#8Marzo #News – 8 MARZO 2023: PER LE DONNE UNA GIORNATA DI LOTTA PIU’ CHE UNA FESTA – di Gianni Sartori

fonte immagine @Zvg

Un dubbio irrisolto: come titolare questo intervento?“Uomini che odiano le donne” appariva scontato e riduttivo (e poi anche il patriarcato – come ogni forma di dominio, di prevaricazione – può assumere anche aspetti femminili, vedi – che so – la baronessa Margaret Thatcher…).
Allora “Istituzioni – apparati – che odiano le donne”?
Nemmeno…
Resta il fatto che da Est a Ovest, da Nord a Sud (da Istanbul a Oaxaca e perfino a Winterthur) anche quest’anno l’8 marzo ha rischiato di trasformarsi nel giorno in cui alle donne vien fatta la festa.

Se in Turchia (così come in Iran) probabilmente c’era da aspettarselo e in Messico non è certo una novità, lascia perplessi quanto è avvenuto nella linda e sonnolenta Svizzera.

A Istanbul la polizia turca ha disperso con lanci di lacrimogeni una piccola folla di femministe – scese in strada in difesa dei diritti delle donne – che tentava di raggiungere il centro della città. Le manifestanti scandivano: “Noi non stiamo zitte, non abbiamo paura, non ci inchiniamo” e battevano con forza sugli scudi dei gendarmi. Un gesto ritenuto evidentemente intollerabile e che ha scatenato una dura reazione.

Scene analoghe a Bâle (Svizzera) a seguito della manifestazione – non autorizzata – per la Giornata internazionale dei diritti delle donne.
La polizia presidiava in forze la Barfüsserplatz, il luogo prescelto per il raduno, di fatto isolandola.
In alternativa le manifestanti si erano raggruppate nella piazza Saint-Pierre. Letteralmente circondate dalla polizia, ben presto si erano innescati gli scontri con ampio utilizzo di proiettili di plastica da parte delle forze dell’ordine.
Altre manifestazioni, sempre l’8 marzo e ancora non autorizzate, si sono svolte a Winterthur (dove è stato fatto uso di spray urticante contro le donne che tentavano di forzare il blocco) e a Berna.

Anche a Città del Messico, dove l’8 marzo le donne hanno sfilato a decine di migliaia, non sono mancati scontri e tafferugli. Così come a Tlaxcala dove sono state ricoperte di scritte (dopo un tentativo fallito di abbatterle) le strutture metalliche poste a protezione del palazzo del governo.
Scene di guerriglia urbana a Oaxaca (dove le manifestanti si sono introdotte all’interno degli uffici del ministero del Turismo) e a Monterrey dove sono state incendiate alcune porte e finestre del palazzo del governo di Nuevo León. Come è noto in Messico si registrano almeno dieci femminicidi al giorno e nel 95% dei casi tali delitti rimangono impuniti.

Gianni Sartori

#Africa #Neocolonalismo – BURKINA FASO SEMPRE SOTTO PRESSIONE – di Gianni Sartori

fonte immagine @ Issouf Sanogo, AFP

Ovviamente non è una novità. Dal 2015 più di 10mila persone sono state uccise in Burkina Faso mentre gli sfollati superano i due milioni.

Tuttavia sembra proprio che il 2023 si vada caratterizzando, fin dai primi giorni di gennaio, per una recrudescenza degli attacchi jihadisti nel nord del Paese. Attacchi che la presenza francese finora non ha saputo (o voluto?) contrastare adeguatamente.

Il 4 febbraio le vittime accertate di un attacco erano state diciotto. Andavano ad allungare la lista (una cinquantina in totale, uccise sia in combattimento, sia dopo essere state sequestrate) di una settimana particolarmente sanguinaria. 

Il 20 febbraio, calcolando anche quelli uccisi nei due giorni precedenti, erano oltre settanta i soldati burkinabé uccisi non lontano dalla frontiera con il Mali.

Senza dimenticare che l’8 febbraio (mentre quindici persone venivano uccise nei pressi di Kaya in un altro attacco) anche due esponenti di Medici senza frontiere (un autista e un addetto alla logistica) erano stati assassinati sulla strada tra Dédougou e Tougan.

La situazione risultava tanto grave da indurre le autorità a imporre il copri-fuoco (dalle ore 22 alle ore 5 del mattino) dal 3 al 31 marzo sia nel Nord che in altre due province esposte alle operazioni  jihadiste: Koulpelogo, nella regione del Centro-Est (alle frontiere di Ghana e Togo) e Bam, nella regione del Centro-Nord.

In questo arco di tempo viene severamente vietata la “circolazione dei veicoli a quattro e due ruote, dei tricicli e delle biciclette”. Quanto alla popolazione è invitata a “al rispetto di questa decisione e a restarsene a casa propria nelle ore e date indicate”.

In altre due province entrava in vigore un copri-fuoco più breve, dal 5 al 20 marzo. Veniva inoltre prolungato di tre mesi il copri-fuoco nelle regioni dell’Est (da mezzanotte alle 4 del mattino) decretato ancora nel 2019.

Nel frattempo le già deteriorate relazioni con Parigi subivano un ulteriore peggioramento. Il discorso di Macron del 27 febbraio non veniva apprezzato dal capitano Ibrahim Traoré che con una nota esprimeva un chiaro dissenso rispetto alla “nuova strategia africana” della Francia. Preludio ad una ulteriore, se non definitiva, rottura tra l’Esagono e la sua ex colonia. 

Migliaia di persone erano scese in piazza nella capitale Ouagadogu protestando contro l’imperialismo francese e a sostegno del governo di transizione guidato da Traoré (alcuni anche inalberando bandiere russe). Chiedendo la rapida partenza delle forze speciali francesi ancora presenti nel paese (la task force dell’operazione Saber, ufficialmente conclusa in febbraio).

Il clima incandescente non impediva il 25 febbraio l’apertura a Ouagadougou del 28° Festival panafricano del cinema e della televisione(Fespaco, biennale) con ben 170 opere in concorso. Con una certa dose di ottimismo (e nonostante i due recenti colpi di Stato, rispettivamente nel gennaio e nel settembre 2022) il tema scelto quest’anno era quella della “PACE”. Tra i Paesi partecipanti, oltre naturalmente al Burkina Faso, Camerun e Tunisia con due film ciascuno. Presenti anche Nigeria, Mozambico, Angola, Kenya, Senegal, Egitto, Algeria, Maurizio, Marocco e anche Repubblica Dominicana.

Alcuni film sono stati presentati in altre località (Kaya, Dédougou…) dove vivono molti sfollati dalle zone sotto il tiro jihadista per dar loro la possibilità di partecipare.

Gianni Sartori

#Kurds #Iran – LIBERTA’ PER LA PRIGIONIERA POLITICA CURDA ZEYNAB JALALIAN – di Gianni Sartori

Riproduco interamente l’appello di Amnesty Intarnational per la prigioniera politica curda Zeynab Jalalian, riprendendo anche parte di alcuni dei miei interventi degli anni passati, rimasti, ca va sans dire, inascoltati, ma che possono rendere l’idea di quale calvario abbia subito questa donna curda.

“Zeynab Jalalian, 41 anni, è un’attivista curda iraniana che si batte per l’emancipazione delle donne e delle ragazze della sua minoranza oppressa. A causa delle sue attività sociali e politiche è detenuta ingiustamente già da 15 anni. Sta scontando l’ergastolo nella prigione di Yazd, nell’omonima provincia, a 1400 km dalla sua famiglia, residente nella provincia dell’Azerbaigian occidentale, il che rende estremamente difficili le visite dei suoi anziani genitori. È stata ripetutamente sottoposta a torture e maltrattamenti.

È in carcere dal marzo 2008, quando è stata arbitrariamente arrestata da agenti della sicurezza. Giudicata colpevole del reato di “inimicizia contro Dio” (moharebeh) e condannata a morte in relazione alle sue attività nell’ala politica del Partito per la vita libera del Kurdistan (Pjak), un’organizzazione armata. Le sue attività riguardavano l’emancipazione delle donne curde e l’autodeterminazione dei curdi. Nel dicembre 2011, a seguito di un provvedimento di clemenza della Guida suprema, la sua condanna a morte è stata commutata in ergastolo.

Zeynab Jalalian è una delle donne detenute da più tempo per motivi politici e deve essere scarcerata immediatamente”.

Nel novembre 2020 scrivevo “Non dico che l’abbiano creato e fatto circolare appositamente, ma sicuramente il Covid-19 si sta rivelando alquanto funzionale al potere(…)

nell’eliminazione fisica dei soggetti “non produttivi” (…), delle minoranze comunque scomode (…) e ovviamente dei prigionieri politici. Emblematico che in Turchia siano stati rimessi in libertà (anche se provvisoria) fior fiore di delinquenti mentre rimanevano in galera i militanti curdi e della sinistra rivoluzionaria turca”.

Citando come caso esemplare proprio quello della ella prigioniera politica curda Zeynab Jalalian di cui mi ero già occupato qualche mese prima in occasione del suo sciopero della fame (estate 2020) per essere riportata nella prigione di Khoy.

Il 10 ottobre 2020,malata appunto di Covid19, erastata trasferita dalla sezione femminile della prigione di Kermashan alla prigione di Yazd. In soli sei mesi questo era il quarto suo trasferimento. 

Militante per i diritti delle donne, Zeynab Jalalian veniva arrestata nel 2008, stata duramente picchiata dai militari che l’avevano catturata sulla strada tra Kermanshah e Sanandaj. 

Nel gennaio 2009 era stata condannata a morte dal tribunale “rivoluzionario” di Kermanshah (un processo durato pochi minuti, senza prove sostanziali nei suoi confronti) per presunta appartenenza al PJAK (Partiya Jiyana Azad a Kurdistane – Partito per una vita libera in Kurdistan), accusa da lei sempre rigettata. Tra l’altro, stando alle sue dichiarazioni, sarebbe stata ripetutamente torturata proprio come ritorsione per il suo rifiuto di autoaccusarsi pubblicamente di appartenenza al PJAK.

Due anni dopo la sua pena venne convertita in ergastolo dalla corte d’appello, presumibilmente anche per le proteste internazionali.

Dell’ennesimo trasferimento era riuscita a informare i familiari nel corso di una brevissima telefonata – due minuti – durante la quale li informava di essere stata nuovamente minacciata di torture.

Prima di Kermanshah, per circa tre mesi era stata rinchiusa in un carcere a oltre mille chilometri di distanza da dove vivono i suoi parenti. Con tutte le immaginabili difficoltà per poterla visitare. Prima ancora, fino all’aprile 2020, si trovava nella prigione di Qarchak a Varamin, non lontano da Teheran e a Khoy.

Nel corso di tali trasferimenti era stata contagiata dal virus e – a causa delle catene – aveva riportato ferite ai polsi e alle caviglie. Ferite che – non essendo mai state curate – le stavano causando infezioni e acute sofferenze.

All’epoca soffriva di gravi infezioni, di problemi renali e stava perdendo la vista. Oggettivamente un soggetto a rischio in quanto il Covid19 risulta particolarmente pericoloso per la vita delle persone già colpite da altre patologie.

Tuttavia le autorità carcerarie iraniane rifiutavano qualsiasi visita specialistica così come non consentivano che potesse venir curata fuori dal carcere.

In compenso, come ad altri prigionieri politici, le veniva offerta la possibilità di un pubblico pentimento (alla televisione). In cambio, forse, di cure più adeguate.

Qualche mese dopo, nel febbraio 2021, raccoglievo altre informazioni che confermavano quanto temevo. Ossia che loStato iraniano di fatto applicava nei confronti di Zeynab una subdola forma di tortura. Venivano sistematicamente rifiutate quelle cure indispensabili che avrebbero potuto lenire le sue soffernze, contenere perlomeno i sintomi delle varie patologie croniche da cui è affetta. Sempre ricattandola con la possibilità – peraltro ipotetica – di ottenerle in cambio di una pubblica confessione (di quali colpe non è ben chiaro) alla televisione. In sostanza veniva ulteriormente punita per essersi rifiutata di fare “autocritica”, esprimendo pentimento per la sua passata militanza politica, e di collaborare con i servizi segreti.

La politica repressiva nei confronti di Zeynab si era mantenuta inalterata nel tempo, anche dopo che aveva contratto il coronavirus e che gli esami medici avevano confermatola presenza di inquietanti macchie scure nei suoi polmoni.

Inoltre, come già detto,le veniva regolarmenterifiutato il trasferimento in una prigione più vicina al domicilio della famiglia (a sua volta sottoposta a ritorsioni e rappresaglie) nella provincia dell’Azerbaijan iraniano.

Dopo uno sciopero della fame veniva nuovamente trasferita in una prigione della provincia di Kerman, in completo isolamento per tre mesi e senza possibilità di contatti con i familiari.

Già allora in un comunicato, Amnesty International denunciava che “questo rifiuto intenzionale delle cure mediche le sta causando forti dolori, in quanto già sofferente di gravi problemi di salute, tra cui difficoltà respiratorie come conseguenza del Covid-19”. Per cui l’organizzazione umanitaria ne richiedeva l’immediata scarcerazione.

Sul caso era intervenuto nel 2016 anche il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite che si occupa delle detenzioni arbitrarie. Sostenendo che “anche qualora le attività di Zeynab Jalalian avessero goduto del sostegno del PJAK, non esiste alcuna prova che lei sia mai stata coinvolta, direttamente o indirettamente, nel braccio militare del PJAK”.

Si arrivava così al dicembre 2021 quando ormai da mesi non si avevano più notizie certe in merito alla sua situazione sanitaria. Le vaghe informazioni filtrate dal carcere sembravano confermare il progressivo deterioramento della sua salute e i ripetuti, punitivi, ulteriori trasferimenti da un carcere all’altro. Alla fine del 2021 pareva fosse stata trasferita dal carcere di Yazd a quello di Kirmaşan per poi tornare a Yazd.

Da parte dei familiari e di alcune organizzazioni umanitarie la richiesta almeno di una visita per potersi rendere conto di persona della situazione.

Scoppiava intanto la ribellione di massa del 2022 per la morte di Jina Amini (ostinatamente ricordata sui media con il solo nome persiano – imposto d’ufficio – di Masha). Apparve con chiarezza evidente quale fosse la reale situazione delle donne in Iran e di quelle curde in particolare. Anche se la cosa non avrebbe dovuto apparire come una novità

(v. http://uikionlus.org/donne-e-curdi-le-prime-vittime-della-repubblica-islamica/).

In questo contesto, nelle manifestazioni di piazza, negli appelli…) il nome di Zeynab Jalalian è stato spesso evocato, ricordato. Finora purtroppo senza grandi risultati. La prigionera curda rimane in carcere e le notizie sul suo stato di salute (sempre più deteriorato) non sono certo incoraggianti.

Doveroso quindi firmare l’appello di Amnesty International per la sua scarcerazione. Immediata.

Gianni Sartori

#Americhe #Colombia – PROCESSO DI PACE A RILENTO E RIPRESA DEL CONFLITTO SOCIALE – di Gianni Sartori

fonte immagine DirittiGlobali

Circa un anno fa, facendo il bilancio degli accordi di pace in sei punti (piuttosto ambiziosi: riforma agraria, partecipazione politica, fine del conflitto, soluzione al problema del narcotraffico, accordo sulle vittima e meccanismo di verifica) risalenti al 24 novembre 2016, risultava quanto segue.

Delle oltre 570 disposizioni – da realizzare nell’arco di quindici anni – ne risultavano portate a compimento il 28%; il 18% apparivano realizzate in parte; il 35% solo in minima parte e il 19% nemmeno iniziate. Nel complesso, secondo gli addetti ai lavori, il processo di pace procedeva – se pur lentamente – e lasciava ben sperare.

In realtà l’unica buon risultato ottenuto appariva quella del terzo punto (fine del conflitto), realizzato al 50%.

Scarsi invece i risultati nel campo della “partecipazione politica” (secondo punto) e peggio ancora per la questione delle vittime (quarto punto).

Alla fine dell’anno scorso il presidente Gustavo Pedro aveva poi annunciato un ulteriore passo in avanti: la dichiarazione del “cessate il fuoco” bilaterale tra governo e cinque gruppi armati rimasti estranei agli accordi del 2016 con le FARC.

Invece già il primo gennaio del 2013 si registrava quello che altrove verrebbe definito massacro, ma cheforse in Colombia rientra nell’ordinaria amministrazione. Due uomini armati avevano assaltato nel cuore della notte un hotel conosciuto come “El Pentagono” tra le città di Rio de Oro e Ocaña (nel nord est del Paese) uccidendo quattro persone. In un primo tempo era stata sottolineata la presenza in zona sia di guerriglieri dell’Ejército de Liberación Nacional (ELN), sia dei dissidenti delle FARC (contrari al processo di pace), ma successivamente, in base all’inchiesta condotta dalle forze di polizia, la responsabilità veniva attribuita alla delinquenza comune (mafia, cartelli della droga.).…

Un brutto inizio del 2023 comunque. 

Alla fine del 2022 l’Instituto de estudios para el Desarrollo y la Paz (Indepaz) calcolava in 94 i massacri dell’anno, mentre nel 2021 erano stati 95. Tra le vittime molti esponenti della società civile (sindacalisti, leader indigeni, insegnanti, ambientalisti, giornalisti, membri di associazioni…) e firmatari degli accordi di Pace. In larga maggioranza, contadini poveri delle aree rurali dove l’impunità per gli assassini è storicamente garantita. Il Centro Nacional de Memoria (istituzione statale incaricata di conservare la memoria del conflitto prolungatosi per oltre sessanta anni) ha registrato 4.237 massacri tra il 1958 e il 2019. La maggior parte tra il 1998 e il 2002 (1.620 in quattro anni).

Per un totale di 24.600 vittime identificate. 

Come è noto la stragrande maggioranza (oltre il 90%) era opera dell’esercito e dei gruppi paramilitari di destra (in genere filogovernativi e legati al narcotraffico).

Nel frattempo non si placa il conflitto sociale.

In molte zone minerarie della regione del Bajo Cauca di Antioquia si sono svolte manifestazioni (e anche scontri con la polizia) a seguito dello sciopero indetto il 3 marzo. 

A El Bagre i minatori hanno occupato gli uffici della Empresa Mineros Aluvial, mentre a Caucasia alcuni manifestanti con il volto coperto hanno attaccato e danneggiato la Casa de la Justicia, la Personería municipale, la succursale di Bancolombia e alcuni uffici pubblici (della Sanità, della Finanze e del Tesoro). Successivamente la società Mineros Colombia ha annunciato di sospendere le attività per ragioni di sicurezza.

Il giorno prima dello sciopero minerario, il 2 marzo, un contadino e un poliziotto avevano perso la vita nel corso di una manifestazione contro Emerald Energy (filiale del gruppo statale cinese Sinochem) a Los Pozos, nei pressi di San Vicente del Caguan (sud-ovest del Paese). Alcune molotov venivano lanciate contro le istallazioni della compagnia petrolifera e i manifestanti avrebbero ucciso a bastonate un poliziotto. Le manifestazioni contro Emerald Energy erano cominciate ancora nel novembre 2022, dopo che la compagnia aveva mostrato chiaramente di non voler mantenere gli impegni sottoscritti con la comunità (realizzazione di infrastrutture, strade…).

Altre proteste si erano registrate anche nel mese scorso. Il 23 febbraio le manifestazioni avevano interessato due illustri istituzioni educative di Bogotà: l’Università nazionale e ilColegio Mayor di Cundinamarca. La prima protesta, iniziata con danneggiamenti all’entrata della sede universitaria, si era allargata al centro della capitale (Macarena) mentre gli studenti del  Colegio Mayor (in lotta per la scadenza delle polizze assicurative e per la mancanza di dialogo nella struttura scolastica) avevano lanciato oggetti contundenti e ordigni incendiari contro le auto della polizia.  

Gianni Sartori