#Asia #Popoli – NUOVI ACCORDI INDIA-CINA RAPPRESENTANO UNA POSSIBILE GARANZIA O UNA FONTE DI PREOCCUPAZIONE PER LE RICHIESTE DI AUTONOMIA DEL LADAKH? – di Gianni Sartori

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Nel marzo di quest’anno, mentre era in sciopero della fame da oltre venti giorni (prima in una piazza di Leh, poi all’ospedale per l’aggravarsi delle sue condizioni), Sonam Wangchuk veniva intervistato da Le Monde. Tra i fondatori nel 1988 di The Students’ Educational and Cultural Movement of Ladakh (SECMOL), l’ingegnere e militante ambientalista aveva osservato che “ventun giorni erano la durata del più lungo sciopero della fame del Mahatma Gandhi durante la lotta per la libertà”. Questo non era certo il suo primo sciopero. Come vedremo non sarebbe stato nemmeno l’ultimo.
Un aggiornamento. Il 21 ottobre, il ministero degli Esteri indiano (poco prima dell’arrivo del primo ministro Narendra Modi a Kazan, sede dal 22 al 24 ottobre del vertice dei Brics) aveva diffuso un comunicato destinato a sviluppi successivi alquanto rilevanti. Non solamente per i rapporti tra India e Cina, ma anche per il futuro dei tribali autoctoni del Ladakh.
Successivamente Xi Jinping e Narendra Modi confermavano di aver raggiunto un accordo sul pattugliamento del confine nella regione del Ladakh.
Quasi contemporaneamente Sonam Wangchuk poneva termine al suo – ennesimo – sciopero della fame. Da anni questo militante si batte per ottenere da Delhi un governo autonomo per il Ladakh. Per dare la possibilità alle popolazioni locali di autogovernarsi e difendere il delicato ambiente in cui vivono.
In passato il Ladakh faceva parte della regione autonoma del Kashmir. Ma quando questa nel 2019 venne privata del suo status speciale e divisa tra Jammu e Kashmir, rimase sotto il controllo del governo centrale.
Da anni Sonam Wangchuk e i suoi seguaci chiedono l’applicazione del sesto allegato della Costituzione indiana. Consentendo al Ladakh, in quanto “area tribale” di diventare un “distretto autonomo”. Istituendo Consigli regionali per esercitare in modo indipendente scelte legislative, giudiziarie e finanziarie in determinati ambiti.
Tale provvedimento è già in vigore negli Stati nord-orientali dell’India, abitati da varie etnie autoctone tribali.
Così come nel Ladakh dove il 97% della popolazione fa parte di tribù ufficialmente riconosciute.
Come ha più volte ricordato Wangchuk “il sesto allegato dà alla popolazione locale non solo il diritto, ma anche la responsabilità di preservare il clima, le foreste, i fiumi e i ghiacciai”.
A tale scopo ai primi di settembre l’energico sessantenne e circa 150 sostenitori avevano iniziato una marcia verso New Delhi percorrendo centinaia di chilometri. Ai primi di ottobre, ormai prossimi alla meta, venivano arrestati. Iniziavano quindi uno sciopero della fame sospeso soltanto quando veniva loro assicurata la ripresa dei colloqui con emissari del governo.
Tuttavia i nuovi accordi India-Cina potrebbero costituire fonte di ulteriori preoccupazioni per le popolazioni locali, in gran parte dedite alla pastorizia. Se negli ultimi anni il contenzioso tra Pechino e Delhi, le tensioni militari, avevano pesantemente limitato i loro spostamenti, ora si teme per la prevista realizzazione di progetti (dighe, centrali elettriche…) per la produzione di energia. Con effetti devastanti sul delicato habitat himalayano.
Altra preoccupazione, per quanto mi riguarda, l’eventuale rientro in massa di turisti d’alta quota, alpinisti e affini alla ricerca di “cime inviolate” (in stile Hindu Kush per capirci).

Gianni Sartori

#IncontriSulWeb – “ALLA RISCOPERTA DELLA MEMORIA CANCELLATA” – venerdì 1 novembre 2024 – ore 18

Un incontro con Alessandro Sgambati, presidente del Club Touristi Triestini, per ripercorrere la Storia dell’associazione e del Territorio in cui opera. Sarà l’occasione per sottolineare l’iniziativa “1914-1918: Assente! Odsoten! Assent! Odsutan! Abwesend!” che vuole contribuire al ricordo dei caduti del Litorale nel corso della Prima Guerra Mondiale.
In contemporanea sui social e sul nostro Blog.

#Memoria #Ambiente – A DIECI ANNI DALLA MORTE INGIUSTA DI RÉMI FRAISSE – di Gianni Sartori

Dieci anni fa, il 26 ottobre 2014, a Lisle-sur-Tarn moriva tragicamente, a soli 21 anni, il giovane botanico di Tolosa Rémi Fraisse. A ucciderlo l’esplosione di una granata OF-F1 sparata dalla gendarmeria.

Rémi partecipava a una manifestazione contro la diga (barrage) di Sivens (dal nome della foresta circostante) in Occitania ed era il primo ambientalista a essere ucciso dalle forze dell’ordine in Francia dal 1977.

Quando, il 31 luglio, l’insegnante e militante antinucleare Vital Michalon perse la vita (ugualmente per una granata) a Creys-Malville durante una manifestazione contro il Superphénix.

Con la morte di Rémi, nel giro di qualche ora il cantiere dello sbarramento di Sivens venne provvisoriamente chiuso. Anche se ormai la zona umida di Testet era irreparabilmente distrutta.

Ancora nel 2009, il consiglio dipartimentale del Tarn aveva deciso per la realizzazione di un bacino artificiale di 1,5 milioni di metri cubi d’acqua (costo previsto di nove milioni di euro).

Per quanto devastante dal punto di vista ambientale, il progetto era stato presentato e inaugurato come “d’utilité publique”. In realtà doveva costituire una consistente riserva di acqua per l’irrigazione delle coltivazioni di cereali (principalmente mais) utilizzati per l’alimentazione degli animali da allevamento. Secondo un rapporto di esperti, avrebbe rifornito solamente una trentina di aziende dato che la maggioranza delle imprese agricole e degli allevamenti in zona erano già autosufficienti. Inoltre, segnalavano sempre gli esperti, non si era nemmeno tentato di cercare soluzioni alternative.

Purtroppo sui 36 ettari sottoposti al progetto si trovava una zona umida boscosa in cui erano state identificate 94 specie protette. Per ben due volte il Conseil supérieur de protection de la nature (CNPN) aveva espresso la propria contrarietà, giudicando le previste misure di compensazione “irrealizzabili, inadeguate o troppo ipotetiche”.

Le prime contestazioni da parte di ambientalisti, associazioni e parte dei contadini locali (riuniti nel “collectif pour la sauvegarde de la zone humide du Testet”) risalivano al 2012. Esprimendosi con petizioni, manifestazioni, catene-umane. Ma invano, dato che nel 2013 la préfecture del Tarn autorizzava il progetto.

Mentre prendeva il via l’azione di disboscamento, una parte degli oppositori arrivava all’occupazione de La Métairie Neuve, una antica fattoria a circa tre chilometri dalla diga prevista.

Nonostante la sospensione del progetto nel 2015 (per intervento di Ségoléne Royal, ministro dell’Ecologia) il danno risultava irreparabile e gran parte delle specie rare precedentemente qui identificate ormai irreperibili. Veniva comunque mantenuta una occupazione permanente (sostanzialmente una ZAD), se pur da un esiguo numero di militanti riuniti nel collettivo “Tant qu’il y aura des bouilles” (in riferimento alle “bolle”, le risorgive). Come a Notre-Dame-des-Landes, anche qui gli zadistes si arrampicavano sugli alberi o scavavano nel sottosuolo per proteggere la foresta.

Ma l’intervento delle forze dell’ordine andava via via inasprendosi prefigurando quanto in epoca successiva sarebbe avvenuto con la A69. Si arrivava a una serie di espulsioni “muscolari” e alla distruzione degli accampamenti (con vari casi di trauma cranico, punti di sutura, ferite da flashball o da lacrimogeni sparati ad altezza d’uomo).

A questo si aggiungevano le azioni squadristiche delle “milices pro-barrage” (almeno in parte allevatori di bestiame, presumibilmente) con taglio di pneumatici, parabrezza sfondati, accampamenti saccheggiati, materiale rubato, azioni intimidatorie…

Determinato a “débloquer ce pays” (come aveva dichiarato di fronte a una platea di allevatori), il primo ministro Manuel Valls ammetteva apertamente che il governo non poteva permettersi un altro cedimento come si andava profilando a Notre-Dame-des-Landes.

Per salvare il salvabile, il 25 e il 26 ottobre 2024 circa tremila persone tornavano a manifestare pacificamente. Tuttavia, vuoi per la presenza massiccia dei reparti mobili, vuoi per l’esasperazione, nella notte scoppiavano i primi incidenti. Tra le una e le due del mattino i gendarmi lanciavano le prime “granate offensive”. Una esplodeva sulla schiena del giovane Rémi Fraisse che moriva sul colpo. Collaboratore di France Nature Environnement, nella sua città, Tolosa, si era occupato sia di protezione ambientale che di studio della biodiversità urbana.

In conclusione, l’8 gennaio 2018 i giudici istruttori del tribunale di Tolosa hanno emesso un verdetto di non luogo a procedere nei confronti del gendarme responsabile.

Gianni Sartori