Un incontro con Gerard Janssen Bigas, un giovane catalano che ha redatto una tesi di laurea, presentata all’Università Pompeu Fabra di Barcelona, dal titolo: “Tra prestigio e dimenticanza. Le Lingue dell’Italia settentrionale viste dai giovani”. In contemporanea sulle piattaforme social della nostra Associazione.
Il 29 ottobre, mentre andava intensificandosi l’operazione per estirpare i Masai dalle loro terre ancestrali, in Tanzania si svolgevano le presidenziali. Ma con il capo dell’opposizione (Tundu Lissu) in carcere per “tradimento” e quindi di fatto esclusa dalla consultazione.
Elezioni segnate da forti contestazioni per la grave situazione sociale in cui versa il paese, con manifestazioni a cui il governo (confermando l’attuale deriva autoritaria) ha risposto con una durissima repressione. Lasciando sul terreno un centinaio di vittime civili e imponendo il coprifuoco a Dar es Salaam (oltre al blocco della rete mobile 4G). Nei giorni successivi la situazione si è aggravata coinvolgendo anche Arusha, Songwe, Kigoma e Mwanza.
Tornando ai Masai, sacrificati sull’altare di una fasulla “difesa della natura” (in realtà su quella dei profitti derivati dal turismo), ancora nel febbraio dell’anno scorso Bruna Sironi su Nigrizia denunciava “gli abusi sui popoli nativi per estendere le riserve naturali a scopo turistico, anche grazie ai finanziamenti della Banca Mondiale”.
Risaliva infatti agli inizi del 2024 la notizia che “circa 100mila masai dovranno lasciare le loro terre, 20mila entro la fine di marzo. Intanto nel parco Ruaha un progetto di ampliamento delle aree protette prevede il trasferimento forzato di altre migliaia di persone”. Corollario scontato, gli abusi e le violenze per costringere le comunità ad andarsene diventavano pane quotidiano.
Stando alle testimonianze raccolte dal centro studi statunitense Oakland Institute (v. Tanzanian Government on a Rampage Against Indigenous People) i ranger della TANAPA (Tanzania National Park Authority) si sarebbero resi responsabili di omicidi e violenze sessuali (oltre che di sequestri di bestiame) per costringere gli abitanti dei villaggi a traslocare.
Allargando e intensificando gli “sfratti” (alla soglia della deportazione) delle comunità rurali presenti nella zona di Ngorongoro (circa 100mila Masai, in gran parte pastori, mai consultati in merito al loro destino). Il Ruaha National Park (RUNAPA, nella parte centrale del paese) è uno dei quattro parchi per cui la Banca Mondiale ha messo a disposizione 150 milioni di dollari per finanziare il progetto “Gestione resiliente delle risorse naturali per il turismo e la crescita”.
Nel gennaio di quest’anno il governo aveva nuovamente inviato i ranger della TANAPA contro un villaggio nei pressi del parco di Tarangire. Aprendo il fuoco contro gli abitanti, arrestandone una decina e sequestrando un migliaio di capi di bestiame. Come era già avvenuto nel 20024 con il sequestro di oltre tremila capi poi venduti all’asta.
Prevista poi l’estensione dell’area protetta, da un milione a due milioni di ettari (altro progetto, approvato dalla Banca Mondiale nel dicembre 2017).
Per il governo, i provvedimenti sarebbero dovuti alla crescita demografica e allo “stile di vita” (essenzialmente pastorale) dei Masai, ormai incompatibili con la sopravvivenza della fauna selvatica qui presente.
Intendiamoci. Qui non si tratta di “superamento dell’antropocentrismo”, di restituzione dell’habitat a piante e animali selvatici. Ma semplicemente della riproposizione di un modello già sperimentato (per esempio in Sudafrica) di “conservazione neocoloniale”. Mettendo queste aree a disposizione dei turisti benestanti, cacciatori compresi. Del resto i safari rappresentano un fattore alquanto significativo nell’aumento del Pil e anche per questo il governo intende creare 15 nuove riserve di caccia entro il 2026. Vietando in queste aree la presenza umana (quella degli indigeni ovviamente) anche se, come ricordava Bram Büscher “il sistema delle riserve favorisce solo la protezione di specie iconiche, come gli elefanti. Molti insetti, anfibi e piccoli mammiferi stanno scomparendo, ma non rientrano nelle priorità economiche del modello attuale”.
Ufficialmente per “migliorarne la gestione”, è prevista la realizzazione di infrastrutture per favorire i flussi turistici.
Così, mentre aumentano i tagli a istruzione e sanità, si intensifica la costruzione di alloggi per turisti “inseriti nella natura” e di hotel.
Provvedimenti simili erano già stati adottati dal governo in precedenza. Sempre l’Oakland Institute, nel maggio 2022 (dopo un’approfondita ricerca sul campo) aveva pubblicato un documento in cui definiva le nuove aree consegnate ai Masai (in sostituzione di quelle ancestrali) come “non adeguate ai bisogni: terreno di pascolo assolutamente insufficiente, acqua scarsa”.
Inoltre le promesse di migliorare i servizi risultavano “gravemente insufficienti, vaghe e inconsistenti”.
Un esempio da manuale di land grabbing (accaparramento di terre) in aperta violazione dell’articolo 10 della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei popoli Indigeni.
In risposta a tale arbitrio, il 18 agosto 2024 circa 40mila Masai (qui giunti percorrendo strade secondarie) avevano bloccato decine e decine di land cruisers carichi di turisti lungo la strada che unisce l’Area di Ngorongoro con il Parco Nazionale di Serengeti.
I manifestanti inalberavano cartelli e striscioni che accusavano la presidente Samia Syluhu di aver “soppresso i diritti sociali a Ngorongoro”. In riferimento sia alle drastiche limitazioni in materia di istruzione e sanità, sia all’intensificarsi delle restrizioni sulla mobilità (limitazioni nell’accesso ai pascoli, all’acqua…). Oltre naturalmente agli attacchi dei ranger che avvengono in totale impunità.
Chiedendo “Una vita sostenibile e un futuro sostenibile”.
Iniziativa a cui ha fatto eco un documento del MISA (Alleanza Internazionale di Solidarietà Masai). Elaborato da anziani, donne e giovani di 26 villaggi con l’intenzione di “sviluppare e promuovere una alternativa al modello di conservazione coloniale, potenziato, violento e capitalista che viene imposto alla nostra comunità”.
Ovviamente le legittime richieste degli indigeni si scontrano con il fatto incontestabile che ormai il turismo supera il 17% del PIL nazionale. Con quasi due milioni di visitatori stranieri per un valore di 3.100 milioni di euro.
Nel 2019 il Ladak si ritrovò separato dallo Stato indiano di Jammu e Kashmir, passando sotto il controllo amministrativo diretto dell’India. Anche se all’epoca quella sembrava una buona notizia per un buon numero di abitanti (Ladaki e Ciangpà), hanno poi avuto tutto il tempo per ricredersi. Di fatto, si perdeva gran parte dell’autonomia di cui prima godevano, la disoccupazione aumentava e – non ultimo – gli ecosistemi risultavano gravemente intaccati.
Da parte sua il governo indiano apparve intenzionato a sviluppare soprattutto il turismo (una forma di colonialismo interno) e gli impianti fotovoltaici-industriali a spese di migliaia di ettari di terreno.
Per protesta un gruppo di militanti ambientalisti, il più noto è Soman Wangchuk, iniziava in settembre uno sciopero della fame. Una lotta rimasta sostanzialmente pacifica per circa due settimane finché, il 24 settembre, centinaia di giovani sono scesi in strada innescando scontri con le forze dell’ordine (con lanci di pietre) e assaltando la sede locale del partito della destra nazionalista indù BJP (Bharatiya Janata Party, Partito del Popolo Indiano), poi data alle fiamme.
Almeno quattro manifestanti rimanevano uccisi quando la polizia ha aperto il fuoco e i feriti si contavano a decine.
Accusato di aver provocato i disordini con la sua protesta, Soman Wangchuk veniva quindi arrestato (insieme a diversi suoi sostenitori) in base alla legge sulla sicurezza nazionale. Ma, dato che le manifestazioni non si fermavano, in ottobre il governo ha rimesso in libertà una trentina di manifestanti (ma non Sonam Wangchuk che rimane dietro le sbarre).
Sempre rovente poi la questione innescata ancora nel 2021 dalla legge che colpisce con pene fino a 10 anni coloro che cambiano religione per vantaggi economici o per (spesso solo presunta) coercizione.
Ancora nel nord-ovest del Paese, nel distretto di Kathua (Stato di Jammu e Kashmir), una decina di agenti sono stati sospesi in quanto non erano intervenuti quando un gruppo di estremisti indù, guidati da Ravinder Singh Thela (dirigente locale del BJP) e muniti di spranghe di ferro, ha attaccato una quindicina di predicatori cristiani che viaggiavano su un furgone. L’episodio, di cui le immagini eloquenti sono state diffuse nei social, risale alla notte del 24 ottobre.
Altro discorso complicato – e tutto da decifrare – quello della per ora ipotetica (ma comunque possibile viste le circostanze, sia locali che internazionali) scomparsa di uno dei più antichi movimenti di opposizione in India: i naxaliti (dal villaggio di Naxalbari, Bengala Occidentale). Comunisti di tendenza maoista, attivi fin dal 1967 in numerosi distretti dell’India, in particolare in quelli del cosiddetto “Corridoio Rosso” (circa 225, i più poveri del Paese). Coprendo i territori di una ventina di Stati tra cui Chhattisgarh, Bihar, Jharkhand, Odisha, Madhya Pradesh, Andhra Pradesh, Uttar Pradesh…
A fianco soprattutto di dalit (“paria”), adivasi (popolazioni indigene), contadini poveri, diseredati delle bidonville, soggetti marginali sottoposti al lavoro forzato (vethi). Intervenendo con particolare determinazione in difesa delle donne tribali sottoposte a ogni genere di angherie da soldati, milizie e – anche – operatori turistici.
Si ritiene che l’eventuale scomparsa della guerriglia maoista, potrebbe verificarsi – più che per sconfitta sul campo -per la resa o diserzione in gran numero sia di quadri che di militanti di base. Anche per un nuovo atteggiamento assunto dalle popolazioni. Verso cui il governo sta da tempo operando per conquistarne “le menti e cuori” costruendo strade, ripetitori e altre opere di modernizzazione.
Emblematica la capitolazione degli esponenti dell’Ufficio Politico del Comitato Centrale Naxal del Maharashtra (con la consegna delle armi dell’Esercito Guerrigliero Popolare di Liberazione). Tra coloro che si sono arresi direttamente al Governatore Devendra Fadnavis, anche il noto comandante Mallujola Venugopal Rao (Bhupathi, militante della guerriglia fin dal 1980) il quale avrebbe dichiarato di essere “ormai stanco del movimento”.
Non mancava qualche precedente, anche se non di tale portata. Nel 2015, dopo che suo fratello era caduto in combattimento, si era arreso il comandante Gajarala Ashok.
Diversa la sorte toccata a un’altra nota esponente naxalita, Narmada Akka. Arrestata nel 2019 a Hyderabad dove cercava le cure per un tumore e deceduta tre anni dopo in carcere.
Non poche perplessità aveva poi suscitato un comunicato, ufficialmente del Partito Comunista dell’India (Maoista), con cui si annunciava la sospensione della lotta armata in considerazione del “cambiamento dell’ordine mondiale e della situazione nazionale”. Un riferimento, presumibilmente, al miglioramento delle relazioni tra New Delhi e Pechino dopo i recenti incontri tra Narendra Modi e Xi Jinping in occasione della riunione a Tianjin (fine agosto, primi di settembre) del Consiglio dei capi di Stato dell’OCS.
Verso la fine di ottobre tale comunicato veniva smentito da un altro del Comitato Centrale in cui si ribadiva che il partito intendeva resistere sia alla politica governativa per favorire (dando non solo garanzie, ma anche denaro in cambio delle armi) la resa dei militanti, sia alla “linea reazionaria e repressiva del governo”. E definendo il primo comunicato un’operazione di intossicazione dei servizi. In pratica, “guerra psicologica” (ricordate quella teorizzata e praticata da Delle Chiaie in Bolivia?) che si coniuga con le operazioni di “guerra sucia” e i rastrellamenti.
Gianni Sartori
PS Ultima ora: l’articolo era già stato scritto (e spedito) quando è arrivata la notizia che altri dirigenti naxaliti si erano arresi il 28 ottobre.
Si tratta di Pulluri Prasad Rao (Shankaranna, membro del Comitato centrale, 62 anni) e di Bandi Prakash (Prakash, 43 anni) del Comitato di Telangana. Con questi ultimi due sarebbero almeno otto i membri del Comitato centrale che si sono arresi dall’inizio del 2024. Altri otto dirigenti invece sono stati uccisi in combattimento o assassinati.
Altri sette esponenti del Comitato centrale sarebbero invece ancora attivi nella clandestinità.
In ogni caso appare evidente che ormai la situazione sta diventando sempre più difficile, forse insostenibile, per i dissidenti maoisti.
E intanto si va faticosamente compiendo una nuova tappa, almeno da parte curda, del complicato processo di Pace tra governo turco e PKK.
L’annuncio, per voce di Sabri Ok (del consiglio esecutivo del KCK), viene dato dalla “Direzione del Movimento per la libertà del Kurdistan”. Tutte le forze guerrigliere curde (si calcola oltre 300 persone nda) si sono ritirate dalla Turchia raggiungendo le aree di difesa di Media (nel Kurdistan iracheno, Bashur). Al fine dichiarato di “far procedere il processo di pace per una società democratica alla seconda fase”. Alla dichiarazione hanno assistito alcuni esponenti della guerriglia curda come Vejîn Dersîm (comandante di YJA Star Serata) e Devrim Palu, membro del consiglio di comando delle Forze di Difesa del Popolo ( HPG, Hêzên Parastina Gel).
Sono ormai oltre otto mesi che da parte curda si porge la mano al regime di Ankara (dopo l’appello di Ocalan in febbraio dal carcere di Imrali) per procedere con i turchi verso “una vita libera, democratica e fraterna per il secolo a venire”. Con il cessate il fuoco unilaterale del 1 marzo 2025, l’auto-dissoluzione del PKK (maggio 2015) e la pubblica cerimonia di distruzione (con il fuoco) delle armi in luglio.
Ma senza risposte significative da parte di Erdogan & C.
Anche la fine dell’isolamento per Ocalan (e la possibilità di incontrare i suoi avvocati dopo quattro anni) aveva più il sapore di una “concessione” che di un gesto per procedere verso una soluzione politica del conflitto. Mentre da parte dei curdi si chiede di “prendere misure giuridiche e politiche adeguate per salvare il processo di pace”.
In particolare per consentire ai militanti curdi di integrarsi nella vita politica democratica. Una richiesta che va oltre quella di una, per quanto improrogabile, amnistia.
Quanto al comunicato del ritiro della guerriglia dalla Turchia, il governo turco si è limitato, almeno per ora, a esprimere compiacimento per questo “risultato concreto dell’impegno per mettere la parole fine su un conflitto durato 40 anni”.
Per l’esponente curdo Devrim Palu, “la liberazione del capo storico del PKK Abdullah Öcalan, rimane una condizione cruciale per la riuscita del processo di pace” Spiegando inoltre che il ritiro delle forze di guerrigliere ha lo scopo di “preservare la pace e impedire eventuali provocazioni”.
Intanto è previsto a breve un altro incontro della delegazione del partito filo-curdo DEM (terza forza in Parlamento e di fatto il principale intermediario tra Ankara e il PKK) con il presidente Erdogan. A cui dovrebbe seguire un’altra visita a Imrali, l’isola-prigione (la Robben Island turca) dove è rinchiuso il leader curdo.
In conferenza-stampa il vice presidente del partito DEM, Tuncer Bakirhanha dichiarato che “la prima fase del processo è conclusa”. Per cui è ora il momento di “passare alla seconda, cioè quella dei passaggi giuridici e politici”.
Le condanne a morte emesse in luglio dal Tribunale Rivoluzionario di Urmia nei confronti di cinque detenuti politici curdi di Bokan sono state ora annullate dal Tribunale Supremo.
Ali (Soran) Ghassemi, Pezhman Soltani, Kaveh Salehi, Rizgar Beygzadeh Baba-Miri e Teyfour Salimi Baba-Miri avevano preso parte alle rivolte del movimento “Jin, Jiyan, Azadî” nel 2023.
In realtà la decisione non sarebbe quella definitiva. Infatti, stando a un comunicato della Rete dei Diritti Umani del Kurdistan (KHRN), il caso sarebbe stato assegnato al Tribunale Rivoluzionario di Mahabad per un riesame e quindi è previsto un nuovo processo.
Nel giudizio ora contestato di Urmia, i cinque venivano accusati di “inimicizia contro Dio (Moharebeh), insurrezione armata (baghi), appartenenza a una organizzazione criminale, collaborazione con il Mossad, propaganda contro lo Stato, spionaggio e contrabbando”. In sintesi, di aver “attentato contro la sicurezza dello Stato”.
Probabilmente alla rimessa in discussione del verdetto hanno contribuito le indignate proteste di familiari e amici dei condannati, oltre alle iniziative delle associazioni per i Diritti Umani. Una campagna di solidarietà estesa con petizioni e manifestazioni che richiedeva l’annullamento della sentenza.
Un caso a parte quello di Pezhman Soltani, accusato anche di aver preso parte a un omicidio, in quanto i familiari della vittima avevano accettato il “prezzo del sangue” (di’e) in denaro e rinunciato all’esecuzione della condanna a morte.
Nel medesimo processo altri militanti curdi di Bokan erano stati condannati a pene meno severe per “partecipazione a gruppi dell’opposizione, propaganda, spionaggio, insulti al governo…” .
Sette sono tornati in libertà sotto cauzione, mentre un altro imputato, Salahuddin Ahmadi, veniva assolto.
Stando alle dichiarazioni di alcune associazioni per i diritti umani molti di loro sarebbero stati sottoposti a torture e pressioni psicologiche per ottenere confessioni.
Le Guerriere per l’Amazzonia hanno tra i 10 e i 20 anni e lottano per proteggere il loro popolo dai fumi tossici e dal degrado ambientale. Da decenni infatti le comunità dell’Amazzonia settentrionale ecuadoriana sono afflitte da emissioni tossiche, odori insopportabili, rumori incessanti e fiamme accecanti provenienti dalla combustione di gas in torce (tra i principali fattori che contribuiscono alla crisi climatica).
Pur avendo vinto una causa contro lo Stato dell’Ecuador, dopo ormai quattro anni le autorità – locali e nazionali – continuano a ignorarlo e la grave situazione è rimasta sostanzialmente immutata.
Questo il loro appello (ricevuto tramite Amnesty International):
“Siamo le Guerriere per l’Amazzonia, un movimento di giovani ecuadoriane che lottano per l’Amazzonia, la nostra casa, e per il futuro di tutte le persone.
Siamo cresciute accanto alle torce di gas che, da oltre mezzo secolo, portano morte, distruzione e povertà. Le fiamme di questi mostri illuminano le nostre notti, devastando la terra e inquinando l’aria, l’acqua e il futuro. Le torce sono delle bombe a orologeria perché rilasciano metano e altri inquinanti che riscaldano l’atmosfera e contribuiscono ai disastri climatici.
Nel 2020 abbiamo intentato una causa contro lo stato ecuadoriano. E abbiamo vinto. Nel 2021 una sentenza storica ha ordinato al governo di eliminare l’uso delle torce a gas. Eppure, i mostri di fuoco continuano a bruciare”.
Infatti anche quest’anno, il 30 gennaio 2025, la Corte Constitucional de Ecuador aveva respinto una acción extraordinaria de protección inoltrata dalle “Guerreras por la Amazonia”, sostenute dalla Unión de Afectados por Texaco (UDAPT) e dal collettivo “ Eliminen los Mecheros, Enciendan la Vida”.
Ignorando di fatto la sentenza risalente al 2021 che prescriveva l’eliminazione delle torce a gas nell’Amazzonia ecuadoregna (in particolare dalle vicinanze dei centri abitati), la riparazione dei danni ambientali e il ripristino del diritto a un ambiente salubre e alla salute. Da segnalare che da parte di Amnesty International veniva messa in discussione la definizione di “centro abitato” e la misura delle distanze dalle torce.
Un espediente con cui le autorità hanno di fatto soltanto simulato la realizzazione delle prescrizioni della sentenza.
Per l’esponente di UDAPT Pablo Fajardo: “Las accionantes y el equipo jurídico que las acompañamos en el proceso demostramos cómo la sentencia de la Corte de Sucumbíos, tienen grandes vacíos y ambigüedades que son falencias que le han permitido al Estado, incluyendo a los Ministerios de Energía y Minas, de Salud Pública, y del Ambiente, Agua y Transición Ecológica, usar artimañas para evadir el cumplimiento de la sentencia. Los jueces de la Corte Constitucional, con su fallo, solo han prolongado la vulneración de los Derechos Constitucionales de las accionantes y de la población amazónica”.
Già in gennaio anche Ana Piquer, responsabile per le Americhe di A.I. aveva contestato la decisione, definita “lamentable” (deplorevole) della Corte Constitucional de Ecuador. Dato che così si consentiva all’Ecuador di continuare con le torce che bruciando producono gas tossici a scapito delle comunità contribuendo inoltre al cambiamento climatico.
Quanto alle “Guerriere” non per questo demordono. Come si apprende da un loro comunicato:
“NO vamos a desmayar, no nos vamos a rendir, no nos van a vencer, que vamos a seguir luchando por nuestro futuro, por nuestra vida, por nuestra tierra”.
Risaliva al 21 gennaio di quest’anno una vera e propria retata (con 35 perquisizioni a Istanbul e 13 ad Ankara) di militanti di sinistra che portava in carcere decine di persone con l’accusa di “appartenenza a una organizzazione terrorista” (a seguito di un’inchiesta sul Partito comunista marxista-leninista – MLKP). In questi giorni (fine ottobre) il tribunale ha emesso le prime sentenza. Hatice Deniz Aktaş (copresidente del Partito Socialista degli Oppressi -ESP) e Ebru Yiğit (esponente dell’Assemblea delle donne socialista – SKM) sono state condannate a 17 anni e un mese e sei mesi . Vent’anni per la socialista Mert Unay e 14 anni e sette mesi per un altra militante di sinistra, Nurcan Güllubudak.
In gennaio 34 persone (dirigenti politici, giornalisti, semplici militanti…) venivano arrestate con l’accusa di appartenenza (e di propaganda) a un’organizzazione terrorista, appunto il MLKP (Marksist-Leninist Komünist Partisi). Illegale in Turchia è noto per aver inviato molti dei suoi militanti in Rojava a fianco dei curdi delle YPG (v. l’assedio di Kobane).
Aveva anche formato una Brigata Internazionale (con volontari spagnoli, tedeschi…oltre che turchi) sul modello di quelle operanti nella Guerra civile spagnola. Partecipando alla difesa della minoranza yazida di Sinjar in Iraq.
In gennaio, tra gli altri, erano stati arrestati anche Berfin Polat, copresidente della Federazione dei club della gioventù socialista (SGDF) e Züleyha Müldür, corrispondente dell’agenzia di stampa Etkin (ETHA).
A Istanbul venivano inoltre perquisiti (con prelievo di materiale informativo) la sede della BEKSAV (Fondazione per la ricerca scientifica, educativa, estetica, culturale e artistica) e lo studio utilizzato dal collettivo musicale di sinistra Grup Vardiya.
Un’operazione che si inquadrava nella vasta campagna di repressione che nel corso degli ultimi anni ha portato all’arresto di centinaia di dissidenti, giornalisti, attivisti…
Repressione che – attraverso le estradizioni – ha colpito anche due oppositori iraniani, intercettati e arrestati un mese fa in Turchia mentre cercavano di raggiungere l’Europa per chiedere asilo politico .
Si tratta di Omid Qazvini, esponente del partito di sinistra Komala, e di Mohammadreza Elmi (da tempo sottoposto a minacce e angherie da parte dei servizi iraniani).
Il 17 ottobre sono stati espulsi verso il Kazakhstan e ora si trovano in arresto all’aeroporto in attesa di venir trasferiti in Iran (come è già stato loro comunicato dalle autorità)
Di segno relativamente opposto la notizia della (per quanto tardiva) liberazione il 16 ottobre di sei (su otto) prigionieri politici curdi rinchiusi da oltre 30 anni nella prigione di Bolu. Altri due invece (nonostante abbiano da tempo scontato la pena) rimangono ancora dietro le sbarre del famigerato carcere di massima sicurezza.
Sempre verso la metà di ottobre è tornato in libertà (provvisoria) anche il militante curdo Nihat Asut incarcerato in Germania (Amburgo) con l’accusa di appartenenza al PKK. In attesa del processo, previsto per novembre, verrà sottoposto a severe restrizioni. Oltre a non poter lasciare la Germania, dovrà presentarsi al commissariato due volte alla settimana e soprattutto non potrà partecipare a nessuna iniziativa del KCK (Koma Civakên Kurdistanê, Unione delle Comunità del Kurdistan), considerata una “organizzazione-ombrello” di tutte le associazioni, partiti, movimenti che fanno riferimento al Confederalismo democratico.
Come i grani di un rosario. Continua incessante il calvario dei prigionieri politici curdi, turchi, iraniani…
Tanto che – come il Guccini di sessanta anni fa (ma parlava d’altro, di incidenti stradali) vien da chiedersi “…vorrei sapere a che cosa è servito…”.
Intendo lottare, patire la repressione, dare l’assalto al cielo…
Non sapendo per ora rispondere adeguatamente, proseguo nella modesta (forse inutile?) denuncia di quanto è avvenuto in questi ultimi tempi – tristi e cupi – nelle galere di Ankara e di Teheran.
Cominciamo dalla morte della prigioniera politica curda Somayeh Rashidi. Arrestata nella capitale iraniana, nel quartiere di Javadiyeh, il 24 aprile per aver scritto slogan anti regime sui muri della città. Colpita con calci e pugni al capo, al volto, alle gambe e all’addome. Inoltre la sua testa veniva violentemente sbattuta contro un muro e un agente l’aveva premuto a lungo e con forza sul petto con un ginocchio impedendole quasi di respirare.
Accusata di “propaganda contro lo Stato”, veniva inizialmente rinchiusa per alcuni giorni nel centro Agahi 15 Khordad di Teheran (subendo ulteriori violenze e torture). Poi trasferita nell’ormai internazionalmente noto carcere di Evin e infine, dopo i bombardamenti israeliani, in quello di Qarchak (a Veramin). Nonostante da mesi soffrisse di ripetuti attacchi epilettici (probabile conseguenza delle percosse subite al momento dell’arresto), è stata mantenuta in prigione fin quasi alla fine dei suoi giorni. Addirittura i medici del carcere l’accusavano di “simulare una malattia” prescrivendole soltanto sedativi e sarebbe stata nuovamente picchiata durante una crisi.
Soltanto quando le sue condizioni di salute apparivano irreparabilmente compromesse, la militante curda veniva sottoposta a esami medici (stando a quanto riporta l’agenzia curda Mezopotamya “non approfonditi”). Per il comunicato emesso dalle autorità penitenziarie sarebbe stata diagnosticata una (del tutto presunta, improbabile) “tossicodipendenza”.
Favorendo così un ulteriore deterioramento delle sue condizioni e portandola – dopo undici giorni di una tardiva e ormai inutile terapia intensiva all’ospedale Mefteh – al coma e infine alla morte.
L’ennesimo decesso di un prigioniero politico malato per la negligenza istituzionale e per mancanza di cure adeguate. L’ultimo risaliva a qualche giorno prima quando (come denunciato dall’Organizzazione iraniana per i diritti umani) Jamila Azizi aveva perso la vita nelle stessa prigione in circostanze analoghe.
Contemporaneamente in Turchia prosegue lo sciopero della fame di decine di prigionieri politici della sinistra rivoluzionaria che richiedono la chiusura delle prigioni di tipo S, R e Y (quelle denominate “pozzi”).
Uno di loro, Serkan Onur Yılmaz (rinchiuso nella prigione di tipo F di Bolu e giunto al 318° giorno di “digiuno fino alla morte”) è stato trasferito e ospedalizzato per decisione dell’amministrazione penitenziaria. Forse per essere sottoposto all’alimentazione forzata (definita da Amnesty International una forma di tortura).
Ancora pienamente cosciente e consapevole, Serkan Onur Yilmaz si è opposto a tale decisione. Vari presidi di solidarietà si stanno ora svolgendo davanti alle ambasciate turche in varie città europee, in particolare a Parigi.
Invece un altro prigioniero politico, il curdo Ali Haydar Elyakut (condannato all’ergastolo nel 1993, all’età di 17 anni e ultimamente detenuto nel carcere di tipo T di Karabük) è tornato in libertà dopo 32 anni trascorsi nelle prigioni di Diyarbakır, İzmir Şakran, Semsûr, Amasya, Kırıkkale, Ankara e Karabük.