
Qualche domanda in cerca di risposte.
1) «Ogni territorio, nello schema del modo di produzione capitalista, ha un suo ruolo assegnatogli, da cui si ricava estrazione di valore e capacità di controllo della popolazione; non è elemento neutro né tantomeno naturale. D’altro canto è un luogo dove operano e vivono soggetti sociali, che interagiscono con questo secondo le proprie priorità e interessi» (da “carmilla online”, Jack Orlando, recensione a: Alberto Magnaghi, a cura di, Quaderni del Territorio. Dalla città fabbrica alla città digitale (1976-1981), Derive Approdi, Roma, 2021) La domanda è: quali sono adesso le priorità e gli interessi di un movimento di indipendenza in Sicilia?
2) «La nazione napolitana ha i suoi comizi, e son quei parlamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei baroni e del fisco… Ma quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia a dolersi di una istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti dei suoi diritti?» – Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, BUR, Milano 1998. In realtà, non accadde solo per la rivoluzione napoletana del ’99 di “imitare” la rivoluzione francese. Dal 1789, non c’è stata rivoluzione o cambiamento degli assetti istituzionali nel mondo che non abbia preso a prestito il “combinato disposto” di Stato e territorio. Non c’è statualità senza territorio (confini) su cui esercitare la propria sovranità, e non s’è dato territorio insorto che non abbia aspirato e aspiri a farsi Stato in proprio (magari declinato in “autodeterminazione dei popoli”): lo Stato è territoriale, o non è. La domanda è: quale può essere la forma istituzionale a cui aspirare in cui si esercita sovranità popolare senza che questo comporti obbligatoriamente la centralizzazione della decisione politica e, in sostanza, del potere?
3) Lo Stato è un manufatto politico moderno. Proprio come la nazione, che è un costrutto recente, benché la “narrazione nazionalista” si pretenda rappresentare una storia antica e continua (con l’invenzione della tradizione). Eppure, per dirla brutalmente con il maresciallo Pilsudski, fondatore della moderna Polonia indipendente: «È lo Stato a fare la nazione, e non la nazione lo Stato». All’inizio del XX secolo un intenso e appassionato dibattito si svolse nella sinistra marxista: il Bund ebraico (la cui organizzazione degli operai ebrei si estendeva nei territori di Russia, Polonia e Germania) e l’austro-marxismo (Bauer, Renner, Adler), alle prese con la crisi dell’Impero austroungarico, sostenevano il principio della “autonomia culturale”: una nazione era una comunità identificata da una “cultura”: si separava così il nazionalismo dalla sovranità statale e la nazionalità dal territorio. Il leninismo, invece, includeva il territorio nella definizione di nazione. Nazione e Stato-territoriale sono interconnessi: «gli Stati creano nazioni per riempire le proprie strutture, le nazioni si sentono incomplete senza la sovranità statale» (le citazioni sono da: Eric Hobsbawm, Nazionalismo, Rizzoli, 2021). La domanda è: l’indipendenza è solo un processo di “autonomia culturale” o è anche un processo politico di “conquista” di un territorio?
4) Tutto il processo liberal-democratico dell’Ottocento di costruzione delle nazioni e degli Stati si basava su un principio di “dimensione geografica”: le nazioni dovevano essere grandi, perché la grandezza consentiva lo sviluppo della produzione industriale e la creazione di un mercato interno; il libero scambio avrebbe poi “garantito” il progresso dei rapporti tra gli Stati-nazione. L’internazionalismo proletario segue, a modo suo, questo schema: «S’intende da sé, che per poter combattere, in generale, la classe operaia si deve organizzare nel proprio paese, in casa propria, come classe, e che l’interno di ogni paese è il campo immediato della sua lotta. Per questo la sua lotta di classe è nazionale, come dice il Manifesto comunista, non per il contenuto, ma “per la forma”. Ma “l’ambito dell’odierno Stato nazionale”, per esempio del Reich tedesco, si trova, a sua volta, economicamente “nell’ambito” del mercato mondiale, politicamente “nell’ambito” del sistema degli Stati. Ogni buon commerciante sa che il commercio tedesco è al tempo stesso commercio estero, e la grandezza del signor Bismarck consiste appunto in una specie di politica internazionale» (Karl Marx, Critica al Programma di Gotha, Savelli, 1975). La domanda è: la globalizzazione – che è processo “compiuto” e non “in atto” – consente, favorisce, è indifferente alla formazione di “piccole nazioni” o le penalizza?
5) «For greater clarity we shall designate the three above-mentioned fundamental phases of the national movement as Phase A (the period of scholarly interest), Phase B (the period of patriotic agitation) and Phase C (the rise of a mass national movement)» – Miroslav Hroch, Social preconditions of national revival in Europe, Columbia University Press, New York, 1985). La domanda è: in che fase siamo in Sicilia? Non siamo certo nella fase C (un movimento di massa), ma non siamo neppure nella fase A, quella di un interesse solo “accademico”, da studiosi. Siamo già nella fase B – un periodo di agitazioni?
Lanfranco Caminiti