SI SCRIVE MITENI, SI LEGGE RIMAR – (di Gianni Sartori)

Pubblichiamo questo articolo di Gianni Sartori su una “ormai storica” vicenda di inquinamento del territorio, in questo caso veneto. Un problema che ha colpito e colpisce anche la Lombardia, spesso poco attenta a questi aspetti. Per noi Indipendenza significa anche amore per la propria Terra, nella speranza di consegnare un futuro migliore ai nostri figli.

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SI SCRIVE MITENI, SI LEGGE RIMAR

(Gianni Sartori)

 

Avvertenza: questo non è, assolutamente, un articolo di informazione sull’inquinamento da PFASS che sta impregnando le acque e i corpi del Veneto. Soltanto un necrologio, un amaro amarcord condito di qualche considerazione su come funziona il capitalismo, quello del nord-est in particolare. Per gli aspetti tecnici potete attingere alle puntuali denunce pubblicate da qualche anno a questa parte su Quaderni Vicentini.  In tempi non sospetti, quando invece un noto quotidiano locale ignorava o minimizzava la grave situazione che si andava delineando.

Non è nemmeno un invito a intervenire per rimediare. Da tempo ho la convinzione che cercare di fermare il degrado ambientale sia quasi impossibile. Nel Veneto senza “quasi”. Qui la catastrofe è ormai completa, per quanto subdola e inavvertita. Il territorio veneto e ancor più quello vicentino (un’autentica “poltiglia urbana diffusa” da manuale) hanno raggiunto livelli di contaminazione e cementificazione tali che soltanto un’apocalisse di ampia portata potrebbe, forse, porvi rimedio. Ripristinando in parte quell’ordine naturale che oggi come oggi appare irrimediabilmente stravolto.

Prendiamo atto comunque che se  pur molto  tardivamente, la questione PFASS ha assunto rilevanza non solo locale ma anche regionale (vedi la richiesta di analizzare l’acqua “potabile” nelle scuole in provincia di Rovigo). Ma per quanto riguarda la “sfilata degli ipocriti” (i sindaci vicentini che hanno manifestato a Lonigo contro l’inquinamento da PFASS) direi che si commenta da sola. Dov’erano le istituzioni in tutti questi decenni (almeno 4, dagli anni settanta) mentre la RIMAR prima e la MITENI (cambia il nome, ma l’azienda fisicamente è sempre la stessa) poi versavano schifezze direttamente nelle nostre acque e indirettamente nel nostro sangue?

Solo una facile “profezia”. E’ probabile che tra una decina d’anni altri sindaci sfileranno nel Basso Vicentino (magari, azzardo, in quel di Albettone, uno dei tratti più riempiti da scarti di fonderia e altre schifezze) per esprimere una tardiva e altrettanto ipocrita indignazione per l’inquinamento prodotto dai rifiuti tossici (metalli pesanti) ammucchiati a tonnellate sotto la A31.

Non dovendo preoccuparmi di fornire numeri e dati sull’inquinamento prodotto dalla exRimar, ora Miteni (ampiamente disponibili in rete), attingo a qualche  ricordo personale*riesumando speranze e delusioni di quando, ormai 40 anni fa, forse si sarebbe ancora potuto arginare la marea tossica non più strisciante, ma ora dilagante.

Un accenno soltanto all’apprezzabile richiesta (per quanto simbolica e fuori tempo massimo, a mio  avviso) avanzata da qualche oppositore di “parametri certi sulla soglia di inquinanti presenti nelle acque con cui si abbeverano gli animali e si irrigano i campi, così come è doveroso da parte del Governo dare una risposta immediata per fare fronte alla crisi che per ovvie ragioni rischia di precipitare su chi lavora di agricoltura, soprattutto considerando il fatto che l’inquinamento da Pfass ha contaminato anche la catena alimentare, come risulta da una serie di prime analisi effettuate dall’Istituto Superiore di Sanità in alcune zone del Veneto. Sia sul siero umano che su alcuni alimenti come uova e pesci emerge infatti la presenza di contaminazione, come abbiamo sottolineato in una risoluzione indirizzata al Governo a dicembre.”

Una presa di posizione modesta, scontata, ma sempre meglio che niente.

D’altra parte: l’avete voluto il capitalismo? E allora godetevelo, cazzo!

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Metà anni settanta. Qualche anno prima avevo (coerentemente o sconsideratamente…non l’ho ancora capito) rinunciato al posto statale da insegnante elementare, pur avendo vinto il concorso. La scelta (comunque sofferta per un giovane proletario figlio di proletari, con scarse alternative) veniva dopo aver scoperto che l’assunzione comportava un giuramento (allo Stato delle stragi? Mai!). Ero quindi tornato allo scaricamento e stivaggio di camion alla Domenichelli, in notturna, alternando con saltuari lavori da operaio (tra le altre, la Veneta-Piombo di Alte-Ceccato: tutta salute!).

Finendo poi inchiodato per qualche anno alla fresa, nel “retrobottega” di una microazienda artigiana con orari prolungati.

Fu durante un breve periodo di transizione di circa 20 giorni (transitavo da operaio in una microazienda a commesso in una libreria) che tornai a scaricare con una delle due o tre famigerate “cooperative” **di facchinaggio esistenti in città. Questo mi consentiva, paradossalmente, di staccare dal lavoro in orari decenti (tra le cinque e le sei di sera), mentre prima in genere finivo verso le 19,30-20. Una possibilità per frequentare Radio Vicenza, all’epoca gestita da amici e compagni di area libertaria, in particolare Rino Refosco e Rosy. Doveva essere la fine del 1976 , mi pare. Lo deduco dal fatto che quasi ogni sera qualcuno dedicava una canzone (in particolare “Ma chi ha detto che non c’è?” di Manfredi) al compagno Claudio Muraro da poco arrestato (nel 1976) e ancora detenuto a Vicenza, prima di finire nel “circuito dei camosci” delle carceri speciali (a Pianosa, mi pare).

Dalla radio veniva denunciata con ostinazione la recente scoperta che la RIMAR (“Ricerche-Marzotto”) scaricava fetide sostanze nelle acque correnti dell’Alto Vicentino. In particolare quelle della Poscola, un nome a cui ero sentimentalmente legato. Nasceva infatti dall’omonima grotta situata a Priabona, un “aperitivo” prima del Buso della Rana.

Denuncia dopo denuncia, non mancarono velati consigli di “lasciar perdere, non mettersi contro qualcuno troppo grande per voi…”. Se non vere  e proprie minacce, quasi.

Tutto qui, per quanto mi riguarda. Tornai quindi ai miei soliti orari e le mie frequentazioni calarono sensibilmente (o forse per scazzi personali e comunque “avevo altro da fare”).

E pensare che in anni non sospetti avevo avuto anche modo di visitarla, la RIMAR intendo. Doveva essere verso la fine del 1967 o l’inizio del 1968, sicuramente prima del 19 aprile e della storica rivolta operaia (a cui, casualmente, mi capitò di assistere, ma ve lo racconto un’altra volta, magari per il 50°) con abbattimento della statua del feudatario locale.

Mi capitava allora di andare qualche pomeriggio a Valdagno in autostop per frequentare la piscina comunale aperta in periodo invernale. Un tardo pomeriggio stavo giusto rientrando a Vicenza quando un macchinone si fermò in risposta al mio pollice levato. Salgo e il signore dopo un po’ si presenta. Era uno dei fratelli Marzotto, nientemeno. Evidentemente metteva in pratica i principi paternalistici su cui si fondava la dinastia.

Il clima doveva già aver cominciato a surriscaldarsi (quello sociale, non si parlava ancora dei cambiamenti climatici) perché il borghese che gentilmente si prestava a farmi da autista commentò alcuni recenti episodi di contestazione al consumismo sostenendo (vado a memoria, sono passati 50 anni) che per la “felicità” della gente era indispensabile che tutti potessero godere di auto, frigoriferi e lavatrici. Poi, caso mai, si poteva pensare…non ricordo a cosa, sinceramente.

Dato che non dovevo sembrare molto convinto di questo elogio della merce, mi propose una visita alla sua fabbrica d’avanguardia che sorgeva lungo il percorso. Fu così che mi affidò a un tecnico per una visita guidata della RIMAR. Poco convinto il tecnico, poco convinto anch’io che temevo di non trovare un altro passaggio prima di notte, la visita fu alquanto frettolosa e mi rimase soltanto la sensazione di un leggero bruciore alle mucose respiratorie. Per chi non è del posto, segnalo che la già denominata Rimar oggi si chiama Miteni, dopo aver cambiato due-tre volte nome, consiglio di amministrazione e in parte proprietà.

Tutto qui.Ricordo solo che un’altra volta presi un passaggio dall’altro Marzotto, il fratello in politica nel PLI. Evidentemente ci tenevano a mostrarsi generosi con le masse popolari appiedate.

Ma dopo il 19 aprile le cose cambiarono, evidentemente e non mi capitò più l’onore di un autista chiamato Marzotto. In compenso, nel febbraio 1969 (all’epoca dell’occupazione della fabbrica) tornai a Vicenza con la grandissima compagna, partigiana e giornalista dell’Unità, Tina Merlin (ma questa è un’altra storia).

Gianni Sartori

* nota 1: “Preserva i tuoi ricordi, è tutto quello che ti resta” P. Simon (cito a memoria)

** nota 2 : “famigerate” perché, come scoprii a mie spese, oltre a praticare una forma mascherata di caporalato, non versavano mai alcun contributo, nonostante richiedessero la consegna del libretto di lavoro. Perché? In caso di incidente potevano sempre dire di averti assunto proprio quel giorno e di non aver ancora compilato le “carte”. 

Una nota polemica anche per alcuni “compagni”. Ricordo benissimo che per gli amici di Potere Operaio la mia scelta era stata classificata da “lumpenproletariat”. Detto da loro, di estrazione medio e piccolo-borghese pareva un complimento. Questo nella prima metà degli anni settanta. Dopo, nella seconda metà dei settanta, quando erano già diventati quelli di AutOp, le cose cambiarono con la scoperta dell’”operaio sociale”. Addirittura a Scienze Politiche di Padova si organizzarono corsi e seminari sulle cooperative di facchinaggio. Ma non ne ricordo uno che fosse uno di costoro (devo far nomi?) che sia venuto una sola volta a scaricare camion. Avevo invece condiviso spesso tali attività ricreative con il già citato compagno anarchico Claudio Muraro (fratello della filosofa Luisa Muraro, quella dell’Erba Voglio e della Signora del gioco) sia alla Domenichelli che alla Olimpico-traslochi.

MEMORIA STORICA – INTERVISTA con JOHN TRAINOR dell’Ufficio Affari Internazionale del SINN FEIN – di Gianni Sartori (febbraio 1997)

UNO DEGLI EFFETTI PIU’ EVIDENTI DELLA BREXIT, E’ SICURAMENTE LA SPINTA POSITIVA NEI CONFRONTI DEI PROCESSI DI AUTODETERMINAZIONE SUL TERRITORIO BRITANNICO.  SUL TERRITORIO IRLANDESE E’ RIPARTITO IL DIBATTITO POLITICO IN MERITO ALLA RIUNIFICAZIONE. INTENDIAMO CONTRIBUIRE A TALE DIBATTITO RIPORTANDO COMMENTI E INTERVISTE CHE, ANCHE SE APPARTENGONO AL PASSATO, SERVONO PER MEGLIO COMPRENDERE LA QUESTIONE IRLANDESE .

NdR. John Trainor fu definito anche “the intelligence officer of the IRA’s Belfast brigade”.

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INTERVISTA con  JOHN TRAINOR dell’Ufficio Affari Internazionale del SINN FEIN

Gianni Sartori    (febbraio 1997)

In attesa delle prossime elezioni politiche nel Regno Unito, il processo di pace nell’Irlanda del Nord si è arrestato (anche se solo momentaneamente, si presume).

Nessun progresso sostanziale nei colloqui di Londra. Da parte sua, l’IRA nel febbraio 1996 aveva interrotto la  tregua dichiarata nel 1994.

Ne abbiamo parlato con John Trainor dell’Ufficio Affari Internazionali del Sinn Fein.

D. Perché l’IRA ha sospeso la tregua e ripreso la lotta armata?

Trainor: Per tanti motivi. Innanzitutto perché i britannici hanno mostrato chiaramente di non volersene andare. Hanno frustrato sistematicamente gli sforzi del Sinn Fein e anche quelli del Social Democratic and Labour Party (Sdlp) e del governo di Dublino.

D. A proposito, un vostro giudizio sul ruolo del governo irlandese in questa fase di colloqui e trattative…

Trainor: Il governo di Dublino aveva contatti diretti con quello di Londra e questa era una precisa garanzia per la nostra comunità; significava avere uno spazio, un ruolo come Irlandesi per spingere avanti ulteriormente il processo di pace.

D. Durante la tregua la situazione della comunità cattolica nelle Sei contee era migliorata o peggiorata?

Trainor: Il popolo irlandese non ha mai realmente sperimentato la pace. L’esercito britannico stava sempre nelle strade, le discriminazioni e la legislazione d’emergenza erano ancora in vigore. Rastrellamenti e perquisizioni continuavano come prima e i prigionieri repubblicani sono rimasti nelle carceri.

Inoltre la comunità cattolica ha dovuto subire le parate orangiste grazie al coprifuoco imposto dalla polizia. I cattolici hanno continuato ad essere cittadini di serie B nel loro stesso Paese.  E tutto questo mentre i media parlavano di “risoluzione del conflitto”.

D. In questi giorni si parla molto della situazione in Euskal Herria; dall’arresto di molti esponenti di Herri Batasuna alla recrudescenza delle azioni armate di Eta. Come giudica il Sinn Fein la questione basca?

Trainor:  Per il Sinn Fein la Nazione basca ha sicuramente diritto all’autodeterminazione. I nostri rapporti sia con il Popolo basco che con Herri Batasuna sono di vecchia data e noi appoggiamo  la loro lotta di liberazione. Pensiamo che il governo spagnolo dovrebbe aprire quanto prima dei negoziati per risolvere politicamente il “problema basco”. E ci sentiamo particolarmente solidali con i prigionieri politici baschi.

D. Mi dicevi che attualmente quelli che stanno peggio non sono i detenuti repubblicani nei famigerati “Blocchi H” (dove nel 1981 morirono in sciopero della fame dieci militanti dell’Ira e dell’Inla), ma quelli in Gran Bretagna…

Trainor: I nostri prigionieri in Gran Bretagna sono incarcerati nelle Ssu (Special Secure Units), sottoposti per 23 ore al giorno alla luce artificiale, in condizioni di vera e propria deprivazione. Di notte vengono svegliati continuamente dai secondini. Proprio durante la tregua è stato deciso di introdurre “visite chiuse” inserendo vetri divisori tra i prigionieri e i loro familiari. Inoltre i secondini controllavano se fra loro parlavano in gaelico e in questo caso la visita veniva interrotta. La situazione è degenerata al punto che i prigionieri hanno rifiutato le visite in queste condizioni e ormai non vedono i loro familiari da più di due anni.

D. A suo tempo la proposta di una tregua sembrò cogliere impreparati sia il governo inglese che gli organi di informazione. Un ulteriore segnale di quanto poco si conosca del conflitto nordirlandese. Puoi aiutarci a chiarire alcuni aspetti di questa complessa situazione, anche attraverso la ricostruzione degli ultimi avvenimenti?

Trainor:  Dell’eventualità di una tregua per la pace il Sinn Fein cominciò a parlare alla fine degli anni ottanta. Con il cessate il fuoco dell’estate 1994 l’Ira ha dato prova di serietà nella ricerca di una pace giusta.

Invece Londra ha cominciato a mettere ostacoli al Sinn Fein, ci ha impedito di prendere parte ai negoziati e ha scelto di sprecare questa opportunità eccezionale. Noi pensavamo a negoziati senza condizioni, ma intanto il governo britannico decideva di colpire i nostri prigionieri nelle carceri inglesi. Tuttavia nonostante queste provocazioni i prigionieri repubblicani hanno continuato ad appoggiare il progetto di pace del Sinn Fein. Allora il governo britannico ha rivolto la sua strategia direttamente contro il nostro partito, imponendo al Sinn Fein “tre mesi di decontaminazione” prima dei colloqui. Visto poi che anche il governo di Dublino continuava a lavorare per cercare una soluzione equa, Londra ha imposto come nuova condizione il disarmo dell’Ira, altrimenti si sarebbero rifiutati di parlare con i Repubblicani. Il governo britannico cercava così di ottenere quello che non gli era mai riuscito in 27 anni: la resa dell’Ira. In pratica chiedeva al Sinn Fein di far arrendere l’Ira. A quel punto si è avuto il collasso del processo di pace.

D. Perché l’Ira non ha voluto consegnare le armi?

Trainor: In tutti i processi di pace che comportino la soluzione del conflitto non ci sono vinti e vincitori. Pensiamo a cosa è accaduto recentemente in Sud Africa, in alcuni paesi dell’America Latina (Salvador, Guatemala), in Palestina…Il governo britannico chiedeva all’Ira una resa senza averla mai sconfitta militarmente. In questa situazione, nel 1996, l’Ira ha ritenuto di dover riprendere la lotta armata. E questa è l’attuale situazione prima del voto.

D. Vi aspettate qualche cambiamento da un’eventuale vittoria dei laburisti alle prossime elezioni?

Trainor:  Non ci sono prove che un eventuale governo laburista avrebbe una politica diversa per l’Irlanda rispetto ai Conservatori. Storicamente i governi laburisti hanno introdotto le leggi d’emergenza e riportato l’esercito in Irlanda. L’essenza della politica britannica è che nessuno dei partiti ha mai una maggioranza assoluta per cui, alla fine, ogni governo inglese dipende dai voti dei deputati unionisti. Questo riduce di molto la loro libertà di manovra.

(Gianni Sartori – febbraio 1997)

***Nota del settembre 1997, successiva di qualche mese all’intervista.

In realtà, nonostante l’evidente pessimismo di Trainor, nel corso dell’anno le cose subirono un’ulteriore evoluzione verso l’auspicabile soluzione politica del conflitto.

Il 19 luglio 1997 l’Ira decretò una nuova tregua. Il mese prima, maggio 1997, i laburisti erano tornati al governo (dopo diciotto anni di potere ai conservatori) dimostrando una maggiore disponibilità al confronto. A questo si deve aggiungere che appariva evidente l’aumento di consensi elettorali del Sinn Fein (due deputati eletti al Parlamento britannico, uno  quello irlandese) che conquistava il 42% dell’elettorato cattolico in Irlanda del Nord.

Nella Repubblica il nuovo governo del Fianna Fail di Bertie Ahern appariva più disponibile del precedente di John Bruton. In questa situazione anche gli Unionisti non poterono fare a meno di sedersi al tavolo dei negoziati, iniziati il 15 settembre 1997.

CON AMORE E ONORE, LA LOTTA DEI PRIGIONIERI CURDI CONTINUA – di Gianni Sartori

CON AMORE E ONORE, LA LOTTA DEI PRIGIONIERI CURDI CONTINUA

 (Gianni Sartori)

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Quello che parte della sinistra curda ha definito “il golpe di Erdoğan” rischia ormai di oscurare perfino il golpe “storico”, militare, del 12 settembre 1980. Appare infatti evidente che in Turchia si è insediato un regime fondato sulla repressione e sull’uso dispotico della violenza di Stato. Paradossalmente, chi sostiene che “dopo questo referendum sulle modifiche costituzionali la Turchia potrebbe trasformarsi in una dittatura” pecca forse di ottimismo. Lo Stato turco non può diventare una una dittatura perché in realtà lo sarebbe da tempo.

Il ruolo dei parlamentari è ormai ridotto a quello di “belle statuine”. I media liberi sono vietati e rimangono in attività soltanto quelli allineati e omologati. Migliaia di giovani, arbitrariamente qualificati come “terroristi“, vengono perseguitati, assassinati, segregati nelle carceri. Dopo che per molti esponenti del HDP si sono aperte (ma solo in entrata) le porte del carcere, i partiti  ancora non criminalizzati dell’opposizione (come il CHP) non sembrano all’altezza del compito che dovrebbero svolgere .

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Nel frattempo in 27 carceri della Turchia oltre 200 prigioniere e prigionieri politici sono in sciopero della fame. Alcuni già da due mesi. Chiedono la revoca del coprifuoco a causa del quale circa mezzo milione di persone in Turchia sono state forzatamente espulse. Chiedono la revoca delle condizioni di isolamento in cui a Imrali versa Abdullah Öcalan.  Chiedono la fine degli arresti di massa, della tortura, dell’isolamento in carcere. Chiedono la sospensione dello stato di emergenza (OHAL).

Come dopo il 1980, anche stavolta sono state le madri dei prigionieri a esprimere concretamente sostegno e solidarietà per chi sta in carcere. E ora molte di loro sono in sciopero della fame: a İzmir, Amed, Van e İstanbul. Anche in Iran 6 prigionieri politici rinchiusi a Urmiye e Tebriz, hanno dichiarato di entrare in sciopero della fame per solidarietà. Kimberly Taylor, una giovane internazionalista che si è unita alle YPJ parteciperà allo sciopero per una settimana. Il 13 aprile a Strasburgo è iniziato uno sciopero della fame di solidarietà a cui partecipano 50 rappresentanti di diverse organizzazioni, giornalisti, artisti e accademici. In sciopero della fame anche deputati dell’HDP come Faysal Sarıyıldız e Tuğba Hezer.

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Per squarciare il velo dell’ipocrisia, per rompere il silenzio e, almeno simbolicamente “rompere i muri”, a Milano e Torino scioperano congiuntamente esponenti curdi, militanti anarchici (FAI) e del sindacalismo di base (CUB).

Durante uno sciopero della fame Ayşe Irmak aveva dichiarato: “Veniamo arrestati perché andiamo ai funerali. Andiamo ai funerali e al ritorno in carcere. Vogliamo una vita senza carcere e morti“.

 

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Nel loro ultimo comunicato prigioniere e prigionieri in sciopero della fame si rivolgevano all’opinione pubblica internazionale con queste parole:

 “Il nemico sta applicando il regime di Imrali in tutte le carceri, tutti devono sapere che il principale scopo delle nostre attività è di eliminare il regime di Imrali, non abbiamo lanciato queste attività per mettere fine all’esperienza che stiamo vivendo, la nostra maggiore preoccupazione è di eliminare il regime di Imrali, perché quello che ci viene imposto è parte di quel regime.

Diciamo ai martiri, diciamo ad Agid,

Non possiamo più vivere con il regime di Imrali,

Nessuno può più sopportare di tenere ancora prigioniero il leader Apo,

Nessuno può sopportare attacco, assedio e massacri commessi contro il nostro popolo.

La voce del nostro compagno Muhamad Tunc risuona ancora.

La voce del nostro compagno Mazlum Doğan vive ancora nel cuore di ogni curdo.

Per l’orgoglio e la resistenza.

Verso più coraggio, sostegno, rivoluzione e sacrificio, ci impegniamo per la prospettiva del leader Apo, oggi è il giorno in cui abbiamo adottato la libertà per il leader Apo, il Kurdistan e i curdi, con il leader Apo siamo diventati un popolo dalla volontà libera, oggi è il giorno in cui liberiamo il leader Apo e il Paese con una volontà libera.

Con amore e onore, vi salutiamo tutti”.

 Al momento sono 278 le prigioniere e prigionieri che hanno adottato, in 29 carceri della Turchia e del Kurdistan, questa estrema forma di lotta. Ricordiamo che nel carcere di Şakran lo sciopero prosegue da oltre 60 giorni.

Nel frattempo, nonostante i prigionieri bevano quanti più liquidi possibile per conservare energia, le loro condizioni si stanno aggravando. Lo ha confermato in conferenza stampa l’avvocata Fatma Demirer che li ha incontrati nel carcere di Şakran.

A causa dello sciopero la mobilità fisica dei prigionieri è seriamente limitata e “abbiamo notato differenze nel livello di ascolto e di comprensione. Oltre a questo le questioni che vivono sono di stordimento, mal di testa e irregolarità del sonno. Dormono per 3 o 4 ore al massimo, il che mostra la gravità della situazione.”

 Ha poi aggiunto: “Sappiamo che il nostro cliente Şirvan Bilik ha sputato sangue. Özkan Yaşar non può scendere le scale per controlli medici, quindi il medico sale da lui per le misurazioni. Zana Yatkın ha problemi di concentrazione. Ha detto che mentre scrive ha dei vuoti e non riesce a farsi venire in mente le parole. È nella T2. Gli è venuta una piaga sulla faccia. Le donne in questa fase hanno il polso accelerato e la tachicardia.”

L’amministrazione del carcere ha incontrato le prigioniere e i prigionieri il 10° giorno dello sciopero della fame dicendo loro: “Diteci qual è il problema e noi lo risolveremo, smettete lo sciopero della fame.”

Quando i prigionieri hanno elencato le loro richieste, l’amministrazione ha risposto che per quanto riguarda il carcere di İmrali “questo è al di sopra delle nostre competenze”. Ma poi non hanno fatto niente nemmeno per le altre richieste che riguardavano la situazione all’interno del carcere. E proseguiva Demirer: “Portare libri dall’esterno è vietato. Ci sono problemi rispetto all’identità. Non possono svolgere alcuna attività.”

 I medici, stando a quanto ha riferito Demirer, avrebbero visitato i prigionieri soltanto un paio di volte limitandosi a misurare il polso e la perdita di peso. Sempre secondo l’avvocata, infermieri e medici si mostrano alquanto disinteressati e quando i prigionieri parlano di questioni legate alla salute “rispondono che anche loro hanno questi problemi”.

“Non è etico – denuncia Fatma Demirer – dire questo a una persona che è in sciopero della fame da due mesi.”

 

Gianni Sartori

 

 

 

 

 

 

 

LO STATO TURCO HA SUPERATO LA LINEA ROSSA – di Gianni Sartori

LO STATO TURCO HA SUPERATO LA LINEA ROSSA

di Gianni Sartori

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Un recente comunicato dei prigionieri politici e prigioniere politiche del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e PAJK (Partito delle Donne Libere del Kurdistan) nelle carceri di tutta la Turchia e del Kurdistan intendeva chiarire quale sia il significato (e la posta in gioco) dello sciopero della fame in corso.

In questa prima settimana di aprile lo sciopero della fame si conferma irreversibile e a oltranza. Si svolge da oltre 30 giorni in varie carceri (a Şakran, Sincan, Edirne e Van ) mentre  in tutte le altre prigioni era iniziato il 15 marzo. Una protesta sia per l’isolamento totale imposto a Ocalan, sia contro tutte le pratiche di oppressione, tortura e annichilimento a cui vengono sottoposti i prigionieri curdi.

Nel comunicato dei prigionieri si ribadisce che “essere in grado di dire NO alla trappola mortale che il sistema cerca di imporre ai nostri popoli sarà l’inizio per sventare gli attacchi”.

Nel loro comunicato i prigionieri curdi commemoravano alcune vittime della repressione turca (“i Mazlum, i Kemal e i Ferhat”) rivendicando orgogliosamente di essere “i  loro compagni e i loro successori”.

Come prigionieri -continuavano- siamo consapevoli del fatto che con le nostre diecimila famiglie siamo una grande forza di resistenza e crediamo di poter svolgere il nostro ruolo storico e su questa base condividiamo la nostra vita e il suo significato con il nostro Leader e possiamo essere creatori di grandi trionfi. La vittoria certamente sarà di chi resiste nella verità.

Altrettanto esplicita la dichiarazione scritta di Deniz Kaya a nome del PKK-PAJK:

Il governo dell’AKP non accetta una soluzione democratica politica e la trasformazione e mira a prolungare la sua esistenza portando il fascismo all’ultima soglia e istituzionalizzandolo e sta gettando ancora una volta il popolo curdo in una situazione senza status nell’ambito della riorganizzazione della regione. Tutte le loro politiche sono mirate a questo.

Tutta l’oppressione, la violenza e le violazioni di diritti con gli arresti si riflettono sulle carceri. Le operazioni per spezzare la volontà e per intimidire coloro puntano a essere complementari con quelle all’interno. Questi attacchi che mirano alla dignità umana vengono portati avanti con questo spirito.

Mentre ci sono attacchi e violazioni di diritti in tutte le carceri, alcune sono selezionate in particolare come centri pilota per la tortura. Stanno cercando di spezzare la nostra volontà in questo modo e allo stesso tempo vogliono che ogni galera si occupi dei suoi problemi e non sia in grado di sostenere abbastanza le altre.

 DOBBIAMO PREPARARCI A COSTRUIRE SENZA IMPEDIMENTI O SCUSE

 Come prigionieri e prigioniere di PKK e PAJK, nella consapevolezza del periodo storico di resistenza che stiamo vivendo, conosciamo l’importanza di collegarci allo spazio e al tempo nel quale ci troviamo con gli sviluppi universali e stiamo svolgendo il nostro ruolo in questo periodo che segnerà il destino. Sulla base della resistenza rivoluzionaria totale contro un attacco totale, stiamo prendendo ogni momento come un’area in cui difendere il nostro onore e costruire un carattere libero e una vita libera. Il nostro popolo stipato nelle carceri svilupperà la sua consapevolezza e la sua esperienza nella lotta, rafforzando così la volontà che farà pentire il fascismo di averi attaccati. Per questa ragione consideriamo nostro dovere primario preparare i nostri compagni per la resistenza in ogni circostanza e la costruzione di una vita libera, senza considerare come impedimenti o scuse gli eventi quotidiani di esilio e attacchi.

 LA VITA A IN ŞAKRAN È DIVENTATA UN INFERNO

Oltre alle azioni di massa alle quali prendiamo parte, dobbiamo essere consapevoli delle regioni pilota nelle quali il fascismo si mette alla prova e rafforzare la solidarietà coni nostri compagni in quelle aree. Una di queste aree è il carcere T4 di Şakran dove sono tenuti insieme compagni di altre parti del Kurdistan. La vita in questo carcere è diventata un inferno. Tutti i prigionieri e le famiglie sono costretti a essere perquisiti nudi. L’amministrazione sta imponendo disonore e sottomissione con pratiche come stare in piedi durante l’appello, camminare in fila nei corridoio e attaccare l’identificativo del carcere sui vestiti. I prigionieri in cinque celle di questo carcere sono completamente isolati e non possono comunicare gli uni con gli altri.

 APPELLO AI DEPUTATI CHP E ALLE ONG

 Facciamo appello alle ONG in Turchia e ai parlamentari del CHP che sostengono i diritti umani perché vadano a vedere la situazione in questo carcere e la rendano visibile ad altri. Come prigionieri e prigioniere di PKK-PAJK denunceremo quest’amministrazione carceraria, scriveremo alle istituzioni internazionali e mostreremo la nostra solidarietà in questo modo.

DIRE ‘NO’ SARÀ UN INIZIO”.

Da parte turca si accentua invece la vergognosa opera di devastazione anche dei simboli della resistenza curda.

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In questi giorni aerei da guerra turchi hanno nuovamente colpito il Cimitero dei Martiri Mehmet Karasungur a Qandil distruggendo sia le tombe che l’attiguo museo.

Nel cimitero sono sepolti guerriglieri curdi morti in combattimento in ogni parte del Kurdistan. Il luogo viene quotidianamente visitato dalle famiglie dei caduti così come il museo vicino al cimitero che conserva immagini e memorie dei martiri.

Da segnalare che nell’ultimo bombardamento sono state uccise anche le colombe che qui venivano ospitate e  nutrite.

Tra le persone immediatamente accorse dopo il bombardamento, il cittadino Mam Şêx di Qandil.  “In nessun’altra parte del mondo -ha voluto dichiarare ai giornalisti curdi- vengono bombardati i cimiteri. Questo è un atto inumano. Il più grande tradimento. Condanno lo Stato fascista turco che non ha neanche un po’ di umanità e teme i nostri morti.”

Ancora più esplicito il commento di un guerrigliero. Çekdar ha definito il bombardamento del Cimitero dei Martiri  “un segno di debolezza da parte dello Stato turco” aggiungendo che “i Cimiteri dei Martiri sono la nostra linea rossa. Pagheranno per questo.”

Gianni Sartori

 

ETA: ULTIMO ATTO? – di Gianni Sartori

Dal fiero popolo basco una nuova sfida alla Storia, ma stavolta il “campo di battaglia” è quello della pace

 (Gianni Sartori)

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Esponenti accreditati della società civile confermano quanto si andava profilando da tempo: il disarmo totale e definitivo di  Euskadi Ta Askatasuna (Paese Basco e Libertà).

La data di tale evento, l’8 aprile 2017, non sembra scelta a caso. Cadrà infatti pochi giorni prima dell’Aberri Eguna. La prima celebrazione del Giorno della Patria basca risale alla Domenica di Pasqua del 1932. Con questa ricorrenza, altamente simbolica, il nazionalismo basco intendeva richiamarsi all’insurrezione irlandese della Pasqua del 1916.

Non si può escludere che proprio in occasione dell’Aberri Eguna di quest’anno ETA dia l’annuncio di autoscioglimento come organizzazione armata. Pur continuando a lottare, ovviamente con altri mezzi, per l’indipendenza e il socialismo.

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La scorsa settimana Bake Bidea, piattaforma della società civile che promuove il processo di pace in Euskal Herria, aveva organizzato un convegno (“Il disarmo al servizio del processo di pace”) a Biarritz, nel Nord del Paese basco (Ipar Euskal Herria, sotto amministrazione francese). Vi avevano preso parte numerosi esperti e rappresentanti degli “Artigiani della Pace”. Tra questi, le cinque persone arrestate lo scorso dicembre mentre si apprestavano a mettere fuori uso un certo quantitativo di armi di ETA (come concordato con l’organizzazione indipendentista armata). Un gesto di “buona volontà” (già applicato positivamente in Irlanda del Nord) che si voleva propedeutico alla soluzione politica del conflitto, ma che invece era incorso nella repressione e nella manipolazione mediatica.

A circa due anni dalla “Conferenza umanitaria per la pace nel Paese Basco” e a cinque anni dall’inizio del mandato del governo socialista francese, il Convegno di Biarritz ha rappresentato l’occasione per un  bilancio e una riflessione sul ruolo della società civile nel promuovere il processo di pace. Un processo destinato ad avanzare soltanto per l’impegno del popolo basco, non certo per la sostanziale assenza dei governi spagnolo e francese.

A seguito della Conferenza umanitaria, si era costituita una “Commissione di giuristi per la pace nel Paese Basco”, composta da una ventina di giuristi francesi e baschi, per riflettere sulle possibili soluzioni per la situazione in cui versano i prigionieri politici.

Un breve riepilogo sugli eventi di Luhuso (Louhossoa, Pyrénées -Atlantiques), la località  vicino a Bayona in cui vennero arrestate le cinque persone coinvolte nell’operazione di distruzione delle armi di ETA.

Il 16 dicembre 2016 alcuni rappresentanti della società civile avevano preso la storica decisione di intervenire direttamente, in prima persona, nel disarmo di ETA.

Tra loro, i due primi arrestati: Michel Berhocoirigoin (ex presidente di Euskal Herriko Laborantza Ganbara e sindacalista) e Jean-Noël Etcheverry (militante di organizzazioni ambientaliste e pacifiste come Bizi). Entrambi sono conosciuti in Ipar Euskal Herria sia per la loro attività politica, sindacale e sociale che per il coinvolgimento nel processo di pace.

In un primo momento si era parlato anche di Michel Tubiana, presidente onorario della Lega per i Diritti dell’Uomo di Francia. Invece non si trovava tra gli arrestati, ma soltanto perché non era uscito da casa per tempo. Si dichiarava comunque a disposizione delle autorità in quanto firmatario del documento sottoscritto da Michel Berhocoirigoin e Jean-Noël Etcheverry.

Inoltre Tubiana condannava fermamente l’operazione che aveva portato all’arresto dei due esponenti pacifisti e ribadiva il suo coinvolgimento per la pace e il disarmo.

Nella medesima circostanza venivano fermati la giornalista Béatrice Molle-Haran (di Mediabask),  Michel Bergouigan (“Irulegi”) e Stèphane Etchegaray che doveva riprendere l’operazione.

Dopo quattro giorni di detenzione i cinque vennero rimessi in libertà, ma posti sotto controllo giudiziario e  accusati di “porto, trasporto e detenzioni di armi, di munizioni e prodotti esplosivi in associazione con organizzazione terrorista”. Accuse per cui, in teoria, potrebbero essere condannati dai 15 ai 20 anni di prigione.

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Con una loro dichiarazione scritta in precedenza, prevedendo un’azione giudiziaria, Tubiana, Berhocoirigoin e Etcheverry rivendicavano che “in quanto esponenti della società civile e senza nessun legame e subordinazione rispetto a ETA abbiamo deciso di dare inizio al processo di disarmo dell’organizzazione armata con la distruzione di un primo stock di armi corrispondente al 15% dell’arsenale di cui dispone ETA”.

Nello stesso documento si appellavano alla società civile e agli eletti chiedendo di “mobilitarsi in massa, in modo totalmente pacifico, per sostenere la necessità di un disarmo ordinato e controllato”.

Pronta la risposta popolare: una grande manifestazione a Baiona con concentramento in Euskaldunen Plaza all’insegna della parola d’ordine: “Bakearen alde, liberté pour les artisants de la paix”.

Altre manifestazioni a sostegno dei cinque militanti si svolgevano in tutta Euskal Herria il 17 dicembre 2016, nel giorno successivo al loro arresto.

In un altro documento Tubiana, Berhocoirigoin e Etcheverry chiarivano ulteriormente il loro ruolo di “intermediari tra ETA e uno stato che vorremmo portare a riflettere”. Un atteggiamento il loro, lo riconoscono, che potrebbe “apparire pretenzioso, ma abbiamo deciso di assumerci le nostre responsabilità nella convinzione che questo può essere utile per la pace”.

Contro questo genere di persone, avulse da ogni apologia della violenza, si era messa in campo un’operazione congiunta della Guardia Civil spagnola e della Direccion General de Seguridad Interior (DGSI). Operazione che venne poi falsamente presentata dal Ministero dell’Interno come un “nuovo colpo assestato agli arsenali di ETA”. Stando a quanto aveva divulgato Euskal Irratiak, l’abitazione in cui si svolgeva l’operazione si trova nel quartiere di Kurutxeta, tra Luhuso e Heleta. Mentre la polizia completava la perquisizione, un centinaio di cittadini (non certo pochi per una località che conta un migliaio di abitanti) si erano riuniti all’esterno protestando.  Verso le ore 21 @bakeaEHan (PaixEn PB/bakeanEHan) aveva lanciato una serie di tuits per segnalare che si stava svolgendo un’operazione di polizia a Luhuso per “impedire la distruzione delle armi di ETA da parte della società civile”.

Secondo quanto riportava recentemente Le Monde  “l’essenziale dell’arsenale militare dei separatisti di Euskadi Ta Askatasuna è nascosto in Francia”. Anche dopo l’abbandono della lotta armata nel 2014, secondo il noto quotidiano francese, centinaia di fucili d’assalto, pistole, esplosivi rimarrebbero ancora disseminati e nascosti in rifugi e nascondigli. E Le Monde confermava chediverse centinaia di persone e numerosi eletti della regione parteciperanno a questa operazione di inedita ampiezza”. Operazione, ripeto, prevista per l’8 aprile; sempre che i governi di Madrid e Parigi non decidano di vanificarla. Per esempio, nel caso della Francia, rifiutandosi di prendere in carico le armi consegnate sotto gli occhi di osservatori internazionali.

“ETA ci ha affidato la responsabilità del disarmo del suo arsenale e, alla sera del prossimo 8 aprile, ETA sarà totalmente disarmata” ha ripetuto in varie occasioni Etcheverry. Ricordando poi come da tempo la società civile basca sia in attesa di un intervento del governo francese a favore del processo di pace avviato nel 2011 con la Conferenza internazionale di Ayete a Donosti (San Sebastian).

Tra i contributi più significativi al laborioso processo di pace che comunque, governi permettendo, si va costruendo n Euskal Herria, segnalo un cortometraggio realizzato da La Bande Passante:

La Paix Maintenant, une exigence populaire”.

Come spiega la pellicola, è questa forse la prima volta nella storia dei conflitti che un’organizzazione politico-militare consegna le armi e dichiara unilateralmente la pace senza contropartite.

E proprio dalla consapevolezza dell’importanza storica di questo gesto è scaturita la mobilitazione di ampi settori della  popolazione basca che vuol farsene carico direttamente.

Auguri al popolo Basco, se li merita.

Gianni Sartori

 

Newroz 2017: No alla dittatura – Sì per democrazia e libertà (tramite Gianni Sartori)

Newroz 2017: No alla dittatura – Sì per democrazia e libertà

Milioni di persone celebrano il Newroz il 21 marzo che sancisce l’inizio di un nuovo anno e della Primavera. Il popolo kurdo si rifà alla leggenda, secondo la quale il fabbro Kawa sconfisse il Tiranno Dehaq ponendo così fine a secoli di oppressione.

Il Newroz viene celebrato come una festa di pace, libertà e democrazia. Questi valori sono fondamenti di ogni società e attualmente più che mai in pericolo. La difesa risoluta e collettiva di quei valori è un chiaro no alla guerra e alla dittatura: questi valori sono capisaldi anche del Newroz di quest’anno.

La guerra e la dittatura caratterizzano il Medio Oriente. Con le misure prese dopo il colpo di stato militare del 15 luglio 2016 Erdogan e i suoi seguaci hanno portato la Turchia ad una vera e propria dittatura. Tutti i diritti e le libertà sono state cancellate e decine di co-sindaci, politici democraticamente eletti, tra cui deputati dell’HDP, detenuti. Il governo turco aveva già terminato il dialogo per una soluzione politica della questione curda e intensificato la guerra in Kurdistan. Centinaia di civili sono stati uccisi e interi quartieri sistematicamente distrutti dall’esercito.

Parallelamente a questi sviluppi la Turchia ha avviato una politica di espansione nella vicina Siria e in Iraq: questo non solo è pericoloso per lo sviluppo della regione, ma in particolare nel contesto della sua cooperazione con i gruppi islamisti. L’obiettivo in questa aggressione che viola ogni diritto umano sono i risultati progressivi dei curdi e dei loro alleati regionali. Il modello della Federazione Democratica del nord della Siria con i suoi principi di equità democratica, ecologia e di genere è il modello futuro per l’intera regione. Lo Stato turco porta ad una grande polarizzazione della società e realizza intimidazioni nei confronti di attivisti dell’opposizione.

Quest’anno il Newroz si svolge in un contesto di pesante stato d’assedio e sarà al tempo stesso un modo per contestare il prossimo referendum del 16 Aprile che prevede di votare sull’emendamento costituzionale che vuole imporre e legittimare il regime dittatoriale in Turchia. I curdi e tutte le forze democratiche della Turchia si posizioneranno per il NO, contro la dittatura, la guerra e lo sfruttamento, per la giustizia, la pace, la libertà e la democrazia.

Questo anno decine di delegazioni di osservatori da tutta l’Europa, compresa l’Italia, sono partiti per partecipare allo svolgimento dei festeggiamenti, con l’invito dell’HDP, con lo slogan “Vinceremo di Sicuro” in molte città turche e curde, cominciando dal 17 Marzo da Nusaybin sino al 21 Marzo data in cui si festeggerà in 33 città contemporaneamente. Non solo in Turchia ma anche in tutto il Medio Oriente, in Europa, Italia inclusa, i curdi e i solidali con il popolo curdo festeggeranno:

Inviatiamo a tutti partecipare ai festeggiamenti del Newroz 2017
Le città e le date del Newroz in Italia sono le seguenti:

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UIKI Onlus – Ufficio d’Informazione del Kurdistan in Italia

IN MEMORIA DI UN PRIGIONIERO POLITICO (e di altri) – di Gianni Sartori

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Non è mia intenzione fare un bilancio del ruolo, sicuramente fondamentale, esercitato dal pensiero e dall’opera di Giuseppe (“Bepin”) Segato, scomparso nel marzo 2006,  nell’ambito venetista. Altri, più addentro al problema, potranno farlo in maniera adeguata. Cercherò invece di collocare la tragica conclusione della sua umana vicenda in un contesto che conosco maggiormente, quello della prigionia politica e delle persecuzioni di Stato nei confronti di dissidenti e oppositori; non solo “indipendentisti” naturalmente.

Al ritorno da un viaggio in Euskal Herria nell’estate 2006 (a qualche mese dalla morte di Bepin) avevo dovuto, mio malgrado, fare i conti con il gran numero di conoscenti (militanti, giornalisti, esponenti di Ong…) relativamente giovani scomparsi nel giro di pochi anni. Tutti loro avevano conosciuto la realtà del carcere e la coincidenza non sembrava proprio una coincidenza.

Pochi anni prima era morto sui Pirenei (una disgrazia? Mah…) Manex Goinetxe, fondatore della sezione basca della “Lega per i diritti e la liberazione dei popoli” (a cui, se pur indegnamente, avevo dato un contributo iniziale dopo il mio incontro, ancora nel 1986, con “Takolo”); nello stesso periodo era mancato anche Marc Palmés (lo avevo intervistato a Barcellona nel 1987) , l’avvocato catalano che difese il Txiki, militante di ETA, poi condannato a morte e fucilato, davanti al tribunale speciale nel 1975; il giornalista Pepe Rei, esponente della sinistra abertzale basca, ma di origine gallega,  aveva subito un grave incidente automobilistico sulle cui reali dinamiche sussistono forti dubbi e, sopravvissuto, si trovava in gravi difficoltà. Anche se non ci siamo mai incontrati di persona, lo avevo intervistato telefonicamente in varie occasioni.

Un altro amico, Gari Arriaga (esponente di Gestoras pro-amnistia), ex prigioniero politico, era stato gravemente ammalato; Gorka Martinez, dirigente storico di Herri Batasuna, era morto nel 2002, per un tumore, dopo una serie di arresti e detenzioni. La medesima sorte è poi toccata nel 2005 a Jon Idigoras. Ricordo che nel marzo di quel 2006 altri due prigionieri politici baschi (Igor Angulo Iturrate e Roberto Sainz) erano morti in carcere in circostanze non chiare. Altri nomi da aggiungere ad una lista lunghissima, da Juan José Crespo a Joseba Asensio, da Mikel Lopetegi a Ohiane Errazkin.

Anche in Irlanda le cose non andavano meglio tra gli ex prigionieri politici. Basti ricordare Pat McGeown, uno dei due sopravvissuti allo sciopero della fame del 1981, morto improvvisamente al ritorno da una camminata nel 1994. Ricordo che l’altro sopravvissuto, Mc Keawon (lo avevamo invitato a Vicenza per una conferenza ancora nel 1994) gode fortunatamente di buona salute ed è sempre molto impegnato a livello culturale.

Ed erano trascorsi pochi mesi dall’improvvisa scomparsa di Duma Kumalo (febbraio 2006), martire scampato alle forche dell’apartheid. Protagonista in prima persona delle dure lotte in Sudafrica negli anni Ottanta, Duma aveva dedicato la sua vita a denunciare i meccanismi dell’esclusione e della discriminazione con cui si era istituzionalizzato il razzismo. Sicuramente la sua morte era stata la conseguenza degli anni di sofferenze e di torture nella cella della morte.

Non potevo poi dimenticare Edoardo Massari e Soledad Rosas, morti suicidi (o meglio: spinti al suicidio dal trattamento subito in carcere) dopo una campagna diffamatoria (vedi Michele Serra tanto per non far nomi) che aveva trasformato due romantici “squatters” in pericolosi “ecoterroristi”. Magra consolazione che, dopo la morte, siano stati dichiarati innocenti e che lo stesso giudice, poi defunto, si fosse dichiarato “dispiaciuto”.

Tornando al Veneto, era ancora vivo il ricordo di Emilio Vesce, intellettuale della sinistra antagonista incarcerato all’epoca del “7 aprile” 1979. E molti nell’Alto Vicentino si ricordano del calvario subito da Lorenzo Bortoli. Accusato di essere un militante di Autonomia Operaia, trascinato davanti al cadavere massacrato, irriconoscibile, della compagna Antonietta da un giudice senza cuore, venne trovato impiccato in una cella del carcere di Verona dopo altri tentativi di suicidio che le autorità avevano preferito ignorare. La persecuzione, l’individuazione di un capro espiatorio (e l’indifferenza per le vittime, per gli “sconfitti” della Storia) resta una costante della cultura repressiva, ad ogni latitudine e con ogni regime.

E da allora, come era facile immaginare, la lista degli ex prigionieri politici scomparsi prematuramente si è andata allungando.

Eva Forest che avevo incontrato a Donosti nel 1996 e rivista a Firenze, con i No-global, nel 2002, è morta nel 2007  mentre Theresa Ramaphosa, unica donna dei Sei di Sharpeville ci ha lasciato alla fine del 2015.

Quanto agli arrestati e incarcerati del “7 aprile” veneto (l’inchiesta del giudice Calogero che mise a tacere l’originale esperienza dell’Autonomia Operaia in Veneto), la lista di quelli morti prematuramente è impressionante. Oltre ai già citati Lorenzo Bortoli ed Emilio Vesce, sono morti ancora nel 1991 Sandro Serafini e nel 2000 Luciano Ferrari Bravo.

Senza poi dimenticare Augusto Finzi, Guido Bianchini, Franco Tommei, Giorgio Raiteri, Paolo Pozzi, Antonio Liverani, Gianmario Baietta…

Fino a Dalmaviva, nel 2016. Dalmaviva, ricordo, aveva protestato contro l’ingiusta detenzione (5 anni e 4 mesi per accuse venute poi a cadere) con un lungo sciopero della fame.

NOTTE 8-9 MAGGIO 1997: LO STATO MOSTRA I MUSCOLI

In una conversazione di qualche anno fa Ettore Beggiato (all’epoca consigliere comunale a Vicenza) sosteneva che “il dato centrale che emerge dai fatti della notte 8-9 maggio 1997 è che lo Stato ha voluto mostrare i muscoli”.

Da un libro (Il Leone blindato) scritto da Paolo Citran, allora dirigente della polizia di Venezia, in servizio nella notte del fatto, emerge chiaramente che “ben prima dell’intervento dei Gis, erano stati identificati i componenti del gruppo penetrato nel campanile”. Basti pensare che il questore si rivolgeva a Fausto Faccia chiamandolo per nome. “La polizia sapeva benissimo chi aveva di fronte”. Li avevano lasciati fare in modo da poter dare una dimostrazione di forza “inscenando lo spettacolo per i Gis”.

Beggiato definiva i militanti veneti “otto sognatori che non avrebbero fatto male a una mosca” e che avevano perfino “pagato il biglietto del ferry-boat”. Precedentemente avevano anche “fatto un sopralluogo per capire se il tanko avrebbe potuto danneggiare la piazza”. Antonio Barison era stato “tenuto per tre ore in caserma praticamente in coma, rischiando di morire”. E ricordava le reazioni politiche, la richiesta di “pene esemplari”.

Oltre agli “otto” del campanile vennero poi processati Severino Contin (l’autista del camion), Luigi Faccia e Giuseppe Segato, considerato l’”ideologo”.

Da sempre “si sono caratterizzati, più che per una dimensione politica, per un’idea di riappropriazione della propria dimensione storica, non solo della Serenissima, ma anche in senso dinamico”. Sostenevano che “il popolo veneto, se lasciato in grado di autogovernarsi, riesce sempre a produrre modelli”. Si riferivano “sia alla Repubblica Veneta che al 1848 quando Venezia, con Manin, fu l’ultima città d’Europa a cadere sotto i colpi dell’Impero, resistendo dal 22 marzo 1848 al 23 agosto 1849”. Infine (chi parla è sempre Beggiato): “Tutti giustamente sanno delle Cinque Giornate di Milano, ma non tutti sanno che qui la resistenza è durata più di un anno”. Senza dimenticare, aggiungo io, che quelli del campanile di san Marco avevano rivendicato anche un’altra Resistenza, quella contro il nazifascismo del 1943-45.

Al momento di quelle riflessioni Segato era ancora in carcere mentre Luigi Faccia era in semilibertà;  anche gli altri erano liberi, magari sottoposti a qualche restrizione. Sembrava che sull’intellettuale veneto, laureato in Scienze politiche, si volesse proprio infierire. Alcuni ambienti politici e della società civile veneta chiedevano da tempo la sua liberazione e richieste in tal senso erano venute da Cacciari, Bettin, Gustavo Selva…

Parroco e sindaco di Borgoricco (il paese di Segato, in provincia di Padova) avevano chiesto ufficialmente in varie occasioni la sua liberazione, testimoniando che Segato era una persona mite, pacifica, nonviolenta. Già allora il sindaco aveva proposto di inserirlo nella biblioteca per un’alternativa alla prigionia attraverso i servizi sociali.

Una conferma della solidarietà popolare nei confronti del prigioniero politico veneto era poi venuta dai dati elettorali. Candidato nel collegio senatoriale di Schio, Segato aveva avuto circa 16.000 voti (il 10% del totale). Sicuramente le sue condizioni di salute si erano aggravate con il protrarsi della detenzione e la sua morte non si può considerare una semplice fatalità, ma una conseguenza delle persecuzioni subite. I funerali sono stati celebrati a Borgoricco un giovedì di maggio, mentre inizialmente avrebbero dovuto svolgersi nel sabato successivo. E’ possibile che “qualcuno” abbia fatto pressione per spostarli? Forse pensando che i veneti, instancabili stacanovisti, ma poco coinvolti dalle questioni ideali, difficilmente avrebbero partecipato in massa in una giornata lavorativa. Ma quel “qualcuno” per una volta si era sbagliato.

Attorno alla bara, avvolta nel Leone di San Marco, si sono stretti in tantissimi e gli è stato reso onore con una scarica di fucileria, il “Saluto finale”. Ora riposa nel cimitero di S. martino delle Badesse.

Un’ultima cosa che mi pare significativa. Quando era in carcere gli immigrati africani con lui detenuti lo avevano soprannominato il “Mandela bianco”. Alcuni di origine congolese lo avevano addirittura paragonato a Lumumba, l’eroe dell’indipendenza fatto assassinare dai colonialisti.

Evidentemente, nonostante l’alone negativo che la stampa gli aveva costruito intorno, la sua buona fede, il suo idealismo disinteressato erano stati riconosciuti e apprezzati. Con l’intuito e la sensibilità che contraddistingue i popoli africani, i suoi compagni di prigionia lo avevano capito molto meglio di tanti intellettuali

Dalla morte di Segato  è trascorso oltre un decennio e molte cose sono cambiate, io sono cambiato. Se in meglio o in peggio, non saprei. All’epoca, ormai da molti anni, stavo in precario equilibrio tra un passato di partecipazione alle lotte sociali (diciamo dal 1968 al 1975) e un presente di condivisione profonda, quasi esistenziale, con varie lotte di liberazione (diciamo dalla fine degli anni settanta in poi), lotte rigorosamente di sinistra (altrimenti, che liberazione è?). Da questo derivava, come effetto collaterale,  una mia frequentazione di persone, gruppi, iniziative…legate all’autonomismo nostrano. Partivo dal presupposto che ogni lotta per l’autodeterminazione finisce fatalmente per  imboccare, magari in parte, la “sanca” (come era avvenuto, per esempio, sia in Euskal Herria che nei Paisos Catalans). Non dico che mi aspettassi  la nascita di una Herri Batasuna (o di un Moviment de Defensa de la Terra) in Veneto, ma almeno l’equivalente di  Eusko Alkartasuna (o di Esquerra Republicana).

Invece le cose andarono diversamente, come è noto. Le divisioni e separazioni ci furono (attualmente ho perso il conto di quanti siano i movimenti autonomisti in Veneto), ma sostanzialmente quasi tutte o a destra o al centro destra. E comunque impregnate di neoliberismo e filocapitalismo. Nessuna messa in discussione del devastante “modello veneto” di utilizzo del territorio (cemento, superstrade, capannoni e inquinamento) e nemmeno della sempre più ingombrante presenza di basi statunitensi (l’ultima creatura, per ora, quella del Dal Molin).

Mi chiedo a quale modello di autonomia stiano pensando molti venetisti. Forse a quella che consentirebbe di fabbricare ancora più capannoni, temo. E nuove superstrade per seppellirvi altre tonnellate di rifiuti tossici (vedi la recente Valdastico Sud).

E pazienza per l’ambiente, la salute, il paesaggio tradizionale…

Non voglio ipotecare niente e nessuno, ma quello di Giuseppe Segato mi sembrava un atteggiamento diverso. In ogni caso il suo idealismo disinteressato rimane fuori discussione, così come la sua condizione di perseguitato, prigioniero politico e vittima della repressione.

E concludo. “Comprensivo” nei confronti delle varie tribù dell’autonomismo nostrano, il mio atteggiamento era invece, ca va sans dire, di assoluta contrarietà nei confronti dei neofascisti.

Diffidavo (e diffido) in particolare delle simpatie (“a senso unico”, sottolineava Bernadette Devlin) espresse da Destra nei confronti delle lotte per l’autodeterminazione.

Delle strumentalizzazioni operate sulla questione irlandese mi ero già occupato. Suggerisco a tale proposito la (ri)lettura di “Fascisti, giù le mani dall’Irlanda” (per quanto ormai datato).

Dovrei aggiungere che parte del problema nasce, forse,  dal fatto che la lotta di liberazione antimperialista del popolo irlandese è stata interpretata e divulgata dagli esperti e addetti ai lavori, pieni di buoni sentimenti per carità, soprattutto in chiave umanitaria, paternalistica, direi in fondo borghese (come le origini inequivocabili di tali esperti o addetti ai lavori) mettendo in sordina la condizione proletaria della maggioranza dei militanti repubblicani. Questa generica “solidarietà” buona per tutte le stagioni lascia, a mio avviso, un varco per intrusioni non previste.

Ma, ho scoperto, c’è anche di peggio (almeno da mio punto di vista, ossia di un ex anarchico e consiliare).

Tra chi ha tentato di appropriarsi dei martiri irlandesi del 1981 ci sono anche alcuni cosiddetti libertariani, (teorici di un liberismo economico senza vincoli di sorta, irresponsabile, “anarchico” nel senso deteriore del termine). In un loro sito (“Istinti libertari”), dopo aver ricoperto di elogi l’operato della Lady di Ferro (per il suo sfrenato liberismo, vedi i licenziamenti di massa e la dura repressione nei confronti dei minatori), versavano lacrime ipocrite su Bobby Sands e sugli altri compagni morti in sciopero della fame (ribadisco: compagni. I tre dell’INLA morti nel 1981 erano comunisti, gli altri, quelli dell’IRA, sicuramente di sinistra, anticapitalisti e antimperialisti).

Ne siano consapevoli o meno i soidisant “libertari”, il loro stile ricorda molto una variante (“neoliberista”?) dell’infiltrazione e intossicazione operate dai fascisti negli anni settanta. Oltre ad alimentare la confusione e gli equivoci, con i loro commenti questi utili idioti del capitalismo mostrano chiaramente di non capire una beata mazza della questione irlandese. Prendono poi un’altra madornale cantonata quando negano la relazione profonda tra fascismo e neoliberismo  (vedi i Chicago boys nel Cile con Pinochet).

Che dire? Voi “libertari”? Senza uno stato a difenderlo manu militari sapete che fine farebbe il vostro amato liberismo?.

Un altro aspetto da considerare, ancora più grave dei tentativi di appropriazione indebita di personaggi di sinistra (come Bobby. Sands, Che Guevara o Barry Horne) è la possibile infiltrazione nei movimenti di liberazione, di emancipazione sociale e nei movimenti ecologisti radicali. Se in Italia è relativamente noto il ruolo svolto da Mario Merlino nel movimento anarchico, non va dimenticato che elementi legati all’Aginter Presse si infiltrarono (con false credenziali “maoiste” e antimperialiste) nel movimenti di liberazione delle colonie portoghesi per eliminarne i dirigenti (vedi i casi di Mondlane e Cabral, forse anche della dissidente sudafricana R. First assassinata in Mozambico). Da segnalare poi il ruolo dei neofascisti (NAR, ma non solo) a fianco dei falangisti maroniti contro i palestinesi. Non esattamente il massimo della coerenza da parte di soggetti che in Italia si inventavano sigle “terceriste” come OLP (maldestro camouflage dell’ organizzazione Lotta di Popolo fondata da Di Luia, braccio destro di Delle Chiaie). Vedi anche gli attacchi (non casuali) al rappresentante dell’OLP (quella autentica) a Roma e all’ambasciata libanese da parte dei NAR. Sorvoliamo sull’impiego di neofascisti italiani contro i rifugiati baschi nella Spagna franchista e post-franchista (dall’eccidio di Montejurra – Jurramendi, all’eliminazione di Pertur)

E’ lecito perlomeno sospettare che alcuni neofascisti che da Londra si inventavano approcci con i Repubblicani irlandesi (mentre erano ospitati dai fascisti inglesi del NF, notoriamente legati agli unionisti protestanti di UVF, oltre che ai servizi britannici) tentassero in realtà di infiltrarsi con tutte le possibili conseguenze.

Insomma, tornando a una vecchia polemica con una mia compaesana (peraltro meritevole di stima per l’ampio lavoro di controinformazioni sulle violazioni dei diritti umani operate dalla Gran Bretagna in Irlanda del Nord) va detto che chi ha presentato il libro su Bobby Sands tra due esponenti dell’estrema destra “tercerista” (Angelilli, ex di Terza Posizione e Della Longa, di “Sinistra nazionale”, giornale il cui direttore è un ex esponente di Lotta di Popolo) ha peccato quanto meno di ingenuità. Non si tratta di rivendicare paternità o primogeniture ma di non farsi strumentalizzare.

Gianni Sartori