#Armeni #Deutschland – COLONIA: RIMOSSO – FORSE DEFINITIVAMENTE – IL MONUMENTO AL GENOCIDIO ARMENO – di Gianni Sartori

Nei secoli scorsi la Germania avrebbe fornito – non solo indirettamente – alla Turchia giustificazioni politiche e culturali per il genocidio armeno.

Ai nostri giorni si limita ad abbattere qualche monumento scomodo.

L’uso di stereotipi per demonizzare e criminalizzare alcune popolazioni non è stato ovviamente un’esclusiva dei tedeschi, ci mancherebbe. Resta il fatto che sia nell’ottocento che nel secolo scorso in Germania vennero impiegati metodicamente. In particolare da esponenti politici, religiosi e soprattutto dalla stampa. Non solamente contro gli Ebrei, ma anche per gli Armeni descritti (oltre che con “il naso adunco”) come “più subdoli, bugiardi, usurai e traditori degli stessi ebrei”. Questo almeno è quanto emerge dagli studi di Stefan Ihrig (direttore del Centro di studi germanici ed europei dell’Università di Haifa) (1).

In sostanza l’idea del genocidio non sarebbe apparsa improvvisamente nella mente di Mustafà Kemal (Ataturk) e soci. Tale ipotesi era già stata seminata, coltivata e innaffiata con anni di propaganda anti-armena sia nei giornali che in ambito letterario.

Tra gli scrittori va ricordato Karl May, a quanto pare fonte di ispirazione per lo stesso Hitler. Ma anche alcuni esponenti religiosi come il pastore protestante Friedrich Naumann si distinsero per opere pervase da ostilità nei confronti del popolo armeno. Al contrario un suo collega, Johannes Lepsius, aveva coraggiosamente denunciato il genocidio del 1915.

A un più alto livello, sia il Kaiser che Bismarck valutavano la “questione armena” come un problema interno dell’alleato turco. Al fine di garantirne la stabilità per ragioni economiche, militari e geopolitiche.

Come è noto la consapevolezza che i Giovani Turchi avevano potuto agire impunemente contro gli Armeni, rafforzò in Hitler l’intenzione di procedere alla stessa maniera con gli Ebrei. Annientandoli.

Si parva licet, un recente episodio (“politicamente scorretto” direi) di cancellazione della memoria storica ha riproposto la questione.

Da anni un piccolo monumento di Colonia che commemorava gli Armeni sterminati nel 1915 veniva deturpato, divelto o semplicemente spostato dall’amministrazione cittadina (vuoi con la scusa di una nuova pista ciclabile, vuoi – più onestamente – per evitare disordini). In questi giorni le autorità hanno preso la drastica decisione di rimuoverlo definitivamente. In questa città è presente una piccolissima comunità armena, ma soprattutto una ben più consistente di origine turca. Inoltre recentemente vi è stata aperta la sede dell’organizzazione nazionalista-islamica “Milli Görüs” (“Visione Nazionale”, fondata da Erbakan – il mentore di Erdogan – per riunire gli immigrati turchi in Europa) affiliata allo Stato turco. Alla fine di ottobre poi, si era svolta una marcia organizzata dai nazionalisti turchi. Tra cui l’organizzazione di estrema destra, antisemita e panturanica “Ülkü Ocakları”(“Focolare degli Idealisti”, più noti come Lupi Grigi). 

Una coincidenza che il monumento sia stato smantellato dalle ruspe proprio ora?

E’ lecito sospettare (come ha denunciato il giornalista Guillaume Perrier) che questo sia “il risultato della pressione del governo turco e delle concessioni della destra tedesca”. Soprattutto pensando a come “la CDU abbia utilizzato, incoraggiato e appoggiato i Lupi Grigi e Milli Görüs per contrastare la presenza delle forze di sinistra tra i lavoratori turchi immigrati”.

Contro la decisione di rimuovere il monumento ha protestato anche la senatrice francese Valerie Boyer accusando gli amministratori di Colonia di essersi “inchinati ai nazionalisti turchi che così hanno imposto la negazione del genocidio armeno”.

Ricordo che “in compenso” (!?!) nel quartiere centrale di Colonia di Ehrenfeld nel 2018 è stata inaugurata la Moschea Centrale DITIB in grado di ospitare oltre 1200 persone. Ospiti d’onore, Erdogan e Ali Erbas, presidente del Diyanet İşleri Başkanlığı (Direttorato degli affari religiosi ). All’epoca la costruzione suscitò non poche polemiche, soprattutto per l’impatto visivo dei minareti alti circa 55 metri.

Gianni Sartori

(1) “Giustificare il genocidio. La Germania, gli armeni e gli ebrei da Bismarck a Hitler “(Guerini e associati editore)

#Kurdistan #Opinioni – TONI NEGRI, I CURDI…E FORSE UN PO’ DI NOSTALGIA – di Gianni Sartori

Chi l’avrebbe mai detto che un giorno mi sarei – almeno in parte – “riconciliato” con Antonio Negri? Anche se solo al momento della sua dipartita.

Mi spiego e riassumo. Tanto per la cronaca, di persona non l’ho mai incontrato. Tuttavia tra il 1970 e il 1971 frequentai per incontri e riunioni la vecchia sede vicentina di Potere Operaio (da ora PotOp), la prima, quella di Santa Caterina (tra “el Porton del Luzo” e le “scaete de MonteBerico”).

Oltre naturalmente a decine di manifestazioni sia a Vicenza che a Padova.

La presenza di “Toni”, come lo chiamavano familiarmente e quasi affettuosamente i due capetti del PotOp vicentino (tanto per far sapere – a noi di bassa manovalanza – quanto lo frequentassero abitualmente), aleggiava pervasiva – una sorta di entità di ordine superiore – nelle conversazioni e nelle discussioni (in genere animate). Diciamo che mentre loro pendevano dalle labbra del “profeta operaista”, anche a distanza, personalmente avevo qualche difficoltà nel decifrarne sofismi e concetti perentori (1). Negli anni successivi avevo inoltre criticato, nel senso di analizzato, alcuni comportamenti non sempre coerenti. Per cui, a conti fatti, lo avevo escluso dal mio affollato pantheon personale (dove invece trovavano spazio personaggi anche diversi come Victor Serge, Carlo Rosselli, Lumumba, Ruth First, Durruti, Thomas Sankara…e più recentemente Ocalan).

Avendo poi, prima per necessità poi per scelta (2), svolto per anni attività poco intellettuali, sia come facchino (con le famigerate, anche allora, “cooperative”: in realtà una copertura per il lavoro nero) che da operaio, avevo sviluppato una certa idiosincrasia nei confronti di leader, capetti di buona famiglia e docenti universitari. 

Se poi aggiungiamo – da parte mia – una innata propensione antiautoritaria, si spiega come ad un certo punto (stufo di sentirmi dire con insistenza “…faremo come in Spagna…”, un richiamo al maggio ’37 di Barcellona) presi il largo (pur mantenendo con alcuni, pochi, rapporti di amicizia personale).

C’era anche dell’altro ovviamente, magari con il senno di poi. Le responsabilità morali di una parte dei dirigenti di PotOp (ma dei romani, non di Negri) nel rogo di Primavalle del 1973 in cui persero la vita i due fratelli Virgilio e Stefano Mattei. Soprattutto l’aver lasciato credere a tanti militanti in buona fede che la responsabilità di quelle due morti orribili andava accreditata ai neofascisti. Paragonandole addirittura – in uno slogan spesso scandito nei cortei – alle stragi (quelle sì opera dei fascisti) di Piazza Fontana e Brescia.

Questo proprio non l’avevo mai perdonato a chi presumibilmente era al corrente delle reali dinamiche fin dai primi giorni e non ne aveva parlato. Come poi ammise uno dei dirigenti: “Se Potere Operaio fosse stato veramente un’organizzazione rivoluzionaria…li avremmo fucilati”. Con l’evidente sottinteso che in realtà non lo era, non compiutamente almeno.

E INVECE…

E invece ora scopro, se pur tardivamente, che il Negri godeva di grande considerazione presso i Curdi.

Doveroso quindi da parte mia ripensarci.

Dato che considero i curdi, in particolare quelli che stanno lottando per il Confederalismo democratico, una delle poche realtà politicamente (e umanamente) decenti sull’attuale globo terracqueo. 

Così ha commentato, rendendogli omaggio, la scomparsa del filosofo il Consiglio Esecutivo del KNK (Congresso Nazionale del Kurdistan): “E’ con grande tristezza che abbiamo appreso della morte del filosofo Antonio (Toni) Negri a Parigi, la notte scorsa” . Aggiungendo, dopo le condoglianze (“profonde e sincere”) alla famiglia che “Toni Negri fu un caro amico del popolo curdo, sempre disposto a fare quanto era necessario per far avanzare la causa del Movimenti di Liberazione del Kurdistan”.

Spiegando come Negri ( “uno dei maggiori filosofi del secolo scorso” ) fosse un “avido lettore dei libri di Abdullah Öcalan che aveva definito come l’Antonio Gramsci della sua terra”.

In varie occasioni Negri aveva preso pubblicamente posizione contro quella che definiva senza mezzi termini “la guerra genocida dello Stato turco contro il popolo curdo”, in particolare nel nord e nell’est della Siria invasa dalle truppe di Ankara e dai mercenari jihadisti.

Non solo. Aveva pronunciato parole inequivocabili anche in merito all’ingiusta detenzione di Abdullah Öcalan in quanto:

“Come Mandela nel XX secolo, così Öcalan è diventato un prigioniero leggendario nel XXI”. Elaborando una serie di concetti che passo dopo passo si avviano a diventare “i pilastri della costruzione di un nuovo mondo”.

Commentando il testo di Öcalan “Manifesto per una civilizzazione democratica” aveva scritto: “Mi piacerebbe veramente poter esprimere direttamente a Öcalanil mio rispetto per la sua persone e l’onore che provo nel presentare i suoi libri”.

Negri considerava questa opera semplicemente “straordinaria”.

Un libro scritto da un uomo incarcerato e tuttavia capace di “sviluppare un pensiero che distrugge ogni serratura”.

La testimonianza indelebile di “un leader politico che in condizioni impossibili continua a rinnovare un insegnamento etico e civile per il suo popolo. Un Antonio Gramsci per la sua nazione. Un esempio per tutti”.

Qui , spiegava Negri, Öcalan affronta il dualismo (classe e civilizzazione)che ha contraddistinto la nostra vita fin dalle origini, dai primordi: “da un lato lo Stato, dall’altro la comunità”. Quello che emerge, sia sul piano antropologico che etnologico, è che la struttura sociale della Mezzaluna Fertile e del successivo sviluppo della società civilizzata sarebbe sostanzialmente “una grande metafora, un paradigma che anticipa la moderna società capitalistica”.Una prova della sostanziale “falsità della pretesa del capitalismo di rappresentarsi come un sistema finale, definitivo”.

Detto fuori dai denti “che il capitalismo costituisca la fine della storia”, uno statu quo stabile e permanente.

Una prevaricazione protrattasi in epoca moderna con lo sfruttamento del proletariato e resa possibile anche – o soprattutto – dall’egemonia ideologica perpetrata dagli Stati.Fondamento della coercizione, della tirannia, dell’oppressione

Invece entrambi i pensatori, burlandosi di questa pretesa infondata, si richiamano alla “lotta (le cui origini risalgono ad almeno cinquemila anni) tra la civilizzazione-Stato e la civilizzazione democratica (costituita dalle comunità agricole e marginali antecedenti allo Stato).

Come è noto Öcalan individua fondamentalmente tre elementi negativi operanti nella civilizzazione contemporanea: gli Stati-nazione, il capitalismo e il patriarcato. Costitutivi della famigerata “modernità capitalistica”.

Con l’autonomia democratica il movimento curdo si prefigge di ricreare una società politica e morale decolonizzata, quellache la modernità capitalistica aveva infranto. O almeno ci stanno provando come in Rojava. 

Un superamento anche di quel “nazionalismo primitivo” che identificava l’autodeterminazione delle Nazioni senza Stato con l’aspirazione alla costruzione di un ennesimo Stato-nazione.

Forse con una certa dose di approssimazione Negri aveva stabilito una qualche assonanza, analogia tra la lotta attuale dei curdi e i “movimenti autonomi della seconda metà del secolo scorso”. In particolare per la loro contrapposizione rispetto ai movimenti terzomondisti del tempo.

Personalmente non credo sia il caso di stabilire parallelismi tra le insorgenze italiche degli anni settanta e l’attuale resistenza curda. Stiamo parlando di cose assai diverse, per certi aspetti antitetiche. Nel primo caso ci troviamo immersi nel pantano di rapporti sociali in via di frammentazione, dissoluzione. Tra lo sradicamento indotto dalle migrazioni del proletariato meridionale a Torino, Milano e Genova (foriere comunque di lotte straordinarie, forse il “canto del cigno” della classe operaia, ma comunque assai sonoro, dirompente), lo stragismo parastatale a manovalanza fascista e la successiva demolizione del sistema industriale. Con la “fabbrica diffusa”, la dispersione sul territorio dei lavoratori nelle piccole imprese (Veneto docet). Rottura epocale di lotte e rapporti unitari, collettivi.

Fino all’estremo sussulto del ’77, un rigurgito nostalgico delle classi subalterne (forse ancora una volta “per sé” oltre che “in sé”) al bisogno di comunità, una ribellione disperata all’esproprio totale della vita dal parte del capitalismo.

A conclusione della sua vita complessa (e non priva di debolezze umane e contraddizioni) Toni Negri (“spinozista” per autodefinizione) si era quindi guadagnato meritatamente la stima dei curdi, interpretando acutamente e valorizzandoil pensiero di Öcalan. Segno che non aveva mai perso la capacità di rinnovarsi, superarsi, rigenerarsi intellettualmente. Alimentando le nuove forme della lotta di classe e di liberazione dei popoli oppressi. Schierandosi sempre, ma senza rimanere invischiato in un polveroso e forse sclerotizzato leninismo.

Non è cosa da poco per uno nato nel 1933 e considerando l’ampio arco di tempo della sua vita “spericolata”.  

Gianni Sartori

(1) tra le mie letture difficoltose (di alcune mai arrivato fino in fondo): “La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione” (quello con la copertina di Escher), “La fabbrica della strategia, 33 lezioni su Lenin”, “Marx oltre Marx”, “L’anomalia selvaggia” (su Spinoza), “Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale” (opuscoli marxisti 21)….Nel corso degli anni poi ho spesso ripreso in mano, sperando con l’età di avere acquisito i mezzi per comprenderlo, l’opuscolo “Alle avanguardie per il partito” (della segreteria nazionale di Potere Operaio). Ma invano.

(2) come forse avevo già raccontato pur avendo vinto un concorso statale (da insegnante elementare) agli inizi degli anni settanta, ero ritornato alle attività più “manuali” dopo aver scoperto che per insegnare avrei dovuto subire le forche caudine del “giuramento”.

NdR – Aggiungiamo al testo dell’articolo di Gianni Sartori la segnalazione di un volume sulla figura di Öcalan al quale hanno contribuito molti noti esponenti della cultura e della politica: https://ocalanbooks.com/#/book/building-free-life

#VENETO #TERRITORIO – EPITAFFIO IN MEMORIA DEI CEDRI DI VILLABALZANA – di Gianni Sartori

Unica consolazione: se pur per una sola e ultima volta lo scampolo di foresta alpina, di taiga che rendeva unica Villabalzana ha potuto godere, prima di venire massacrato impietosamente, della nevicata di qualche giorno fa che aveva imbiancato le sommità dei Colli Berici.

Per il resto, niente da dire, niente da aggiungere a quanto già detto in altre occasioni (v. “Ma i veneti odiano gli alberi ?”).

Solo l’amarezza, il senso di vuoto (non in senso metaforico) che irrompe, dilaga osservando la desolazione nel prato in prossimità della chiesa di Villabalzana.

Una decina di grandi alberi (citati come rimarchevoli anche in qualche guida), cedri nobili e maestosi, abbattuti da un giorno all’altro con motivazioni, a mio avviso, alquanto discutibili. Ossia che con l’intensificarsi di “eventi estremi” (burrasche, forti venti..) avrebbero potuto venire sradicati. Danneggiando (ma la cosa è alquanto opinabile vista la distanza) una trattoria. Al massimo qualche auto parcheggiata, penso. In ogni caso sarebbe bastato, sempre mio modesto avviso e in base a esperienza personale, un blando intervento di potatura. Invece no, via tutto. Con la scomparsa di quello che senza ombra di dubbio costituiva l’elemento più bello – esteticamente parlando – e più naturalistico della località.

Una prima ipotesi era che la cosa fosse in qualche modo collegata (magari per costruirvi un parcheggio) al previsto utilizzo delle cave, abbandonate da anni e già in avanzata fase di rinaturalizzazione (vedi la presenza di chirotteri, sassifraga berica…) di un’area ex militare. Divenuta in qualche decennio uno scrigno di biodiversità (perlomeno rispetto alle aree circostanti) proprio in quanto “abbandonata” e poco frequentata. Ora si vorrebbe “valorizzarla” in senso turistico, non si capisce bene come, pare con luci intermittenti e altre amenità.

Forse per fare il paio con quanto è avvenuto al sottostante lago di Fimon “valorizzato” a uso e consumo dei pescatori eliminando, di fatto, il vasto canneto che forniva riparo, tra gli altri, al tarabusino e al cannareccione. E trasformando il primordiale specchio lacustre nella versione locale dell’Idroscalo.

Ma, tornando a Villabalzana e stando a quanto dichiarato dagli “addetti ai lavori” colti sul fatto (inutili le nostre lamentele, recriminazioni, proteste, richiami al senso di umanità, cosiddetto…) l’ipotesi sarebbe quelle di piantarvi degli ulivi. Nientemeno! Anvedi l’originalità!

Ora chi conosce i Colli Berici sa bene che qui ormai si può parlare di mono-coltura ulivista (o al massimo di bi-coltura: va forte il prosecco). A scapito non solo dei Grandi Alberi (sempre meno), ma del bosco in genere. Grazie anche ai finanziamenti di cui godono questi due presunte “eccellenze” beriche (“pompate” in quantità industriale…).

In zona i precedenti non mancavano. Elencando: le quattro querce secolari lungo la strada sottostante la collina di Montruglio (dicembre 2016, quelle rimaste sono salve soltanto per il pronto intervento di un escursionista di passaggio), i tigli di Ponte di Barbarano, lo storico “moraro de Col de ruga” che evidentemente “intrigava” in mezzo a un parcheggio, il cedro gigante di Longare (2022), i due bagolari e il platano (gigantesco, prova deontologica dell’esistenza di Dio) nel bel mezzo di un campo prima della strada per Campiglia…

E anche le decine di platani, olmi, aceri campestri, morari e robinie di notevoli dimensioni che ombreggiavano la vecchia ferrovia Treviso-Ostiglia. Divelti senza criterio durante i lavori per la pista ciclabile. Un controsenso, a mio avviso.

Ma la furia ecocida sembra essersi scatenata con particolare veemenza in prossimità delle chiese. Esorcismo antropocentrico preventivo per la“paganità” intrinseca nel rispetto – culto ? – per gli alberi?

Vedi a Villaganzerla, Castegnero e ora appunto Villabalzana.

E quindi? Niente, ormai penso sia inutile anche solo rammaricarsi. La deriva è questa. Inasprimento ulteriore della colonizzazione, della riduzione dei Colli (come per gran parte della Montagna veneta) a parco giochi, a sfogatoio del “tempo libero” (sostanzialmente una fonte di profitto sotto mentite spoglie) e zona residenziale per benestanti in fuga dalle città (ma portandosi dietro tutta la spazzatura, materiale e spirituale, del consumismo) . Contraltare solo apparente dell’altra tendenza, quella che va cementificando, impermeabilizzando, degradando (capannoni, autostrade, basi militari…) a perdita d’occhio la pianura sottostante.

In attesa di…di cosa? Forse di una generazione di ambientalisti consapevoli in grado di porre un limite alla trasformazione del pianeta in un guscio vuoto e avvizzito, in una discarica sconfinata dove contemplare inermi e sconsolati il Nulla che avanza.

E concludo evangelicamente: “Perdona loro, non sanno quello che fanno”.

Gianni Sartori