#Asia #Popoli – MIGLIAIA DI ADIVASI PRESENZIANO AL FUNERALE DEL NAXALITA MADVI HIDMA – di Gianni Sartori

Comunque vada a finire, pare evidente che i partecipati funerali di Madvi Hidma (Santosh) nel villaggio natale di Puvarthi, distretto di Sukma nel Chhattisgarh (inevitabile pensare a quelli grandiosi di Durruti ucciso il 20 novembre del ’36), vanno in assoluta controtendenza con quanto gran parte degli osservatori internazionali (si parva licet, anche chi scrive) dava ormai per scontato. Ossia la sostanziale fine del movimento naxalita. In particolare dopo l’ennesimo episodio di resa di alti dirigenti maoisti (una decina dal 2024) il 28 ottobre: Pulluri Prasad Rao (Shankaranna, membro del comitato centrale) e Bandi Prakash (Prakash, membro del comitato di Telangana).

Il 18 novembre il comandante maoista Madvi Hidma, sua moglie Raje (Rajakka) e altri quattro maoisti erano stati uccisi in circostanze non chiare (si ipotizza un’esecuzione extragiudiziale da parte dei paramilitari anti-guerriglia) nella foresta di Maredumilli (distretto di Alluri Sitharama Raju, in Andra Pradesh). Nello stesso giorno venivano arrestati una trentina di maoisti.

Al funerale hanno partecipato, nonostante il clima repressivo instaurato dal governo (dopo l’autopsia il corpo è stato trasferito sotto ampia scorta militare e il villaggio era presidiato da un consistente dispositivo di sicurezza), migliaia di adivasi, gli indigeni autoctoni tra i quali godeva di ampia popolarità.

Le esequie si sono svolte secondo il rito tradizionale adivasi.

Ma chi era Madvi Hidma? Nato nel 1981, al momento della morte risultava comandante di alto livello del Partito comunista dell’India (maoista) Era ritenuto responsabile di numerose azioni della guerriglia natalità, tra cui l’attaccodel 2013 nella valle di Darbha. Si era integrato nel PCI (maoista) alla fine del secolo scorso per diventare in breve tempo comandante del 1° battaglione di Plga, considerata l’unità d’élite della guerriglia, nella regione di Dandakaranya (estesa in Chhattisgarh, Odisha, Andhra Pradesh, Telangana e Maharashtra). Oltre che il più giovane, era l’unico esponente tribale di Bastar in seno al comitato centrale. La sua morte (successiva di qualche mese a quella dell’ex segretario generale maoista Nambala Keshava Rao) è caduta in una fase convulsa per il movimento naxalita a causa dei numerosi arresti e capitolazioni. Sotto i colpi dell’operazione contro-insurrezionale Kagaar con cui il governo Modi intende risolvere entro l’anno prossimo (definitivamente e manu militari) la pluridecennale questione dell’insorgenza maoista e tribale.

Gianni Sartori

#Americhe #Brasile – LA LCP ANCORA SOTTO TIRO – di Gianni Sartori

Come in passato, gli accampamenti dei contadini poveri vengono attaccati e distrutti, mentre le famiglie sono deportate.

La Lega dei Contadini Poveri (LCP) è un movimento popolare del Brasile ben radicato negli stati occidentali di Rondônia e Amazonas.

Già finita, suo malgrado, sotto i riflettori dei media nell’ottobre 2020 quando l’Accampamento di Tiago Campin dos Santos (con circa seicento famiglie di contadini e oltre un centinaio di bambini) veniva attaccato dal BOPE (polizia militare) e dalla Forza Tattica con impiego di elicotteri e granate lacrimogene.

Eravamo in piena era-Bolsonaro e lo scopo evidente era quello di sfrattare i contadini per consegnare le terre occupate ai latifondisti.

Oltre a distruggere le cucine collettive e depredarli dei loro miseri averi (attrezzi da lavoro, telefoni, documenti, un po’ di denaro..), i militari avrebbero costretto i contadini ad assistere alla proiezione di un video in cui Bolsonaro stesso li minacciava “di morte” se non avessero consegnato i loro leader. 

Infine i contadini con i loro familiari sono stati caricati a forza sui camion forniti dai latifondisti per deportarli lontano, a Vila Penha.

Alcune persone dell’accampamento in seguito risultarono desaparecidas.

Le cose non erano tanto cambiate un anno dopo quando, il 29 ottobre 2021, due membri della LCP (Gedeon José Duque e Rafael Gasparini Tedesco) venivano assassinati nel corso di un episodio simile: lo sgombero con la forza di oltre 700 famiglie nella zona di Nova Mutum.

In questa circostanza decine di pistoleros sul libro paga dei latifondisti avevano dato man forte al Battaglione delle Operazioni Speciali.

Le famiglie le cui abitazioni erano state distrutte rimanevano poi a lungo in situazione precaria, senza acqua e cibo, sottoposte a minacce e violenze. Nello stesso periodo altri sette contadini legati alla LCP erano stati assassinati nella regione di Nova Mutum.

In questi giorni le cose sembrano doversi ripetere con l’operazione “Godos” avviata nello stato di Rondônia (nella parte nord-occidentale del Brasile, confinante con la Bolivia) contro la LCP.

Per l’occasione sono stati mobilitati circa 500 poliziotti, sia civili che militari.

Al momento le persone arrestate sono una ventina, una cinquantina quelle ricercate e almeno una vittima, un contadino, ancora nella zona di Tiago Campin dos Santos.

Il 12 novembre, a Ji-Paraná, veniva arrestata anche l’avvocato Lenir Correia, membro dell’ABRAPO (gli “avvocati del popolo”), da tempo in prima linea nella difesa dei contadini diseredati.

Appare evidente che anche con la presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva (in ogni caso assolutamente non paragonabile a quella di Bolsonaro) le contraddizioni emergono prepotentemente.

Come l’11 novembre quando decine di indigeni (respinti dalle forze dell’ordine) avevano tentato di superare le barriere alla “zona blu” (quella dei dibattiti) della COP30 a Belem. Denunciando l’incremento della deforestazione e le trivellazioni.

Alle proteste il governo aveva risposto positivamente annunciando il riconoscimento come proprietà indigena di altri dieci territori ancestrali in diverse aree del paese. Un procedimento tecnicamente noto come “demarcazione” che dovrebbe garantire agli indigeni il diritto di consentire o meno attività di sfruttamento minerario o agricolo del territorio (ben sapendo che in genere tali attività vengono proibite dai nativi). D’accordo, siamo al minimo sindacale, ma comunque sempre meglio che all’epoca di Jair Bolsonaro. Se infatti con Lula sono già stati riconosciuti una ventina di territori indigeni, con il governo precedente nemmeno uno.

E anche per la ministra dei Popoli indigeni del Brasile Sonia Guajajara “il riconoscimento dei diritti territoriali deve essere uno degli obiettivi principali della COP30”.

Un’ultima considerazione poi sui recenti massacri di fine ottobre, quando il Battaglione delle operazioni speciali di polizia (2500 uomini del BOPE) ha causato la morte di circa 150 persone (in maggioranza pretos e pardos) nelle favelas dei quartiere Alemão e Penha di Rio de Janeiro. Un’operazione organizzata, senza autorizzazione del governo federale, dal governatore di Rio Claudio Castro (di estrema destra, vicino a Bolsonaro) che ufficialmente era di contrasto al narcotraffico, ma con evidenti riflessi propagandistici e anche elettoralistici.

O forse, come suggeriva qualche osservatore, un preludio, un esperimento di “strategia della tensione” in salsa brasiliana. Per screditare il governo di Lula e creare un clima favorevole al ritorno di Bolsonaro & C.

Vedi anche, si parva licet, i dubbi sull’origine dell’incendio del 20 novembre in un padiglione all’interno della sede dei negoziati sul clima delle Nazioni Unite alla COP30.

Gianni Sartori

#Kurds #Iraq – ANCORA UNA MANO TESA DELL’EX PKK AL REGIME TURCO (NELLA SPERANZA DI UNA DEFINITIVA SOLUZIONE POLITICA DEL CONFLITTO – di Gianni Sartori

Il 17 novembre l’ormai ex Partîya Karkerén Kurdîstan (PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha confermato di aver completato nel giorno precedente il ritiro dei combattenti da alcune zone frontaliere del nord dell’Iraq (regione di Zap).

Una misura che si inserisce nella nuova strategia per “contribuire alla pace e alla democratizzazione in Turchia”. In questi ultimi otto mesi l’ex PKK ha compiuto vari gesti di pacificazione e riconciliazione: dal cessate il fuoco unilaterale del marzo 2025 all’auto-dissoluzione  in maggio, fino alla cerimonia di distruzione delle armi in luglio.

Per continuare con l’evacuazione dei guerriglieri dalla Turchia in ottobre.

Anche se, va detto, con risposte per ora insoddisfacenti dalla controparte turca.

Nella regione di Zap, pesantemente colpita fin dal 2008 dalle operazioni militari di Ankara e dai bombardamenti, esistevano alcune basi storiche (di valore anche simbolico) della guerriglia curda. Qui si era insediato il suo primo quartier generale prima del trasferimento a est, sui monti Qandil.

Sempre in Iraq, il 19 novembre alcuni esponenti dell’amministrazione arabo-curda del Rojava hanno partecipato al Forum sulla Pace e sulla Sicurezza nel Medio-Oriente (MEPS) in corso presso l’Università americana di Duhoki (Kurdistan del Sud, in territorio iracheno).

Si tratta di Mazloum Abdi (comandante in capo delle Forze Democratiche Siriane) e di Ilham Ahmed (copresidente del dipartimento delle relazioni estere dell’Amministrazione autonoma del Nord e dell’est della Siria).

Al Forum (siamo alla quinta conferenza annuale organizzata dall’Università americana del Kurdistan) partecipano numerosi esponenti politici, universitari, ricercatori e scrittori statunitensi, europei e medio-orientali.

Gianni Sartori

#Matinik #StopColonialism – IL RILASCIO DEI MILITANTI ACCUSATI DI AVER ABBATTUTO ALCUNE STATUE IN MARTINICA NEL 2020 – di Gianni Sartori

elaborazione su immagine @ Mélissa Grutus

Matinik (Martinique, Martinica): il 17 novembre sono stati rilasciati undici giovani militanti (sei uomini e cinque donne), accusati di aver danneggiato (“déchoukées”, letteralmente “sbullonate”) alcune statue il 22 maggio 2020 (giornata dell’abolizione della schiavitù) e poi il 26 luglio. Due di Victor Schœlcher (colonizzatore del XVII° sec., fondatore delle prime colonie nelle Antille), una – già decapitata nel 1991 – di Joséphine Beauharnais (associata al ripristino della schiavitù da parte del marito, Napoleone, nel 1802) e un’altra di Pierre Belain d’Esnambuc, rivendicando il loro gesto come “un atto legittimo di anticolonialismo”. 

Nel maggio 2022 l’isola (dipartimento d’oltre mare francese) era stata letteralmente rastrellata per identificare e interrogare una decina di sospetti. Ammanettati e arrestati in attesa del processo che si è svolto in questi giorni nella capitale Fort-de-France.

Mentre risultano assolti quelli accusati di aver danneggiato le statue di Pierre Belain d’Esnambuc e di Joséphine de Beauharnais, sono stati ritenuti colpevoli ( ma comunque non condannati, anche il pubblico ministero aveva riconosciuto il “valore simbolico del gesto” ) coloro che avevano colpito le statue di Victor Schoelcher.

Forse perché in realtà Schoelcher non era un volgare colonizzatore, ma un addirittura un abolizionista. Messo comunque in discussione da una parte dei militanti in quanto la sua immagine paternalistica di “sauveur blanc” offuscherebbe, renderebbe “invisibile” la resistenza degli schiavi stessi.

Il processo è stata seguito da un folto pubblico (composto da insegnanti, artisti, esponenti del mondo culturale… ), la maggior parte a sostegno degli imputati (numerosi gli applausi). In quanto “è la storia stessa della Martinica, con i suoi simboli e le sue ferite, a venir portata in tribunale”.

Ossia, come ha commentato un altro militante: “Quello che stanno giudicando non è tanto la questione delle statue, ma il modo in cui si vuole raccontare la storia della Martinica”.

Aggiungendo che “da Bristol alla Guadalupa, dal Mississippi alla Martinica, i popoli si riappropriano della loro storia. Distruggere una statua significa aprire uno spazio per il dibattito”.

All’epoca i video delle spettacolari azioni dirette denominate “déchoukaj” (un termine creolo originario di Haiti per indicare la vendetta contro gli oppressori, i colonizzatori) avevano avuto vasta diffusione. 

All’esterno del tribunale, nella vicina place Bertin, venivano intanto lette poesie e opere di artisti locali. Inalberando striscioni come “Giudicare la gioventù significa condannare la memoria vivente”.

Appare evidente che anche a ormai quasi venti anni dalle rivolte del 2009, la popolazione della Martinica (Matinik in creolo) non ha smesso di interrogarsi su quale sia il suo posto nella storia francese. 

Gianni Sartori

#IncontriSulWeb – UN VIAGGIO IN ROMAGNA – venerdì 21 novembre – ore 18

Abbiamo incontrato Carla Fabbri che ricopre la carica di Presidente dell’Istituto Friedrich Schürr, un’associazione con alle spalle quasi tre decenni di attività, che opera per la promozione dell’utilizzo del Romagnolo e per la conservazione della cultura tradizionale, attraverso pubblicazioni, interventi sul territorio e attività on-line.
In contemporanea sui nostri canali social e sul nostro Blog.

“TRA PRESTIGIO E DIMENTICANZA – LE LINGUE DELL’ITALIA SETTENTRIONALE VISTE DAI GIOVANI” – di Gerard Janssen Bigas

Pubblichiamo la tesi di laurea redatta da Gerard Janssen Bigas, un giovane catalano, che abbiamo intervistato in una puntata di #IncontriSulWeb. E’ stata preparata durante un soggiorno a Milano per un Erasmus e presentata all’Università Pompeu Fabra di Barcelona, l’ateneo frequentato da Gerard. E’ scaricabile gratuitamente da questa pagina. Complimenti per il lavoro al nostro giovane amico e buona lettura a tutti.

#MedioOriente #Opinioni – MILIZIE TRIBALI A GAZA E IN SIRIA: OGGETTO DI STRUMENTALIZZAZIONE, NUOVI ASCARI O CHE ALTRO? – di Gianni Sartori

Dopo aver dovuto assistere – esterrefatti e impotenti – alla strumentalizzazione delle lotte per l’autodeterminazione (v. “l’indipendentismo a geometria variabile”, usa e getta), pare vada profilandosi una strumentalizzazione anche delle realtà tribali. Manipolate e foraggiate per mantenere lo stato di cose presente fondato su sfruttamento e dominio.

Recentemente si era parlato della possibilità di “dare potere alle strutture classiche di Gaza” (ossia i clan tribali) in alternativa alla gestione della sicurezza temporaneamente affidata ad Hamas dagli USA (il 13 ottobre).

Una via d’uscita realistica o direttamente dalla padella alla brace?

A Gaza i clan costituirebbero circa il 70% dei 2,3 milioni di residenti (dati approssimativi, forse “gonfiati”) con oltre 600 mukhtar (capi di villaggio, esponenti del comando tribale) in rappresentanza di sei confederazioni beduine.

Da segnalare (nella generale situazione di vuoto amministrativo e politico) che sempre al 13 ottobre risaliva l’offerta di amnistia da parte di Hamas (?!?) per i membri delle bande tribali che si fossero arruolati nelle sue forze di sicurezza. Le cose andavano complicandosi ulteriormente con gli scontri tra le milizie di Hamas e alcuni gruppi – definiti “indipendenti” – nei quartieri di Sabra e Shuja’iyya.

L’alternativa, per alcuni osservatori statunitensi, sarebbe quella di affidare la sicurezza alle realtà tribali. In tal senso aveva agito Israele fin dall’inizio del 2024 proponendo di svolgere tale compito a una dozzina di clan ritenuti “più affidabili”. Raccogliendo però il rifiuto di una decina di questi (non certo per “simpatia” nei confronti di Hamas, ma presumibilmente per opportunità, per non ritrovarsi poi “con il cerino in mano” se Israele li avesse scaricati).

Alla proposta israeliana avevano invece aderito le soidisant Forze Popolari di Yasser Abu Shabab (costituite da circa 400 miliziani).

Sul loro operato i pareri sono quantomeno controversi. Se per alcuni avrebbero “assicurato con successo corridoi umanitari per sei mesi consecutivi” (v. i convogli del discusso World Food Programme), per altri si sarebbero appropriati degli aiuti a spese degli sfollati.

Tra le altre realtà tribali che avevano accettato di collaborare, spiccava una fino ad allora sconosciuta “Forza d’Attacco Antiterrorismo” di Hossam al-Astal. In collaborazione con le milizie del clan al-Mujaida avrebbe (condizionale sempre d’obbligo data la “fluidità” della situazione) respinto le operazioni di Hamas in varie occasioni (fondamentale comunque il supporto aereo israeliano).

Dando comunque per scontato che alcuni clan (gli addetti ai lavori citano il clan Tayaha nelle zone orientali e il clan Barbakh) siano ancora in grado di esercitare una forma – magari parziale – di controllo sull’economia grazie una rete di attività agricole e commerciali in parte transfrontaliere (tra Gaza, Egitto e Giordania).

Del resto la stessa Hamas (tra il 2007 e il 2011 attraverso l’Amministrazione Generale per gli Affari dei Clan) aveva integrato tali strutture tradizionali coinvolgendo centinaia di mukhtar e istituendo una quarantina di “comitati di riconciliazione”.

Inoltre – nonostante le numerose perdite a causa dei bombardamenti israeliani – alcune famiglie di Gaza (gli Abd al-Shafi, i Rayyes…) avrebbero ancora al proprio interno numerosi professionisti (medici, insegnanti, avvocati, ingegneri…) in grado di svolgere funzioni tecniche indispensabili per la ricostruzione.

Esiste tuttavia il fondato sospetto che questo percorso( in parte ricalcato sulla fallimentare esperienza delle Leghe di Villaggio negli anni ’80, promossa da Israele per contrastare l’Intifada) finisca per alimentare l’ulteriore frammentazione-disgregazione della residua società civile di Gaza. Con la nascita di “feudi” controllati dalle milizie di questi minuscoli “signori della guerra”. Supervisionati dall’esercito israeliano che fornirebbe armamenti, veicoli, intelligence…oltre a garantire adeguati stipendi.

In ogni caso, al di là dei futuri sviluppi, appare evidente come anche in Palestina le realtà tribali vengano utilizzate, strumentalizzate per le finalità geopolitiche degli Stati (in gran parte estranee ai loro reali interessi).

E qualcosa del genere (utilizzo dei medesimi protocolli?) potrebbe essere già operativo in Siria.

Se a Gaza era lecito sospettare un intervento del Mossad, in Siria pare accertato che il MIT (l’intelligence turca) e le HTS (Hayat Tahrir al-Sham) stiano organizzando varie milizie sotto l’inedita denominazione di “esercito tribale”. Non sarebbero altro che residuati bellici delle  bande integraliste legate all’Isis. Sempre in prima linea nell’attaccare le forze arabo-curde (FDS) a Deir ez-Zor, Raqqa e Tapka (nord e est della Siria). Ne farebbero parte anche alcune “cellule (finora) dormienti”, ridestate e in un certo senso “istituzionalizzate”. Ancora in luglio (v. sito lekolin.org) si parlava di una “Brigata di Liberazione di Cizîrê”, legata alla tribù El Eşraf (ma infiltrata da capi di bande integraliste), frutto degli incontri a Damasco tra MIT e intelligence di HTS.

Per cui è possibile che sotto la “maschera tribale” si nasconda la pura e semplice riesumazione dello Stato islamico di antica memoria.

Allo scopo di seminare morte, distruzione e instabilità nei territori in parte ancora autogovernati del nord e dell’est della Siria.

Utilizzando sia i sabotaggi che gli omicidi mirati di esponenti dell’Amministrazione autonoma e delle FDS.

Così come – con lo stesso obiettivo – la Turchia mantiene da tempo le milizie dell’Esercito Siriano Libero nelle zone rurali di Aleppo e di Hesekê. Per alimentare le divisione settarie tra arabi e curdi e per guastare le conquiste del Rojava.

Risale al 10 ottobre l’apparizione un nuovo gruppo tribale autodenominato “Vulcano dell’Eufrate” (forse una creatura del MIT) di cui fanno parte anche ex (ex ?) membri dell’Isis. Si è fatto conoscere per aver incendiato la sede di un gruppo di donne (Zenobiya) nella città diAbu Hamam, à Deir ez-Zor.

Fermo restando che l’analogia (se esiste) riguarda l’utilizzo strumentale delle comunità tribali da parte di chi detiene potere e armamenti. Qui non si vuole assolutamente stabilire parallelismi tra la situazione di Gaza (dove opera una frazione dell’integralismo islamico come Hamas) e il Rojava (con quanto rimane dell’utopia “dal basso” del Confederalismo democratico).

Sempre sulla articolata questione curda, un’ultima ora dell’agenzia Reuters apre qualche inaspettato spiraglio.

Il governo turco starebbe preparando una legge speciale (l’approvazione è prevista verso la fine di novembre, dopo essere stata sottoposta al Parlamento) per consentire il rientro di migliaia di militanti curdi (ex PKK) attualmente rifugiati nel nord dell’Iraq.

Un passaggio ritenuto indispensabile per il processo di pace.

Non è però chiaro quanto il testo legislativo, elaborato dal partito di Erdogan (Adalet ve Kalkınma Partisi -AKP), consentirà – e in quale misura – di sospendere le inchieste e i procedimenti giudiziari nei confronti dei combattenti che depongono le armi.

Per cominciare, dovrebbe rientrare in Turchia un primo scaglione di circa mille militanti che non hanno preso parte direttamente al conflitto armato. Di seguito altri ottomila (sempre esponenti “civili”, non guerriglieri). Sarebbe inoltre prevista la possibilità per un migliaio di comandanti dell’ex PKK “di alto grado” di raggiungere paesi terzi.

Un portavoce del partito DEM (Tayyip Temel) aveva confermato la  notizia precisando che “stiamo lavorando all’elaborazione di una legge speciale per il PKK allo scopo di garantire la reintegrazione dei suoi membri nella vita sociale democratica dopo la dissoluzione”.

Per una soluzione politica “globale” del conflitto che dovrebbe riguardare “sia i civili che i membri delle milizie armate”.

Ma, par di capire, senza che ciò implichi per ora un’amnistia generale. Quella che consentirebbe a migliaia di prigionieri politici (curdi e non) di tornare nelle proprie case. Si prevede piuttosto l’utilizzo di procedure diverse, differenziate, sia nei confronti dei militanti curdi che rientreranno in Turchia (senza quindi escludere procedimenti giudiziari), sia dei detenuti.

Staremo a vedere

Gianni Sartori