#Kurds #Repressione – SE 42 ANNI VI SEMBRAN POCHI…. – di Gianni Sartori

La condanna a 42 di carcere per Selahattin Demirtas suona come una ritorsione del sultano-presidente e un’ingiuria alla dignità umana.

Un palese insulto, prima ancora che ai diritti umani, al semplice buonsenso. Questo si può dire della condanna a 42 anni di carcere per il prigioniero politico Selahattin Demirtas (in prigione dal 2016). Tanto che perfino i media occidentali, in genere piuttosto restii – soprattutto negli ultimi tempi – a criticare Erdogan e il suo governo islamista alleato dell’estrema destra, sono intervenuti. Accusato di “attentato all’integrità dello stato”, “incitamento a commettere crimine”, “propaganda terroristica” e varie amenità, in realtà le “colpe” di Demirtas sono ben altre.

Aver sostenuto le proteste di massa del 2014 per l’attacco e l’assedio di Daesh (supportato da Ankara) alla città siriana di Kobane.

Proteste costate la vita a decine di persone, uccise sia dalle forze di sicurezza turche, sia – presumibilmente – da miliziani salafiti.

A tale proposito il partito DEM aveva emesso questo comunicato:

“Nel 2014, con l’Isis sul punto di prendere il controllo della città di Kobane, sono scoppiate proteste massicce e democratiche in tutto il mondo, anche in molte città della Turchia. Durante queste proteste, 46 civili, 34 dei quali erano membri e sostenitori dell’HDP, sono stati uccisi da gruppi pro-Isis, su provocazione delle forze di sicurezza turche. Nonostante la decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che ha chiarito che l’HDP non può essere considerato responsabile delle violenze, l’attuale governo ha continuato ad avviare un procedimento giudiziario contro i membri esecutivi dell’HDP, compresi i co-presidenti Figen Yüksekdağ e Selahattin Demirtaş. Gli imputati hanno confutato tutte le accuse, ma la corte ha proseguito i processi sotto chiara influenza politica. L’illecito giudiziario è stato evidente fin dall’inizio, quando si è scoperto che il giudice iniziale era membro di un’organizzazione criminale, ed è stato palese in ogni momento. La Corte ha ingiustamente condannato molti politici dell’HDP sulla base di accuse infondate.”

E comunque la “colpa” più grave di Demirtas e dei sui compagni è stata quella aver osato fondare un partito democratico di sinistra. Il Partito Democratico del Popolo (HDP) in grado di attirare consensi anche da una parte dell’elettorato non curdo, ottenendo ben sei milioni di voti (80 seggi su 550). Una forza politica diventato in breve tempo il terzo “incomodo” nel Parlamento. Spezzando di fatto il controllo esercitatovi da Recep Tayyip Erdogan fin dal 2015. Tanto da dover ricorrere a elezioni anticipate per riconquistarlo (alleandosi con l’estrema destra islamista, quella dei “Lupi Grigi”). Messo al bando per pretestuosi “legami con il terrorismo” (leggi con il PKK), HDP è stato sostituito in Parlamento dal partito DEM (Partito per l’Uguaglianza e la Democrazia dei Popoli). Dal canto suo, dopo la sconfitta del candidato dell’opposizione (da lui appoggiato) al ballottaggio delle ultime presidenziali, Demirtas si è ufficialmente dimesso dalla politica attiva pur continuando “la lotta con tutti miei compagni di prigione”.

Rinchiuso nel carcere di Edirne, in questi giorni l’ex co-presidente di HDP ha potuto incontrare (per circa tre ore) i co-presidenti del partito DEM, Tülay Hatimoğulları e Tuncer Bakırhan che il giorno prima avevano incontrato Figen Yüksekdağ (ex vice segretaria di HDP e condannata a 30 anni e 3 mesi) nella prigione di Kandıra.

Denunciando l’ennesimo atto di repressione contro il dissenso (il verdetto del Caso Kobane), Tülay Hatimoğulları ha ricordato che “i nostri compagni sono stati condannati a secoli di prigione. Lo abbiamo già detto molte volte e lo diciamo ancora. Il caso della “Cospirazione Kobane” è un caso di vendetta puramente politica. Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, in passato nostri co-presidenti, sono stati condannati a pene molto pesanti. Nel contempo i rivoluzionari socialisti di sinistra che avevano espresso solidarietà al popolo curdo, i rivoluzionari che cercavano una soluzione alla questione curda con metodi democratici e pacifici, i rivoluzionari che peroravano in favore della lotta democratica unitaria furono ugualmente condannati a lunghe pene (…).

Queste le sentenze (considerate illegali dal Partito DEM):

1) SELAHATTİN DEMİRTAŞ (Copresidente dell’HDP) 42,5 anni di reclusione

2) FİGEN YÜKSEKDAĞ (copresidente dell’HDP) 30 anni e 3 mesi di reclusione

3) ALP ALTINÖRS (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione

4) NAZMİ GÜR (Vice copresidente per gli affari esteri e membro dell’APCE) 22,5 anni di reclusione

5) ZEKİ ÇELİK (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione

6) ZEYNEP KARAMAN (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione

7) PERVİN ODUNCU (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 22,5 anni di reclusione

8) GÜNAY KUBİLAY (Presidente e membro del consiglio esecutivo di HDP) 20,5 anni di reclusione

9) İSMAİL ŞENGÜL (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 20,5 anni di reclusione

10) DİLEK YAĞLI (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 20 anni di reclusione

11) BÜLENT PARMAKSIZ (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 18 anni di reclusione

12) ALİ ÜRKÜT (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 17 anni di reclusione

13) CİHAN ERDAL (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 16 anni di reclusione

14) GÜLTAN KIŞANAK (Sindaco della municipalità metropolitana di Diyarbakir) 12 anni di reclusione

15) SEBAHAT TUNCEL (ex deputato e membro esecutivo dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 12 anni di reclusione

16) ZEYNEP ÖLBECİ (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 11,5 anni di reclusione

17) AHMET TÜRK (Sindaco della municipalità metropolitana di Mardin) 10 anni di reclusione

18) EMİNE AYNA (ex parlamentare e membro dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 10 anni di reclusione

19) AYLA AKAT ATA (ex parlamentare e membro esecutivo dell’Assemblea delle donne dell’HDP) 9 anni e 9 mesi di reclusione

20) AYNUR AŞAN (Membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione

21) AYŞE YAĞCI (Membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione

22) MERYEM ADIBELLİ (membro del comitato esecutivo dell’HDP) 9 anni di reclusione

23) MESUT BAĞCIK (membro dell’Assemblea HDP) 9 anni di reclusione

24) NEZİR ÇAKAN (Membro del comitato esecutivo dell’HDP) 9 anni di reclusione

Coincidenza non certo casuale, tale sentenza è piombata in contemporanea con il viaggio del ministro degli esteri Hakan Fidan in Iraq. Per ottenere la definitiva messa la bando del PKK, sia da parte del governo centrale, sia da quello regionale curdo di Erbil (sotto la guida del PDK di Barzani).

Gianni Sartori

#War #Opinioni – LA TERZA GUERRA MONDIALE? MA E’ IN CORSO DA TEMPO – di Gianni Sartori

Un documento dell’Accademia della Modernità Democratica parla esplicitamente di Terza Guerra Mondiale già in atto

O almeno è quanto si sosteneva in una brochure di 38 pagine (“Possibilità e pericoli della terza guerra mondiale”) pubblicata in gennaio dall’Accademia della Modernità Democratica.

Sempre, beninteso che non si tratti ormai della quarta (ricordate quanto diceva negli anni novanta il comandante Marcos?).

Tale Accademia (https://democraticmodernity.com/) si presenta come“un organismo autonomo di investigazione, riflessione e diffusione della lotta del popolo Curdo”. Nel documento si considerano vari ambiti e aspetti (teorici, politici, strategici…) con cui analizzare l’attuale “complessa crisi di civilizzazione” attraversata dal genere umano. Senza escludere il rischio di una possibile sua estinzione.

Partendo dal presupposto che in realtà “la terza guerra mondiale è già in corso”, pur differenziandosi dalle due precedenti. In quanto si sviluppa sia sul piano geografico- temporale che nei metodi, almeno apparentemente, attraverso una molteplicità di conflitti indipendenti tra loro (sempre apparentemente). A corrente alternata, sia per intensità che per localizzazione.

Il documento individua cinque elementi costituivi, veri indicatori:

a) guerre di lunga durata a (relativamente) bassa intensità (v. Afghanistan, Somalia, Libia, Siria, Irak, Yemen, Ucraina…). Conflitti nel corso dei quali vengono distrutti non solo le strutture statali, ma anche il tessuto sociale stesso;

    b) guerre economiche attraverso l’imposizione di dazi, divieti di importazione, sanzioni globali…con cui i vari contendenti cercano di piegarsi vicendevolmente. A tal fine alcuni Stati (Cina, Russia Unione Europea, Stati Uniti, Gran Bretagna…) farebbero uso di molteplici strumenti (economici, mediatici, politici, militari…senza escludere quelli biologici);

    c) alleanze flessibili (a “geometria variabile”, già sperimentata nella strumentalizzazione di alcuni movimenti indipendentisti) a livello sia militare che economico e politico. Vedi il conflitto in Ucraina tra USA e Russia, mentre in Siria le due potenze non esitano coordinarsi a livello militare (in particolare contro Isis e tenendo relativamente sotto controllo, molto relativamente, la pressione di Ankara).

    4) l’uso dei mezzi di comunicazione come arma ideologica (ma questa non è certo una novità) favorendo una generale omogeneizzazione (e omologazione) di abitudini, culture, stili di vita.

    5) ormai parte integrante di questa terza guerra mondiale (almeno potenzialmente, ma in parte già utilizzate) anche la guerra biologica, la guerra chimica, le armi nucleari tattiche…

    Per concludere ricordando la recente epidemia di Covid-19, funzionale all’ulteriore deterioramento della coesione sociale e delle possibilità di autogoverno popolare a causa della paura, della diffidenza generalizzata, della mancanza di sicurezza. Sul ciglio del precipizio, masse ormai totalmente sotto vigilanza tecnologica, isolate e sradicate, sotto controllo e impossibilitate a comprendere (non parliamo di opporsi) le strategie di militarizzazione poste in atto dagli Stati.

    Una visione troppo pessimista, catastrofista?

    Ovviamente la percezione di quanto sta accadendo (o meglio: è già accaduto) è diversa per chi vive quotidianamente sotto le bombe, esposto alle aggressioni di eserciti e milizie. Sarebbe comunque il caso di pensarci finché – forse – siamo ancora in tempo. E i Curdi, con la loro lunga esperienza, avrebbero qualcosa da insegnarci.

    Gianni Sartori

    #Kurds #Europa – LO SPETTRO DEL MIT ALEGGIA ANCORA SU RUE LA-FAYETTE… – di Gianni Sartori

    Per François Hollande il massacro di tre donne curde in rue Lafayette, a Parigi nel 2013, è stata un’operazione in cui era implicato lo Stato turco

    Sicuramente sa di cosa parla. Il 15 maggio, l’ex presidente francese François Hollande, interpellato da uno studente curdo durante un incontro nel campus dell’Université Bretagne Sud di Lorient, ha chiaramente espresso il suo pensiero in merito all’assassinio di tre militanti curde a Parigi il 9 gennaio 2023.
    Ossia delle femministe Sakine Cansiz (Sara), Fidan Dogan (Rojbîn) e Leyla Soylemez (Ronahî).
    Per Hollande “si è trattato dell’intervento di uno Stata straniero, membro della NATO e candidato all’adesione all’Unione europea”. Più chiaro di così!
    Aggiungendo che “la situazione era ancor più grave in quanto si trattava di un’operazione di cui non sappiamo esattamente a che livello dello Stato turco sia stata decisa”. Un’operazione in cui comunque era riconoscibile “l’intervento di agenti operativi (fuori dai denti: dei servizi segreti turchi, il MIT nda) che hanno contribuito all’assassinio di una delle maggiori personalità curde in Francia”. Forse un riferimento, più che a Sakine Cansız (tra i fondatori del PKK), a Fidan Doğan. Infatti, stando alle testimonianze della diaspora curda e di alcuni politici francesi, la rappresentante del KNK a Parigi (su cui l’assassino aveva infierito sparandole in bocca, come ha ricordato lo stesso Hollande) aveva incontrato François Hollande almeno tre volte mentre era segretario del Partito Socialista. Mantenendo anche in seguito contatti regolari con Hollande e altre autorità politiche francesi. Così come era ben nota al Parlamento europeo dove in diverse occasioni aveva raccolto le adesioni dei parlamentari per iniziative di solidarietà con il popolo curdo. Inoltre Hollande avrebbe incontrato pochi giorni prima della strage di Rue la Fayette anche Leyla Soylemez in qualità di rappresentante della Gioventù curda.
    Già all’epoca del triplice assassinio Hollande aveva dichiarato pubblicamente di conoscere bene una delle donne ammazzate (facendo ovviamente incazzare Erdogan).
    Nel suo incontro con gli studenti l’ex presidente francese ha poi evidenziato “l’ambiguità della politica turca”: membro della NATO mantiene buone relazioni con Mosca, vende armi all’Ucraina mentre contemporaneamente è recalcitrante in materia di sanzioni alla Russia…
    Per non parlare della strumentalizzazione della questione dei migranti, usati come moneta di scambio con l’Europa.
    Come è noto circa dieci anni dopo il tragico copione si è ripetuto, sempre a Parigi.
    Il 23 dicembre 2022 Emine Kara (Evîn Goyî), dirigente del Movimento delle donne curde, l’artista curdo Mehmet Şirin Aydın (Mîr Perwer) e un altro curdo, Abdurrahman Kızıl, venivano assassinati davanti al Centro culturale curdo rue d’Enghien.
    L’autore dell’atto terroristico, William Malet, veniva catturato da alcuni lavoratori curdi mentre era in procinto di compiere altre uccisioni in un negozio curdo di parrucchiere.
    Il suo gesto veniva classificato unicamente come un “atto razzista”. Ma recentemente nel corso di una perquisizione in un locale lui intestato in rue Bachaumont (2° arrondissement) è stato rinvenuto un autentico arsenale. Rinnovando il sospetto che si sia trattato di un atto terroristico pianificato e organizzato (probabilmente con l’ausilio di altri complici).
    Tra le armi rinvenute, un fucile d’assalto svizzero SIG STG 57, un giubbotto anti-proiettile, un visore notturno e diverse armi bianche (oltre a centinaia di proiettili).
    Del resto nel corso degli interrogatori Malet aveva ammesso di aver pianificato un massacro di ben più ampia portata (sempre ai danni dei curdi) a Saint-Denis. Progetto sfumato in quanto, smontando il fucile d’assalto, il calcio si era staccato e non era più riuscito a reinserirlo.
    Per il portavoce del CDK-F, Agit Polat, fin dal primo memento “abbiamo insistito sulla natura politica di questo attentato terrorista. Denunciando l’esistenza di mandanti. E ora la pista dei complici si va concretizzando”.

    Gianni Sartori

    #Kurds #Turkey – ULTIME CARTOLINE DAL KURDISTAN – di Gianni Sartori

    elaborazione immagine @ Ilyas Akengin/AFP

    PER NON DEMORALIZZARE I SOLDATI E I LORO FAMILIARI, L’ESERCITO TURCO DISSIMULA SISTEMATICAMENTE IL NUMERO DELLE PROPRIE PERDITE

    Chissà cosa raccontano i loro comandanti alle truppe mandate allo sbaraglio nelle zone della guerriglia curda. “Poveri cristi” anche loro, presumibilmente inconsapevole strumento della politica sciovinista di Erdogan & C.

    E chissà poi cosa dicono ai familiari, alle madri, quando ne devono annunciare la morte in battaglia….

    Quello che sembra assai probabile è che le “alte sfere” fanno di tutto per tenere nascosta all’opinione pubblica la reale portata del conflitto (stavo scrivendo “a bassa intensità”, ma sarebbe quantomeno riduttivo).

    Da parte sua la guerriglia curda delle HPG (Forze di difesa del popolo) sostiene di aver inflitto perdite consistenti all’esercito turco. Sarebbero stati 861 i soldati uccisi e 128 i feriti nel 2021. Ben 2 942 quelli uccisi (tra cui 26 ufficiali superiori) e 408 feriti nel 2022.

    Almeno altri 919 militari uccisi (tra cui sette di alto grado) e 128 feriti nel 2023. Per il 2024 si parla di oltre un centinaio di soldati uccisi nei primi tre mesi.

    Si tratta ovviamente di uomini caduti in combattimento di cui i guerriglieri forniscono regolarmente i documenti di identità con le generalità dei caduti.

    Invece lo Stato turco, vedendosi costretto a nascondere o dissimulare tali cifre, li classifica (più o meno fantasiosamente) come “morti durante l’addestramento” oppure “colpiti da un fulmine”, “smarriti andando alla moschea”, “caduti un precipizio” e soprattutto “suicidi”.

    Quest’ultimo, probabilmente, rappresenta il dato maggiormente veritiero. Soprattutto tenendo conto delle pessime condizioni in cui versano i soldati nelle caserme turche.

    Vittime spesso di bullismo (quello pesante da caserma, il nostro “nonnismo”), mal nutriti, maltrattati e disprezzati,  costretti a lavori pesanti (o magari utilizzati come domestici dai loro comandanti, tutto il mondo è paese).

    Nelle operazioni di controguerriglia, sia negli attacchi che nei rastrellamenti, sanno di poter cadere uccisi in qualsiasi momento. E anche chi riesce a rientrare dal fronte, con la propria testimonianza contribuisce ad abbattere ulteriormente il morale dei commilitoni.

    Se solo riuscissero a comprendere che il loro “nemico”, i guerriglieri curdi, in realtà stanno lottando anche per loro, anche per la liberazione delle masse popolari turche…forse avrebbero il coraggio di fare l’unica scelta dignitosa: disertare.

    Intanto, parallelamente al verdetto vergognoso emesso contro il popolo curdo nell’affaire “Kobane”, il regime di Ankara ha deciso di instaurare il copri-fuoco in tutte le regioni curde (nel Bakur, i territori curdi sottoposti all’amministrazione, occupazione e colonizzazione turca). Una possibile riproposizione dello stato di emergenza degli anni ’90 quando l’esercito turco si abbandonò a ogni genere di brutalità contro la popolazione curda (tra l’altro incendiando e svuotando oltre 4mila villaggi)

    Divieto assoluto di riunione e di manifestazione sia a Diyarbakir (Amed) che a Batman (Elih), Siirt (Sêrt), Bingol, Van, Sirnak, Dersim, Mardin, Agri…

    Tuttavia, nonostante i divieti e la repressione, gruppi di giovani curdi hanno manifestato nel corso delle ultime notti sia a Diyarbakir che nella provincia di Adana.

    Gianni Sartori

    #Kanaky #StopColonialismo – NUOVA CALEDONIA IN RIVOLTA – di Gianni Sartori

    elaborazione immagine @ AP – Nicolas Job

    NUOVA CALEDONIA: ANCHE I VESCOVI A FAVORE DELL’AUTODETERMINAZIONE, MA SI EVOCANO STRUMENTALIZZAZIONI NIENTEMENO CHE DA PARTE DELL’AZERBAIJAN (NOTORIAMENTE NON ESATTAMENTE IL MASSIMO IN MATERIA DI AUTODETERMINAZIONE DEI POPOLI). UN NUOVO CASO CASO DI “INDIPENDENDENZA A GEOMETRIA VARIABILE”?

    Nonostante cinque giorni – e soprattutto cinque notti – di scontri e almeno tre vittime, il 17 maggio le autorità locali mostravano sicurezza parlando di “una situazione più tranquilla”. Ma dovendo escludere almeno tre quartieri “fuori controllo” di Nouméa (Kaméré, Montravel e la Vallée du Tigre). Dove fino a quel momento le forze di polizia (forse in attesa di nuovi rinforzi) non erano ancora entrate.

    Già mercoledì il governo aveva annunciato l’invio di un primo migliaio di membri delle forze dell’ordine (in aggiunta ai circa 1700 già sul posto).

    Al momento i blindati pattugliano le “zone calde” sia per consentire la ripresa del traffico veicolare, sia per evitare scontri tra gli indipendentisti e i “gruppi di autodifesa” della destra locale filo-francese.

    Le proteste proseguono “a macchia di leopardo”, così come saccheggi, vandalismi e incendi.

    Nel frattempo rimangono in vigore i divieti per le riunioni, il trasporto di armi e la vendita di alcool. Così come il coprifuoco (dalle 18h alle sei del mattino). Situazione comunque non risolte, preoccupante, se già si parla di “penuria di scorte alimentari”.

    Si parva licet, alcune centinaia di turisti rimasti bloccati tra Nouméa e alcune isole. Anche perché all’aeroporto di La Tontoufa, sotto il controllo dei soldati, sono stati sospesi tutti i voli commerciali (almeno fino alla prossima settimana). 

    Hanno suscitato un certo scalpore le accuse esplicite di “ingerenza” nei confronti dell’Azerbaijan formulate dal ministro dell’Interno francese, Gérald Darmanin. 

    Ovviamente vien da chiedersi quali siano gli interessi di Baku per un arcipelago a circa 14mila chilometri di distanza.

    Forse, azzardo, una ritorsione per il sostegno (peraltro blando assai) all’Armenia?

    In realtà l’accusa di Darmanin in un successivo intervento (su Télématin, France 2) appariva più circostanziata: “Regimi autoritari come la Russia, l’Azerbaijan e anche la Cina approfittano della minima debolezza nelle nostre società per esasperare il dibattito e per creare caos”.

    Esprimendo comunque “rammarico per il fatto che gli indipendentisti si siano accordati con l’Azerbaijan”.

    Dello stesso avviso Raphaël Glucksmann, figlio di André Glucksmann (con Bernard-Henri Lévyi uno dei più noti tra i “nouveaux philosophes”) e candidato PS/Place Publique alle elezioni del 9 giugno.

    Per l’eurodeputato (che ha presieduto una commissione del Parlamento europeo sulle ingerenze straniere) tali infiltrazioni di Baku sarebbero attive “già da diversi mesi”. Allo scopo di “approfittare dei problemi interni per spargere sale sulle ferite e rendere ancor più tesa la situazione”. 

    La causa scatenante (ma sotto la cenere ardevano da tempo le faville) è stata sicuramente la contestata riforma elettorale con cui Parigi il 2 aprile ha approvato un disegno di legge che concede la possibilità di votare alle elezioni provinciali (nel 2025) ai francesi residenti nell’arcipelago da 10 anni. Ufficialmente per “scongelare le liste elettorale bloccati dagli Accordi di Nouméa del 1998”, ma in realtà per indebolire ulteriormente il peso politico della popolazione autoctona (già socialmente marginalizzata).

    Da segnalare che al fianco degli autonomisti e indipendentisti stavolta si sono schierati anche molti prelati ed esponenti religiosi. In un comunicato della Conferenza episcopale del Pacifico (diffusa dal segretario generale, James Shri Bhagwan) si commenta l’attuale ribellione definendola “una manifestazione della frustrazione di una comunità che ha visto costantemente minati i propri diritti indigeni e politici”.

    Per cui “la Conferenza delle Chiese del Pacifico è profondamente solidale con le nostre sorelle e i nostri fratelli di Kanak in questo momento di crisi politica che ha portato all’esplosione della violenza negli ultimi giorni”.

    Arrivando ad accusare il governo francese di “stringere più forte sulla gola del popolo Kanak, il quale continua a gridare dal profondo del cuore per ottenere la propria storia di libertà, equità e fraternità”. 

    Paventando addirittura il “rischio concreto di una guerra civile”.

    Pur dotato di un suo governo “autonomo” (almeno formalmente) , questo “Territorio d’oltremare” non ha mai cessato di rivendicare il diritto all’autodeterminazione. In particolare da parte del Fronte di liberazione nazionale kanak e socialista.

    Tuttavia in ben tre occasioni (2018, 2020 e 2022) i referendum per l’indipendenza sono stati vinti dal “NO”. Nel 2022 i gruppi indipendentisti avevano chiesto – invano, ca va sans dire – che la consultazione venisse rinviata per consentire alle famiglie Kanak e caledoniane, pesantemente colpite dal covid-19, di elaborare il lutto. Al rifiuto della Francia gli indigeni risposero con il boicottaggio “per non collaborare con il complotto del colonialismo francese”. Un riferimento alla decisione di decretare la rinuncia definitiva all’indipendenza nel caso di tre referendum successivi con la vittoria del “NO”.  

    Gianni Sartori