#Kuds #Wall – MURI TURCO-EUROPEI CONTRO I MIGRANTI O CONTRO I CURDI? ENTRAMBE LE COSE, PROBABILMENTE – di Gianni Sartori

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La denuncia era partita dalla copresidente dell’Associazione Göç-Der  di ricerca sulle migrazioni. Gülşen Kurt sosteneva che “dal 2021 la Turchia sta utilizzando i fondi europei per costruire muri sulla frontiera con l’Iran”. Muri destinati non solamente a fermare i flussi migratori, ma anche a spezzare i legami tra la popolazione curda del Rojhilat (Kurdistan dell’Est, sotto amministrazione iraniana) da quella del Bakur (Kurdistan del Nord, sotto occupazione turca). Un medesimo popolo anche qui artificialmente separato dalle frontiere statali. Frontiere che – ricordo – sempre più spesso costituiscono il tragico scenario della morte per assideramento di migranti (in buona parte di origine afgana, numerose le donne) fermati dai soldati turchi e rispediti indietro, nella neve e nel gelo. Oltre che di decine di kolbar (spalloni curdi) attaccati per lo più dai soldati iraniani. Attualmente del muro sarebbero già stati realizzati due tronconi, in corrispondenza delle province di Van e di Hakkari. Il primo, costruito dalla società statale TOKI, è lungo circa 45 chilometri e una volta completato dovrebbe raggiungere i 65 chilometri, arrivando quasi alla periferia di Van. Il troncone di Hakkari, più a sud, attualmente sarebbe lungo 16 chilometri ed è previsto che si prolunghi fino a 28. Momentaneamente interrotti per le condizioni invernali, i lavori riprenderanno in primavera. La realizzazione del muro potrebbe fornire qualche ulteriore spiegazione in merito alla destituzione forzata – nell’agosto 2019 – del sindaco, regolarmente eletto, di Van. Poi sostituito da un amministratore imposto con un decreto-legge dal governo turco. Forse un intervento propedeutico alla realizzazione del muro, operazione su cui il nuovo responsabile della municipalità si è mostrato  assolutamente favorevole. Sopra al muro verranno aggiunti fili spinati ed è previsto anche un fossato di circa 200 chilometri. Oltre a 217 torri di guardia e alcuni avamposti militari. Per ora tre rifugiati, quelli accertati almeno, sono deceduti cadendo nei fossati già realizzati. Altri cinque, sempre quelli accertati, respinti verso l’Iran dopo esser riusciti a valicare il confine, sono morti congelati. Di altri, scomparsi, si attende il disgelo per ritrovarne i cadaveri. Va sottolineato che il muro verrebbe finanziato grazie ai fondi europei versati alla Turchia con l’esplicito impegno da parte di Ankara di fermare i flussi migratori verso l’Europa. Quello dei migranti è anche un pretesto, un alibi. Alla Turchia – e indirettamente anche all’Iran – interessa soprattutto frantumare ulteriormente l’unità della Nazione curda (Nazione senza Stato, ma comunque Nazione). Interromperne le relazioni interne: politiche e culturali. Oltre che naturalmente commerciali. Vedi gli attacchi sistematici ai kolbar e al contrabbando, una delle poche alternative alla miseria dilagante in queste zone di confine. Ovviamente nessuno, tantomeno il popolo curdo, sottovaluta la tragedia epocale dei rifugiati, persone senza statuto giuridico. Hanno suscitato orrore – anche nelle anestetizzate coscienze del mondo “civile” – le immagini dei piedi avvolti in sacchetti di plastica di una donna afgana morta assiderata. Respinta alla frontiera, per proteggere dal gelo le mani dei suoi bambini si era privata di scarpe e calze. Inoltre, così come avviene sulla frontiera tra Messico e Stati Uniti, molte donne migranti sono state violentate in prossimità di quella turco-iraniana. E anche quando riescono a raggiungere le grandi metropoli turche, i rifugiati subiscono attacchi di stampo razzista da parte di gruppi nazionalisti e fascisti (come i Lupi grigi).


Gianni Sartori

#Kurds #Tuareg – TUAREG E CURDI: DUE NAZIONI SENZA STATO IN BILICO TRA SPERANZE DI AUTODETERMINAZIONE E POSSIBILI STRUMENTALIZZAZIONI – di Gianni Sartori

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Sinceramente. Scrivendo (vedi: https://ogzero.org/il-deserto-diventa-…) che in fondo i tuareg si potevano considerare come i curdi dell’Africa, intendevo solo cogliere, suggerire un’analogia. Tra due popoli, due Nazioni senza Stato, i cui territori ancestrali (Kurdistan e Azawad) erano stati egualmente frantumati, divisi tra vari Stati. Niente altro. Ovviamente per entrambi si registravano periodiche ribellioni e lotte di liberazione, ma dall’esito piuttosto incerto. Comunque non mi aspettavo che si profilasse una sorta di scenario- fotocopia come quello che si intravede (almeno come possibilità) nei recenti sviluppi. Riassumendo in breve: il progressivo scollamento di alcuni stati del Sahel (tra cui quelli dove vivono e si spostano i Tuareg, il Mali in particolare) dall’ex potenza coloniale francese, una serie di colpi di stato e la penetrante presenza della Russia, sia per via diplomatica che militare (vedi i contractor della Wagner). Con il sostegno di Mosca a regimi che possiamo definire genericamente populisti (sia in chiave anticoloniale che anti-jihadista), forse anche “sovranisti” e sicuramente militarizzati, autoritari. Scontata l’analogia con la Siria e il governo, non esattamente liberale, di Damasco. Dove i curdi del nord e dell’est del Paese si son visti costretti dalle circostanza storiche (tra cui il rischio concreto di genocidio) ad allearsi con gli Stati Uniti (ma non in posizione subalterna) contro Daesh. Se tanto mi da tanto, la visita di alcuni leader tuareg a Roma potrebbe costituire il preludio di uno scenario se non proprio identico, perlomeno simile. E forse l’indicazione di venirne a discuterne in quel di Roma invece che a Parigi è stata suggerita dallo stesso governo francese. Non solo perché è lecito sospettare che dei tuareg i nostri esponenti politici in realtà ne capiscano una beata mazza. Ma perché in questi frangenti (vista il crollo di popolarità dell’Esagono nei territori del Sahel) poteva risultare inopportuno, controproducente. Soprattutto per i tuareg. Ricordo che dopo un iniziale coinvolgimento con alcune forze jihadiste (un errore frutto di inesperienza compiuto dalle milizie tuareg “sul terreno” e immediatamente condannato dai leader in esilio), una parte dei tuareg aveva anche collaborato con l’operazione Barkhane. Quindi ricapitolando. Un Paese (o più di uno, come in Medio oriente) invaso e saccheggiato da bande jihadiste (anche se qui non si tratta della versione locale di Daesh – o almeno non solo – ma soprattutto di emanazioni di Al Qaeda); un governo autoritario, ma non in grado di stroncare tale minaccia (non da solo almeno); la Russia che fornisce assistenza militare; le vecchie potenze colonialiste-imperialiste che in qualche modo cercano di mantenere le loro posizioni (o di rientrare nella partita); un gruppo indipendentista, espressione di una popolazione indigena da sempre calpestata e strumentalizzata che – in cambio di qualche garanzia o promesse di autodeterminazione – si oppone alle milizie islamiste (fornendo i combattenti sul terreno e pagando un alto prezzo in vite umane) esercitando nel contempo una certa pressione sul governo centrale e garantendo indirettamente il mantenimento di una presenza europea. Nel Sahel sostanzialmente della Francia, magari sotto la copertura italiana.
Nel caso del Mali (e forse anche del Niger) un esperimento da manuale direi. Troppo semplice? Forse (anche perché resta da stabilire a chi attribuire il ruolo di potenza regionale – sub imperialista – assunto dalla Turchia), ma è comunque la prima cosa a cui ho pensato leggendo dell’arrivo a Roma (ufficialmente per “riavvicinare i ribelli a Bamako”, la capitale) di alcuni leader dei movimenti tuareg. Tra cui ci sarebbero (condizionale d’obbligo) membri di spicco del Movimento per la liberazione dell’Azawad, della milizia Ganda Izo (“Suono della Terra”, ex Ganda Koy) e del Gruppo di autodifesa dei Tuareg. Ovviamente c’è anche qualche bella differenza. Con tutto il rispetto per i tuareg, credo che il movimento di liberazione curdo sia ben più attrezzato per non farsi strumentalizzare. Sia per il livello di organizzazione e partecipazione raggiunto (anche sul piano militare), sia per il progetto politico e sociale che si sta applicando in Rojava: il Confederalismo democratico. Chissà. Potrebbe fornire ai tuareg un esempio da seguire, da applicare un domani anche nel Sahel…

Gianni Sartori

#SudAfrica #Testimonianze – FEBE CAVAZZUTTI ROSSI E GASPARE CAVAZZUTTI, TESTIMONI DI FEDE E IMPEGNO CIVILE – di Gianni Sartori

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«Hanno vinto loro: le donne nelle baracche di lamiera, di pezzi di cartone, ad arrostire coi bimbi fra le braccia sotto il sole del giorno e a vederli morire nel gelo delle notti, con l’acqua sempre lontana, sempre poca, magari da rubare in un cimitero di ricchi bianchi e poi essere imprigionate per furto. Hanno vinto i bambini (…) senza scuole, senza insegnanti, senza libri di testo, con programmi declassati, pensati per una razza inferiore».
(Da un articolo di Febe Cavazzutti Rossi scritto per “Riforma” nel maggio 1994 dopo le elezioni vinte dall’African National Congress)

Febe Cavazzutti Rossi se n’era andata nella notte del 2 febbraio 2016. Lasciando un vuoto incolmabile.
Nata nel 1931 a Vicenza, figlia di Gaspare Cavazzutti (un pastore metodista che aveva collaborato del missionario britannico Henry James Piggot) Febe era vissuta per gran parte della sua vita a Padova come organista, predicatrice locale, animatrice e attiva testimone dell’impegno ecumenico.
A Vicenza si recava regolarmente in quanto insegnante di inglese e proprio sulla strada tra Vicenza e Padova capitò il brutto incidente che doveva segnarne pesantemente le possibilità di movimento, ma non l’impegno religioso e sociale. Con un’energia che per chiunque abbia avuto la fortuna, l’onore di conoscerla ha rappresentato un esempio e un ricordo indelebili.
Per oltre un decennio aveva ricoperto il ruolo di vicepresidente della World Methodist Historical Society partecipando a importanti momenti assembleari del movimento ecumenico europeo e contribuendo a creare legami con varie istituzioni assistenziali in diverse Nazioni.
Con i suoi studi e ricerche aveva contribuito alla vitalità del metodismo e della sua storia (soprattutto  per  Veneto e anche a Vicenza). Per esempio ripubblicando in lingua italiana alcuni sermoni di John Wesley (La perfezione dell’amore, Claudiana, 2009) e un’importante biografia su Charles Wesley (fratello di John, entrambi considerati gli iniziatori del metodismo in Gran Bretagna nel XVIII secolo). Tra gli altri suoi libri segnalo  “Presenza protestante nel Veneto dell’800” (pubblicato nel 2011) e “Santificazione nelle tradizioni Benedettina e Metodista” del 1998.
Fondamentale poi il suo impegno per i diritti dei Neri in Sudafrica, oppressi dal regime dell’apartheid.
E sicuramente era a quei diseredati, alla loro resistenza civile che Febe aveva donato il cuore.
Un conflitto, quello che insanguinava la RSA nel secolo scorso che si rifletteva anche all’interno delle Chiese, locali e non.
Al punto che l’Alleanza riformata mondiale (l’attuale Comunione mondiale di Chiese riformate -Wcrc) sospese alcune chiese del Sud Africa che pretendevano di trovare giustificazioni teologiche per il regime segregazionista.
Per la sua attività antirazzista nella RSA (dove ebbe modo di collaborare con Desmond Tutu, Beyers Naudé, Sol Jacob…) venne addirittura espulsa dal Paese.
Proseguì comunque, punto di riferimento indispensabile, organizzando iniziative di solidarietà (come quella dell’Arena di Verona nel 1987) e scrivendo articoli di denuncia su “Riforma”. Praticamente fino agli ultimi suoi giorni, come posso testimoniare di persona. Senza mai sentirla lamentarsi per quanto consapevole del male che la andava consumando.
Rispettandone la volontà, Febe è stata ricordata non con un servizio funebre particolare, ma nel corso del culto ordinario presso la Chiesa metodista di Padova il 7 febbraio 2016.
Ma parlando di Febe non si può non ricordare anche l’opera del padre Gaspare Cavazzutti (Padova, 16 maggio 1855 – Firenze, 10 ottobre 1950) pastore della Chiesa Metodista Wesleyana, Segretario della Missione Metodista e direttore dell’Orfanotrofio femminile evangelico di Intra.
Aveva iniziato a lavorare nel 1875, collaborando con il pastore Francesco Sciarelli in una vera e propria “battaglia sindacale” (di risonanza nazionale) per il riposo settimanale ai lavoratori.
Dal 1881 intraprese l’attività pastorale e fu inviato a Roma per frequentare la Scuola di Teologia della Chiesa Metodista.
Poi a Viareggio (come “ministro sotto prova”) esuccessivamente a Cremona e Vicobellignano. Sposato dal 1884 con Sidonia Priska Patzold, dalla loro unione nacquero cinque figli.
Inviato a Omegna nel 1882, vi fondò una comunità metodista incontrando però l’ostilità del clero cattolico locale. Tanto che vennero sfrattati dal luogo di culto e costretti a tenere le riunioni religiose in abitazioni private.
Grazie al contributo di alcune personalità (tra cui la regina Guglielmina d’Olanda), riuscì infine a costruire un tempio per la comunità inaugurato nel 1897 alla presenza di Henry James Piggott. Nel 1988 venne inviato ad assistere, non solo spiritualmente, i lavoratori (manovali indigenti e sfruttati, in genere analfabeti) impegnati nel traforo del Sempione. A Iselle aprì un asilo, una scuola elementare e una scuola serale per gli operai e i loro figli.
Con il nuovo secolo continuò a occuparsi della condizione dei lavoratori. Per esempio a Milano con le maestranze che andavano installando le linee elettriche cittadine. Nel frattempo era entrato in contatto con William Burgess, successore di Henry James Piggot alla guida dell’opera metodista wesleyana in Italia. Segretario della Missione metodista dal 1903 al 1917, in seguito venne nominato pastore a Salerno. Rimasto vedovo nel 1918 e trasferito a Cremona nel 1920, si risposò nel 1921 con Anna Schmellenkamp con cui ebbe tre figlie.
Operò quindi a Intra in qualità di direttore dell’Orfanotrofio femminile evangelico. Fu pastore della comunità di Vicenza (dove appunto nacque Febe) dal 1929 al 1932 e in seguito di quella di Viareggio. Encomiabile il suo impegno in difesa degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, periodo in cui collaborò con Anna Maria Visco Gilardi. Nell’ultimo periodo della sua vita si occupò dei ragazzi dell’istituto Pestalozzi di Firenze.

Gianni Sartori