Un appello dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia – segnalazione di Gianni Sartori

Usa-Turchia/ Ricompensa Usa: fino a 5 mln dollari per notizie su leader Pkk

Appello urgente al pubblico democratico, al popolo americano e al Presidente, al Congresso e al Senato degli Stati Uniti d’America

Il 6 novembre l’appena nominato vice-assistente Segretario di Stato per gli affari europei ed euroasiatici, il sig. Matthew Palmer, ha annunciato durante un incontro con i funzionari del governo turco, che il programma del Dipartimento di Stato USA Ricompense per la giustizia sta colpendo tre membri di alto livello del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK) – Murat Karayilan, Cemil Bayik e Duran Kalkan – ed “ha autorizzato delle ricompense per informazioni che conducano alla loro identificazione e posizione.”

Condanniamo questa decisione palesemente ingiusta. È ovvio che si tratta di una decisione politica per dare alla Turchia più libertà d’azione per continuare le proprie atrocità contro il popolo curdo, spesso con le sofisticate armi e l’intelligence militare della NATO. Le radici dell’attuale conflitto hanno origine nelle conseguenze del Trattato di Losanna nel 29 ottobre 1923, con la fondazione dello stato turco che scatenò immediatamente una guerra contro il popolo curdo e altri popoli indigeni per imporre il proprio nazionalismo esclusivo.

I mezzi usati dallo stato turco spaziano dal terrorismo sponsorizzato dallo stato, alla negazione dei diritti politici, della libertà di associazione ed espressione e all’eliminazione culturale dell’identità curda. Durante tutti i decenni di oppressione, il Movimento di Liberazione Curdo ha usato solo le forme minime di resistenza per autodifesa, i modi pacifici di organizzazione politica, il reclamo dell’identità culturale e la rinuncia ad ogni atto di terrorismo.

Il sig. Murat Karayilan, il sig. Cemil Bayik e il sig. Duran Kalkan sono politici che hanno lottato contro il fascismo turco, l’ISIS e il totalitarismo di Erdogan. Il PKK non ha solo combattuto l’ISIS, ma avviato passi molto importanti nel creare un nuovo Medio Oriente basato sulla fratellanza di arabi, curdi, siriaci, armeni, circassi, persiani e turchi con l’idea di nazione democratica. Queste persone amanti della libertà si stanno volontariamente impegnando per conseguire pace e serenità tra turchi, curdi e altri gruppi etnici e stanno lavorando senza sosta per realizzare la democrazia a livello di base.

Il PKK ha sempre richiesto una soluzione pacifica e politica della questione curda attraverso la mediazione degli USA, dell’UE, dell’ONU per aprire un processo di dialogo costruttivo tra PKK e stato turco. Il sig. Ocalan, leader del Movimento di Liberazione Curdo, ha annunciato il processo di pace e la riconciliazione nel marzo 2013, cosa che ha messo fine alle ostilità e prometteva bene. Con rammarico, Erdogan mise bruscamente fine a questo processo nel giugno 2015, riprendendo le ostilità per trarne vantaggio politico.

Il programma Ricompense per la giustizia rende gli USA complici nelle atrocità della Turchia e nei genocidi contro curdi, armeni e altre minoranze come aleviti e yazidi. Ciò va contro i professati valori di libertà e democrazia promossi dagli Stati Uniti. Quali che siano i motivi geopolitici e finanziari dietro questo programma, esso non è difendibile il popolo degli Stati Uniti deve rendersi contro che il proprio governo sta sostenendo atrocità genocide.

Chiediamo al popolo americano, al Presidente, al governo federale, al Senato, al Congresso e a tutte le organizzazioni democratiche di rispettare i diritti politici del popolo del Kurdistan. I partiti politici curdi, gli intellettuali e ogni curda e curdo conoscono bene il barbarico sistema coloniale dello stato turco e combatteranno per i propri diritti democratici e nazionali a prescindere da chi sostenga la Turchia.

Gli americani devono sviluppare una visione indipendente della lotta per libertà curda piuttosto che quella fornita loro dallo stato turco e dal presidente turco Erdogan le cui politiche autoritarie e antidemoctratiche sono dimostrate quotidianamente.

Le forze democratiche del Medio Oriente stavano aspettando che il PKK fosse rimosso dalla lista delle organizzazioni terroristiche negli USA e in Europa, ma sembra che Erdogan possa influenzare i governi affinché continuino a tenere in lista nera il PKK così che lui possa scatenere guerre in nome della lotta al terrorismo.

Continueremo a lottare per una soluzione pacifica della questione curda in tutte le parti del Kurdistan, inclusa la Turchia, preservando l’intrinseco diritto all’autodifesa e chiedendo agli amici della democrazia e della giustizia di sostenerci in questi tempi difficili.

Ufficio di Informazione del Kurdistan in Italia

NESSUN “GIUSTO” PER SARA GESSES – di Gianni Sartori

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Ci sono storie che insegui inconsapevolmente per anni, o forse sono quelle storie che ti inseguono.

Una prima volta ne avevo sentito parlare circa trenta anni fa. Un giro in bici, una sosta nella piazzetta di un paese mai visto prima, un casuale incontro con un’anziana che aveva assistito ai fatti di persona. Mi parlò di un evento all’epoca poco conosciuto (“obliterato”), su cui poco pietosamente veniva steso un velo di silenzio: la deportazione in una antica villa padronale di Vò Vecchio (Villa Contarini-Venier) di un gruppo di ebrei rastrellati nel Ghetto di Padova (dicembre 1943). E mi accennò ad un episodio ancora più inquietante, il tentativo di una bambina (forse spinta dalla madre) di nascondersi in una barchessa per evitare la definitiva deportazione (luglio 1944).
Qualche anno dopo (sempre casualmente) raccolsi altri particolari da una parente, forse una nipote, dell’anziana ormai scomparsa. Per timore di rappresaglie, la bambina sarebbe stata riportata ai tedeschi il giorno dopo. Fatto sta che emerse nel racconto una precisa responsabilità delle Suore Elisabettiane (incaricate di occuparsi della cucina del campo di concentramento) nel “restituire” Sara agli aguzzini. Ricordo che il controllo del campo di Vò Vecchio, uno dei circa 30 istituiti dalla R.S.I. di Mussolini, era affidato a personale di polizia italiano (presenti anche alcuni carabinieri). Invece la lapide sulla facciata della villa in memoria di quanti non ritornarono (posta soltanto nel 2001) ne parla come di un evento avvenuto “durante l’occupazione tedesca” senza un accenno alle responsabilità del fascismo italiano (forse per la serie”Italiani brava gente”…). Il tragitto dei 43 ebrei da Vò Vecchio verso la soluzione finale è noto e ben documentato. La macchina burocratica funzionava alla perfezione e la pratica di ognuno dei deportati proseguì regolarmente grazie a decine di anonimi complici, esecutori senza volto. Fatti salire su due camion, vennero prima richiusi nelle carceri Padova e poi inviati a Trieste, nella Risiera di San Sabba. Tappa definitiva, Auschwitz.
Quanto alla bimba, si chiamava Sara Gesses (doveva avere sei o sette anni, ma alcune fonti parlano di dieci) e – questo l’ho saputo solo recentemente – venne riportata a Padova con la corriera (quella di linea) dal comandante del campo in persona, Lepore (quello che in alcuni scritti veniva definito “più umano” rispetto al suo predecessore). Anche al momento di salire sulla corriera Sara si sarebbe ribellata, avrebbe pianto, gridato, forse scalciato. Vien da chiedersi come il zelante funzionario abbia poi potuto convivere con il ricordo di questa creatura condotta al macello. Ma in fondo Lepore non era altro che una delle tante indispensabili rotelline dell’ingranaggio, un cane da guardia addomesticato, servo docile incapace di un gesto sia di ribellione che di compassione. Pare che un maldestro tentativo di giustificarsi sia poi venuto da parte delle suore che dissero di aver agito in quel modo “per riportarla insieme alla mamma”. L’ipocrisia a braccetto con la falsa coscienza.
In precedenza, insieme ai genitori, la bambina era stata catturata vicino al confine con la Svizzera durante un tentativo di fuga e quindi riportata nel padovano. Non solo. A Padova la madre era riuscita a farla scivolar fuori dal finestrino di un’altra corriera, quella che dal carcere di Padova stava portando i prigionieri a Trieste. Le aveva appuntato sul vestito un biglietto con l’indirizzo di alcuni familiari. Infatti qualcuno raccolse la bambina e la portò al recapito segnalato, dove pare sia rimasta qualche giorno, apparentemente salva e al sicuro. Ma poi – inesorabili – i tedeschi, accompagnati dalla manovalanza fascista (ricordo che all’epoca a Padova imperversava la criminale Banda Carità) arrivarono a riprendersela. Tornata nelle grinfie degli sgherri nazifascisti, Sara venne trasferita alla Risiera di San Sabba a Trieste dove già languivano i suoi familiari e gli altri ebrei patavini.
In Polonia la maggior parte dei deportati (47, tra cui Sara) venne immediatamente “selezionata” per le camere a gas. Solo una decina venne momentaneamente risparmiata e di questi solo tre sopravvissero.
Sara che non aveva incontrato nessun “giusto” sul suo cammino venne avviata alla camera a gas appena scesa dal convoglio 33T sulla rampa di Birkenau, nella notte tra il 3 e il 4 agosto agosto 1944. La sua “morte piccina” (come quella della bambina di Sidone cantata da De André) rimane un delitto senza possibile redenzione, ma di cui dobbiamo almeno conservare la memoria.

Gianni Sartori

Brasile, convegno dei diffusori del talian (veneto-brasiliano) – di Ettore Beggiato

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In questo fine settimana e precisamente nei giorni 9, 10 e 11 novembre si terrà nella cittadina brasiliana di Serafina Correa, Rio Grande do Sul, il ventiduesimo incontro nazionale dei diffusori del talian ( veneto-brasiliano).

La tre giorni, che viene organizzata ancora una volta da Paolo Massolini, medico chirurgo di lontane origini vicentine, straordinario protagonista della lotta per la tutela e la valorizzazione del talian, inizierà venerdì 9 e prevede “Filò con brodo, storie,frotole e busie”, nella giornata di sabato inizieranno i lavori con diversi gruppi di studio sui rapporti con le istituzioni e con le università e sullo “stato di salute” del talian con particolare riferimento alla presenza nei mass-media mentre domenega 11 alle ore 8 “Messa in talian del prete Alberto Tremea” alla quale seguirà l’assemblea generale con la nomina del nuovo direttivo.

L’iniziativa assume quest’anno un significato del tutto particolare vista la recente elezione a Presidente del Brasile di Jair Bolsonaro, la cui famiglia partì dal Veneto alla fine dell’ottocento.

Sono passati quattro anni dal riconoscimento ufficiale da parte del governo federale brasiliano del talian come “Patrimonio Culturale Immateriale del Brasile”;  prima lingua minoritaria brasiliana che ha ricevuto tale riconoscimento; il talian viene correntemente parlato da milioni di brasiliani soprattutto nei tre stati del Brasile del sud, Rio Grande so Sul, Santa Catarina e Paranà, ma anche negli stati di San Paolo e di Spirito Santo .

Ma come si può definire “el talian” ?  Gli studiosi definiscono el talian  (o veneto-brasiliano), l’ultima lingua neo-latina conosciuta, singolare koinè su base veneto-centrale nella quale si innestano termini brasiliani; una lingua “viva”, usata quotidianamente sul lavoro o all’università, per scrivere canzoni e poesie, in teatro, alla radio o alla TV.  Ecco come la descrive Darcy Loss Luzzatto autore di un vocabolario “Brasiliano – Talian” di oltre ottocento pagine:

 “I nostri vecii, co i ze rivadi, oriundi de i pi difarenti posti del Nord d’Italia, i se ga portadi adrio no solche la fameia e i pochi trapei che i gaveva de suo, ma anca la soa parlada, le soe abitudini, la soa fede, la so maniera de essar…. Qua, metesti tuti insieme, par farse capir un co l’altro, par forsa ghe ga tocà mescolar su i soi dialeti d’origine e, cossita, pianpian ghe ze nassesto sta nova lengua, pi veneta che altro, parchè i veneti i zera la magioranza, el talian o Veneto brasilian.”

 Nel vocabolario troviamo, per esempio,  un termine praticamente intraducibile in italiano, ma che i veneti conoscono benissimo “freschin”: in brasiliano diventa “odor desagradavel” e per spiegarlo meglio l’amico Darcy aggiunge un          ” Che bira zela questa? La sa de freschin!” che non ha bisogno di ulteriori spiegazioni…..

 E’ straordinario come i discendenti di quei veneti che partirono nel lontanissimo 1875 (in seguito alle disastrose condizioni nelle quali il Veneto si era venuto a trovare  dopo l’annessione  all’Italia) abbiano conservato un simile patrimonio d lingua, cultura, civiltà; ed è ancora più incredibile se pensiamo che, durante la seconda guerra mondiale il “talian” venne proibito dall’allora dittatore Getullio Vargas.

Il Brasile entrò in guerra a fianco degli alleati e proibì sia l’uso del talian che del tedesco; diversi emigranti finirono in carcere e la loro non fu una sfida politica ma l’impossibilità di parlare un’altra lingua che non fosse il “talian”; ma nonostante questo la lingua dei veneti del Brasile ne è uscita più forte e più viva che mai.

 Un altro pericolo per la lingua dei veneti “de là de l’oceano” è costituito da quei docenti che partono dall’Italia con l’obiettivo di portare la lingua italiana “grammaticale” come viene da loro chiamata.

 Ecco quanto denunciava  Padre Rovilio Costa, scomparso qualche anno fa, vero e proprio patriarca della cultura taliana in Brasile, in  un messaggio chiaro e senza fronzoli, diretto a chi arriva dall’Italia e dal Veneto: 

 “Prima de tuto, che i italiani, sia veneti o de altre region, i vegna in Brasil rispetando la nostra cultura taliana, la nostra lengua che la ze el talian, no par imporre el so modo de veder e de far”.

Lascio la conclusione a  Darcy Loss Luzzatto, a una sua poesia che dovrebbe essere diffusa nel nostro Veneto, dove scandalosamente c’è gente che si vergogna di parlare la lingua veneta, soprattutto nelle nostre scuole:

 “Com’e bela ‘a nostra lengua, com’è melodiosa. E poetica.  Basta parlada con   orgolio  e alegria, mai con paura o co la boca streta e vergognosa. E si con onor, con tanto tanto amor e simpatia”.  

 Ettore Beggiato

 Cittadino onorario

 Serafina Correa (Rio Grande do Sul)