#Kurds #Iran – ROJHILAT: SCIOPERO DELLA FAME DELLE DONNE DI SINE IN SOLIDARIETÀ CON UNA PRIGIONIERA CURDA – di Gianni Sartori

Il 17 ottobre, nella città di Sanandaj (Sine in curdo, capoluogo del Kurdistan orientale-Rojhilat, entro i confini iraniani), il collettivo delle “Madri della Pace” ha dato inizio a uno sciopero della fame di tre giorni a sostegno di Warisha Moradi (Ciwana Sine), esponente di KJAR (“Comunità delle Donne Libere del Kurdistan”) detenuta nel carcere di Evin a Teheran.

Il 10 ottobre (Giornata Mondiale contro la Pena di Morte) l’attivista curda aveva iniziato uno sciopero della fame indefinito contro l’utilizzo della pena capitale in Iran e per protestare contro l’arbitrario prolungamento della sua permanenza in prigione. In precedenza, il 4 agosto, si era rifiutata di assistere a una delle sue udienze in tribunale sempre per protesta contro le condanne a morte emesse contro le sue compagne di prigionia Pakshan Azizi e Sharifeh Mohammadi.

Le donne di Sine si sono riunite ai piedi del monte Abid dando fuoco ad alcune corde (simbolo delle impiccagioni) e scandendo slogan come “No alla pena di morte, sì alla vita libera”. Inviando un appello alle organizzazioni internazionali affinché si mobilitino ulteriormente contro la pena capitale.

Arrestata nell’agosto 2023, accusata di “inimicizia contro Dio” e “ribellione armata contro lo Stato”, Warisha Moradi è stata condannata per la sua partecipazione alle attività di KJAR. Organizzazione ritenuta dalle autorità iraniane una emanazione del PJAK (“Partito per una Vita Libera nel Kurdistan”) catalogato come “organizzazione terrorista separatista”.

In questi giorni, la vicinanza a Warisha Moradi è stato espressa con un comunicato anche da KONGRA STAR, il Movimento delle Donne del Rojava. Rivolgendosi a tutte le donne affinché esprimano solidarietà a questa militante curda “tenuta in ostaggio dal regime iraniano”.

Denunciando come “nel 2024, 20 condanne a morte contro delle donne sono già state eseguite in Iran”.

E ricordando nel contempo di “aver ricevuto recentemente una piccola buona notizia quando abbiamo appreso che la Corte suprema iraniana ha annullato la condanna a morte della sindacalista Sharifeh Mohammadi, rinviata davanti a un altro tribunale per il riesame”.

Ugualmente detenuta a Evin, Sharifeh era stata arrestata nel dicembre 2023. Accusata di “ribellione”, torturata fisicamente e psicologicamente, veniva condannata al massimo della pena.

Così si concludeva l’appello di KONGRA STAR: “Per noi tutte che abbiamo lottato a livello internazionale per la sua liberazione e per quella delle altre donne, questa è la dimostrazione che la lotta comune dà i suoi frutti! No all’esecuzione. Sì alla vita libera! Jin Jiyan Azadî !”

Gianni Sartori

#Palestina #PrigionieriPolitici – DALLE CARCERI ISRAELIANE ALLA STRISCIA, LE CONDIZIONI DI VITA DEI PALESTINESI SONO OLTRE L’UMANAMENTE SOPPORTABILE – di Gianni Sartori

Ancora in gennaio i prigionieri palestinesi lanciavano l’allarme sul rischio non certo ipotetico della propagazione di malattie, infezioni, contagi e di vere e proprie epidemie all’interno delle carceri israeliane. Tra le più diffuse quelle della pelle (scabbia, rogna…). Una conseguenza delle procedure, definite “autentici abusi” nel comunicato, applicate sistematicamente dall’amministrazione penitenziaria.

Tra cui il sovraffollamento (mediamente oltre una decine di reclusi, almeno quattro in più, per cella), scarsa disponibilità d’acqua, riduzione al minimo delle docce (con effetti drammatici sull’igiene), l’isolamento, la privazione del movimento…

Tenendo presente che se prima del 7 ottobre 2023 i detenuti palestinesi erano circa 5250, dopo quella data già in dicembre erano approssimativamente attorno a 8800.

Misure repressive ulteriormente esasperate dall’utilizzo della tortura che provoca ferite, curate malamente, sui prigionieri con conseguenti infezioni. Con il conseguente degrado dello stato di salute dei detenuti.

A questo andrebbero aggiunte la “politica della fame” adottata dall’amministrazione carceraria e la penuria di vestiti (in gran parte sequestrati dopo il 7 ottobre). Con i detenuti costretti a indossare gli abiti ancora bagnati dopo averli lavati (anche nel periodo invernale).

Con effetti deleteri che si sono via via accumulati nel tempo, aggravandosi con i continui arresti di migliaia di persone.

Sempre secondo i prigionieri palestinesi, sarebbero in aumento anche quelli che definiscono “crimini medici”.

Intesi come deliberati atti che vanno ben oltre la “normale” negligenza più o meno intenzionale. Atti che sarebbero all’origine dell’incremento della mortalità tra i prigionieri registrata negli ultimi anni.

Quanto alle vittime accertate della tortura (sempre stando al comunicato), sono aumentate dopo il 7 ottobre. Ancora in gennaio erano almeno sette quelli deceduti.

E intanto a Gaza le cose andavano e vanno sempre peggio.

Nell’agosto di quest’anno il Consiglio di sicurezza si interrogava sui primi casi di poliomielite (da 25 anni a questa parte) registrati nella Striscia.

Malattia che notoriamente si trasmette per contagio (per via oro-fecale, con l’ingestione di acqua o cibo contaminati, saliva, per le goccioline prodotte da colpi di tosse e starnuti).

Dato che l’essere umano costituisce l’unico (o almeno il principale) “serbatoio naturale”, appare evidente quale fosse il livello di rischio di una diffusione su larga scala in una situazione di totale degrado ambientale (v. la contaminazione dell’acqua a causa dei bombardamenti che distruggono la rete fognaria). Dato che non sempre la persona infetta sviluppa sintomi evidenti (come la paralisi), è chiaro che la “catena di trasmissione”, in mancanza di misure igieniche adeguate, andrebbe allargandosi in maniera esponenziale.

Con l’agghiacciante particolare che a esserne colpiti sono soprattutto bambini di età inferiore ai cinque anni.

In agosto, la richiesta di convocazione del Consiglio di sicurezza era partita dalla Svizzera, preoccupata perché  “le condizioni di sicurezza sul terreno” non avrebbero consentito alle organizzazioni umanitarie di compiere adeguatamente la loro missione, necessaria anche in assenza di un “cessate-il-fuoco”. E questo per il delegato svizzero sarebbe “semplicemente inaccettabile mentre la situazione umanitaria va aggravandosi di giorno in giorno”. Alla Svizzera si associavano altri membri del Consiglio (come la Francia) soprattutto sulla richiesta “non negoziabile” di una campagna di vaccinazione contro la poliomielite.

Sorvolando sul “pronto intervento” (le vaccinazioni) generosamente consentito dalle autorità israeliane. Non credo si sia trattato di spirito umanitario (altrimenti avrebbero smesso di bombardare ospedali e tendopoli), ma di evitare che l’epidemia si diffondesse anche in Israele.

Da parte della Federazione Russa si sottolineava come non fosse possibile obbligare gli operatori umanitari a intervenire in situazioni di tale ostilità (anche nei loro stessi confronti, vedi il caso dei veicoli del Programma Alimentare Mondiale). Per cui rilanciava la richiesta di un cessate-il-fuoco.

Così la Slovenia (a cui si allineava la Gran Bretagna) che richiedeva alle parti belligeranti la trasparenza e il rispetto delle regole d’ingaggio nei confronti del personale onusiano.

Mentre gli Stati Uniti ridimensionavano l’incidente del 27 agosto (quando una squadra del PAM era finita sotto il fuoco di un check point israeliano nei pressi del ponte di Wadi Gaza) definendolo frutto di “un errore di comunicazione tra i membri dell’esercito israeliano”. Pur augurandosi che simili episodi non si ripetessero.

Con ben maggiore aderenza alla realtà dei fatti, il delegato algerino aveva dichiarato che “l’evacuazione forzata della popolazione e la morte di 297 operatori umanitari a Gaza costituiscono nient’altro che dei crimini di guerra”.

Quanto alla coordinatrice degli interventi onusiani a Gaza, esprimeva profonda indignazione per “la moltiplicazione degli ordini di evacuazione emessi dall’esercito israeliano con conseguenze devastanti sia per i civili che per il personale sanitario”.

Ordini di evacuazione che avevano colpito circa il 90% degli abitanti della Striscia costretti a vivere stipati su qualcosa come l’11% del territorio di Gaza.

Aggiungendo che “i civili hanno fame, sono malati, senza riparo. In condizioni ben al di là di quanto un essere umano possa sopportare”. Questo in agosto. E da allora le cose sono andate soltanto peggiorando.

Tornando alla questione dei prigionieri, il 15 ottobre sono stati liberati una quindicina di detenuti palestinesi. Tra loro un caso emblematico, quello del quindicenne Eyad Ashraf Ed’eis (originario del campo profughi di Shu’fat ). Dopo aver trascorso in prigione sette mesi, è andato agli arresti domiciliari (ma in ospedale, non al domicilio della famiglia) con braccialetto elettronico. Motivo della sua scarcerazione, la scabbia. La stessa che si va diffondendo a a macchia d’olio tra i palestinesi rinchiusi in varie carceri israeliane.

Per la Società dei prigionieri palestinesi, la maggioranza soffre di malattie croniche e complicazioni varie.

Inoltre esprime il fondato sospetto che l’amministrazione penitenziaria utilizzi la scabbia come ulteriore misura di controllo e maltrattamento nei confronti dei prigionieri. Dando prova quanto meno di negligenza in materia di cure mediche. Per cui sui loro corpi i segni della negligenza, oltre a quelli della tortura e della fame, sono sempre più evidenti, incisi.

Come ha confermato in questi giorni un avvocato dopo la visita al carcere di Gilboa “i detenuti vivono in condizioni tragiche, immersi in una realtà dolorosa a causa delle politiche fasciste e razziste adottate dall’amministrazione penitenziaria israeliana. Tra i metodi adottati, le percosse, gli insulti, le irruzioni nelle celle e nelle sezioni. Il cibo fornito risulta mediocre sia in qauantità che in qualità. Vi è una grave penuria di abbigliamento e di coperte e tutto sta a indicare che le condizione meteorologiche, con l’arrivo dell’inverno, non vengono prese in considerazione. Le malattie della pelle si propagano, i prodotti per la pulizia e la disinfestazione sono assenti, si mantiene la politica di isolamento dal mondo esterno così come le restrizioni e le difficoltà alla comunicazione tra le celle e le sezioni”.

Gianni Sartori

#IncontriSulWeb – “CURDI: UN POPOLO, UNA CULTURA, UNA LINGUA” – venerdì 25 ottobre alle ore 18

Un incontro con la dr.ssa Nurgül Çokgezici , psicologa, docente, traduttrice, mediatrice linguistico culturale e componente attiva della Comunità curda di Milano, per offrire una testimonianza di prima mano sul Popolo Curdo, sulla sua Cultura e sulla sua Lingua.

In contemporanea sui nostri canali social e sul nostro Blog.

#Americhe #Mexico – MESSICO: LA RESISTENZA INDIGENA SEMPRE “SOTTO TIRO” – di Gianni Sartori

Con un comunicato l’Ejército Zapatista de Liberación Nacional (EZLN) ha denunciato una serie di incresciose aggressioni nei confronti della comunità zapatista del villaggio “6 Ottobre” nella Selva Lacandona.

Tale Base di appoggio dell’EZLN (BAEZLN) viene minacciata da numerosi individui armati con armas largas de alto poder (armi lunghe ad alta potenza). Forse per sottometterla (”arruolarla”?) a qualche rete del crimine organizzato. Nel comunicato, diffuso dal Subcomandante Insurgente Moisés in nome del Comité Clandestino Revolucionario Indígena-Comandancia General del EZLN, si precisa che le minacce di tali figuri (in gran parte provenienti dalla comunidad Palestina e tra cui si trovavano anche funzionari comunali del municipio di Ocosingo) erano rivolte soprattutto contro bambini, donne, anziani. Minacce di “violación a mujeres, quema de casas y robo de pertenencias, cosechas y animales”.

Scopo evidente, terrorizzarli e sfrattarli dalle terre che occupano e coltivano ormai da oltre 30 anni.

In precedenza, posti di fronte a recenti minacce similari, gli esponenti zapatisti del Gobierno Autónomo Local del “6 de Octubre” e l’assemblea dei Colectivos de Gobiernos Autónomos Zapatistas del Caracol Jerusalén, avevano tentato – invano evidentemente – di dialogare.

La situazione appare alquanto complessa. Anche tra gli stessi abitanti di Palestina vi è chi denuncia minacce e pressioni da parte del crimine organizzato affinché “vengano scacciati le nostre compagne e i nostri compagni del 6 Ottobre”. Inoltre sarebbe confermato che “vi sono accordi precisi tra il crimine organizzato e forze interne alle istituzioni governative per fornire un aspetto legale a questi sfratti brutali”.

Addirittura, alcune funzionari comunali di Palestina che prendevano parte alle azioni per allontanare gli zapatisti, avrebbero sfrontatamente ammesso di avere dalla loro parte sia le autorità comunali di Ocosingo, sia quelle governative (dello Stato del Chiapas). Con precise direttive per ottenere le concessioni di proprietà delle terre forzatamente espropriate.

Torna alla memoria il metodo ampiamente utilizzato in Colombia nei decenni passati quando, prima di massacrare indios e contadini poveri, gli squadroni della morte facevano firmare alle loro vittime i passaggi di proprietà. Da segnalare che fino al recente cambio politico (con una nuova gestione a livello di governo comunale), gli abitanti del “6 de Octubre” avevano convissuto pacificamente con le altre comunità della zona.

Forse non accade casualmente. Questa comunità zapatista sotto minaccia era una delle sedi prescelte per la celebrazione degli “Encuentros de Resistencia y Rebeldía 2024-2025”.Previsti per l’ultima settimana di dicembre e i primi mesi del 2025. Con varie attività culturali in occasione del 31° anniversario di quello che è passato alla Storia come l’alzamiento armado del 1 gennaio 1994.

Di conseguenza l’EZLN ha annunciato che “di fronte all’attuale violenza, consapevoli del grave deterioramento della situazione, sospendiamoogni comunicazione e informazione su tali incontri”. Incontri che potrebbero anche venir sospesi per garantire la sicurezza delle comunità zapatiste nel Chiapas.

Agli zapatisti “sotto tiro” è giunta immediatamente la solidarietà del “Congreso Nacional Indígena – Concejo Indígena de Gobierno”.

Il CNI-CIG ha condannato quanto sta avvenendo pretendendo “justicia y respeto” per le basi di appoggio zapatiste del “6 de Octubre” nel Caracol di Jerusalem.

Prendendo posizione contro quella parte della popolazione di Palestina che “con l’appoggio delle autorità municipali e statali, sta tentando di spogliare delle proprie terre la comunità”.

In conclusione il CNI-CIG ha voluto assicurare che l’EZLN “no está solo”.

Appellandosi alla solidarietà nazionale e internazionale per “porre un freno alla violenza e difendere l’autonomia zapatista”.

Sempre in Messico, in questi giorni è tornata alla ribalta un altro caso di resistenza indigena, quella degli Otomi di Città del Messico.

Da quattro anni (dal 12 ottobre 2020, una data non casuale) un antico edificio di Ciudad de Mexico, l’Instituto Nacional de los Pueblos Indígenas (ora ribattezzato Casa de los Pueblos Samir Flores ) è occupato dal popolo otomi e riconvertito in un centro di Resistenza indigena contro l’emarginazione sociale e contro i grandi progetti estrattivi e inquinanti. Non secondariamente, funziona anche come supporto locale per il movimento zapatista.

Gli otomi, sono un antico popolo indigeno del Messico centrale (valle del Mezquital e della Barranca de Meztitlán, Querétaro, Michoacán, Tlaxcala…). Espropriati delle loro terre ancestrali col metodo dell’encomienda (diventata uno strumento di colonizzazione e di cristianizzazione forzata degli autoctoni), così come durante le rivoluzioni dei secoli scorsi si erano schierati con la ribellione, anche ai nostri giorni mantengono un sana postura resistenziale di fronte all’etnocidio strisciante della globalizzazione neoliberista. Lottando, come hanno dichiarato, per “preservare culture, lingue, forme di vita e autogoverno indigeni”.

Non per niente, celebrando il quarto anniversario dell’occupazione dello stabile (il 12 ottobre), hanno ricordato anche un’altra scadenza, il 532° anniversario dell’inizio della colonizzazione dell’America Latina.

Espropriati, dispersi, diseredati… molti otomi nella seconda metà del secolo scorso si inurbarono, soprattutto a Città del Messico. Costretti spesso a dormire in strada, esposti ai pericoli di una metropoli violenta. Soprattutto i bambini e le donne. Chissà, forse pensava anche a loro il subcomandante Marcos (poi Galeano) quando scriveva (vado a memoria): “Sono un curdo tra le montagne, una anarchico nelle guerra di Spagna, una donna sola di notte a città del Messico…”.

Dopo il terremoto del 1985, molti tra loro si adattarono a vivere negli edifici lesionati e abbandonati (in particolare nella zona della Colonia Juarez e della Colonia Roma). Per “dare almeno un tetto ai nostri figli”. Ma un altro terremoto nel 2017 provocò il crollo definitivo o comunque rese inabitabili molti degli edifici occupati. Da allora vissero nelle tende, accampati davanti alle macerie. Con tutti i problemi immaginabili. Dalla mancanza di acqua alle difficoltà per consentire ai bambini la frequentazione della scuola.

Per l’acqua ricorrevano a vari espedienti, approfittando se possibile dei momenti di irrigazione dei parchi pubblici o degli alberi lungo i viali. Per analogia, ricordo quanto mi raccontavano le donne delle bidonville sudafricane all’epoca dell’apartheid: entravano di nascosto nei cimiteri dei bianchi e usavano l’acqua delle fontanelle (quelle per i fiori) per lavare gli abiti dei familiari. Si impara ad arrangiarsi, da proletari.

I tentativi di dialogo con le istituzioni per ottenere altre abitazioni o un aiuto per costruirsele, risultarono infruttuosi. Inoltre talvolta erano attaccati dagli abitanti della zona e le loro tende incendiate. Oltre naturalmente a venir periodicamente smantellate dalla polizia (con scontri, feriti e arresti). Per cui, dopo alcuni anni passati all’addiaccio (molto duri soprattutto nella stagione delle piogge), decisero come comunità di occupare l’edificio in questione.

Dove sono intenzionati a rimanere.

Gianni Sartori