noto, drammatico e vergognoso epilogo.

Come già detto, di fronte all’intransigenza turca e vedendo le pressioni subite dal governo siriano, Ocalan e altri dirigenti del Pkk rifugiati in Siria e in Libano avevano cercato di avviare un dialogo con la controparte. Ma invano. Ankara andava ammassando truppe al confine con la Siria e interrompeva il flusso delle acque proveniente dalla diga di Ataturk. Nonostante il vero e proprio assedio, Damasco si rifiutò di consegnare Ocalan alla Turchia. Tuttavia il 9 ottobre 1998, dopo quaranta ore di negoziati ininterrotti, accettò di siglare un accordo con cui si impegnava a sospendere ogni appoggio al Pkk. Lo stesso giorno Ocalan volava a Mosca dove il primo ministro russo rifiutò di concedergli l’asilo politico.

Il 12 novembre 1998 sbarcava a Roma. Con lui sull’aereo il responsabile degli Esteri di Rifondazione Comunista, Ramon Mantovani, e il rappresentante in Italia dell’Ernk (Fronte di liberazione nazionale del Kurdistan) Ahmet Yaman. È accertato che in un primo momento il premier Massimo D’Alema aveva garantito – a Bertinotti – il suo interessamento per concedere al militante curdo l’asilo politico. Le ripetute ingerenze di Washington gli faranno cambiare non solo atteggiamento, ma anche linguaggio. Quello che inizialmente aveva definito “leader curdo” diventerà un generico “signor Ocalan” per finire con “il terrorista Ocalan”. Alla fine, nonostante l’impegno allo stremo del compianto Dino Frisullo e l’arrivo a Roma di migliaia di curdi della diaspora, Ocalan dovrà andarsene.

Il 29 gennaio 1999 è in Grecia da dove viene immediatamente inviato in Kenya presso l’ambasciata ellenica di Nairobi. Essendo nota la disponibilità di Nelson Mandela, gli viene fatto credere che sarà portato in Sudafrica. Invece il 15 febbraio viene sequestrato e rapito da agenti mascherati (presumibilmente turchi, ma si parlò della partecipazione di servizi segreti di altri paesi).

Come concludere? Forse ricordando ai governanti turchi e ai loro alleati (tanto occidentali che mediorientali) che per una decente soluzione politica del conflitto turco-curdo la partecipazione diretta di Ocalan ai negoziati è assolutamente necessaria. Così come nel Sudafrica del secolo scorso la fuoriuscita dall’apartheid era impensabile senza il contributo attivo del prigioniero Nelson Mandela, il leader dell’African National Congress (ANC).

Gianni Sartori

*nota 1 Qualche dato sui rapporti intercorsi alla fine del secolo scorso (ma attualmente la situazione non è cambiata di molto) tra Italia eTurchia in materia di export di armi. Armi utilizzate soprattutto contro gli insorti curdi.

Nel 1990 il Parlamento italiano approvava la legge 185 sul commercio delle armi che vietava la vendita verso paesi in stato di conflitto armato, verso paesi la cui politica contrasti con l’articolo 11 della nostra Costituzione e verso paesi i cui governi si siano resi responsabili di accertate violazioni dei diritti umani. Anche se la Turchia rientrava – e rientra –  sicuramente in questi parametri, non mancavano le scappatoie. Per esempio le procedure della 185 non si applicano rigidamente ai materiali di alcuni settori, come l’aeronautica e la missilistica, considerati a doppio uso, sia civile che militare. In base alla legge 222 del 1992 vengono classificati come “materiali ad alta tecnologia” e la loro esportazione viene liberalizzata verso i paesi industrializzati (vedi decreto novembre 1993 del ministero del Commercio estero).

All’epoca – fine anni novanta – si era parlato insistentemente della possibile vendita di un’azienda italiana produttrice di armi (la “Bernadelli spa” di Gardone Val Trompia) a imprenditori turchi. Chissà com’era finita, poi.

E intanto la Oto Breda si candidava per la vendita alla Turchia di un migliaio di carri armati e l’Agusta di altrettanti elicotteri antiguerriglia.

Tutto questo per dire che in fondo bisognava aspettarselo. Ocalan non poteva trovare ospitalità in Italia se non mettendo a rischio la notevole e proficua mole di affari tra Roma e Ankara.

Öcalan – Vent’anni di resistenza in un’isola carcere – fonte Uiki onlus

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L’Iniziativa Internazionale “Libertà per Abdullah Öcalan – Pace in Kurdistan” ha rilasciato una dichiarazione in occasione del 20° anniversario del complotto contro il precursore del movimento di liberazione curdo.

La giornata di oggi segna il 20° anniversario del sequestro di Abdullah Öcalan da Nairobi/Kenya nell’anno 1999 in un’azione coordinata alla quale presero parte molti Stati. L’indignazione per il sequestro e la consegna di Öcalan alla Turchia, dove più tardi fu condannato a morte, nel marzo 1999 portò alla fondazione dell’Iniziativa Internazionale “Libertà per Abdullah Öcalan – Pace in Kurdistan”. In occasione dell’anniversario del complotto contro il precursore del movimento di liberazione curdo, l’Iniziativa Internazionale ha rilasciato una dichiarazione con il titolo „Un risultato inatteso – Vent’anni di resistenza in un’isola carcere: La creazione di un’alternativa per gli oppressi”.

“Vent’anni fa, il 15 febbraio 1999, il mondo è stato sconvolto dal sequestro del leader curdo Abdullah Öcalan nella capitale keniota Nairobi e dalle successive proteste delle curde e dei curdi a livello mondiale. In una collaborazione tra diversi servizi segreti occidentali fu consegnato alla Turchia, giudicato sommariamente in un processo spettacolo e condannato a morte. Da allora Abdullah Öcalan è stato recluso in isolamento, in un regime carcerario che mira all’annientamento fisico e psicologico. Oggi, nel ventesimo anniversario di questi eventi, è tempo di volgere lo sguardo all’indietro e allo stesso tempo in avanti.

Nell’estate del 1998 Abdullah Öcalan, il Presidente del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), rafforzò i suoi sforzi per una soluzione politica della questione curda proclamando un cessate il fuoco e la disponibilità del movimento ad una soluzione pacifica. La Turchia invece con il sostegno degli USA, inasprì la situazione attraverso la minaccia di invadere la Siria, dove Öcalan si trovava all’epoca. Si decise a recarsi in Europa per chiedere sostegno internazionale per una soluzione politica.

Questa non c’è stata. Gli Stati della NATO e perfino la Russia di Eltsin erano schierati su un fronte – contro la pace e una soluzione politica. Nessuno Stato europeo era disposto anche solo a prendere in considerazione l’asilo politico o a sostenere qualsiasi tipo di colloqui politici. Vent’anni dopo ne sappiamo tutti di più. La Turchia ha effettivamente invaso la Siria. I resti dell’ordine politico mediorientale sono in macerie. L’atto scandaloso del sequestro in violazione della legalità internazionale, non è stato un favore alla Turchia, ma piuttosto l’inizio di una nuova tornata di interventi. La Turchia non ha risolto nessuno dei suoi problemi, ma piuttosto è stata trasformata in una dittatura aggressiva che agisce al proprio interno e all’estero con enorme violenza.

L’Iniziativa Internazionale “Libertà per Abdullah Öcalan – Pace in Kurdistan”, fondata solo poche settimane dopo il sequestro, fin dall’inizio ha sottolineato che la libertà di Öcalan sarebbe stata assolutamente essenziale per una soluzione politica della questione curda. Gli sviluppi ci hanno dato ragione: peggiore è l’isolamento totale imposto a Öcalan – da quattro anni è segregato in modo praticamente totale dal resto del mondo – peggiore diventa la politica militare dello Stato turco. E più può parlare, più diventa possibile che ci sia distensione, più arrivano all’ordine del giorno dei cessate il fuoco, e la situazione generale in Turchia migliora.

Solo poco dopo il sequestro di Öcalan, il mondo si è trovato confrontato con la cosiddetta “guerra contro il terrorismo”. Questa guerra, condotta a livello mondiale con baricentro nel Medio Oriente, ha portato terrorismo in una molteplicità di luoghi e contro molti popoli. Uomini, donne e bambini di diversi popoli sono diventati vittime del terrorismo di Stato, del terrorismo religioso e nazionalista – spesso tutte le cose insieme. Le curde i curdi e i loro vicini vivono nel centro di tutto questo.

Öcalan, all’epoca già da tre decenni un lungimirante rivoluzionario e politico, ha previsto molti degli eventi. In carcere ha scritto diffusamente della necessità di sviluppare un nuovo paradigma sulla base di democrazia, libertà della donna e auto-organizzazione autonoma per uscire dai vicoli ciechi nei quali ha portato in molti movimenti di liberazione la visione limitata a Stato, potere e violenza.

Grazie a queste idee e a questi concetti come il confederalismo democratico, il movimento di liberazione curdo e le sue amiche ed i suoi amici e alleati, non sono semplicemente diventati ancora una volta vittime. Hanno invece sviluppato proprie idee e forme organizzative progressiste e in questo mondo sono diventati un faro di speranza nella regione del Medio Oriente altrimenti scossa dalle crisi. Nonostante tutti gli sforzi di limitare l’influenza di Öcalan, non solo è diventato il più influente politico curdo, ma anche simbolo di speranza per tutti i popoli oppressi e le donne nella regione. Come ha scritto di recente il noto teorico Antonio Negri: “Öcalan è un prigioniero che diventa un mito – come Mandela nel ventesimo secolo, così lui nel ventunesimo. Esprime una serie di concetti che nel ventunesimo secolo diventano progressivamente componenti per la costruzione politica di un mondo nuovo.”

E così il bilancio dopo vent’anni è misto. Da un lato Öcalan è più influente che mai, riconosciuto come voce della pace e portavoce legittimo per il suo popolo. Dall’altro non siamo ancora riusciti a concludere con successo la lotta per la sua liberazione. Peggio ancora: nel ventesimo anniversario del complotto internazionale per il suo sequestro e la sua consegna alla Turchia, il suo isolamento è più forte di quanto fosse ancora un paio di anni fa. La lotta contro queste condizioni orrende e assolutamente inconcepibili, continua nel pieno della sua forza. Proprio ora la deputata curda nel Parlamento turco, Leyla Güven, e centinaia di altre e altri sono in sciopero della fame per ottenere proprio questo: una fine dell’isolamento di Öcalan, perché possa di nuovo alzare la voce della pace.

Nelson Mandela all’età di 72 anni dopo 27 anni di reclusione è stato liberato dal carcere. Nel ventesimo anniversario del sequestro di Öcalan e poco prima del suo settantesimo compleanno siamo decisi a non aspettare tanto a lungo. Lottate con noi per la pace e la libertà di Öcalan. Abdullah Öcalan deve essere liberato, ora immediatamente!

FREE ÖCALAN! IL TEMPO È MATURO!”

fonte: http://www.uikionlus.com

IRELAND – “Derry, rabbia e paura dopo l’autobomba” – di Riccardo Michelucci

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Un articolo di Riccardo Michelucci, specialista della Storia e dell’attualità irlandese, sul recente attentato a Derry, rivendicato dalla “Nuova IRA” e pubblicato sul Blog “Memoria Storica” http://www.riccardomichelucci.it

“Erano sette anni che non esplodeva un’autobomba da queste parti. Per la popolazione di Derry è stato un brusco risveglio: ha fatto svanire di colpo la convinzione che la guerra fosse ormai solo un lontano ricordo. “Sembrava un sabato sera come tutti gli altri, finché non abbiamo ricevuto la chiamata della polizia che ci ordinava di evacuare immediatamente l’edificio”. Ciaran O’Neill è il direttore del Bishop’s Gate Hotel, l’elegante albergo che si trova a poche decine di metri dal luogo dell’attentato del 19 gennaio scorso.”

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