Un incontro con Yilmaz Orkan di UIKI Onlus
Mese: dicembre 2021
#7NotePerUnaNuovaEuropa #Catalunya
#Syria #Coloni – ULTERIORI INSEDIAMENTI ISRAELIANI NEL GOLAN SIRIANO – di Gianni Sartori

Per quanto sia stata definita “festosa”, la recente riunione del governo israeliano proietta un’ombra lugubre sul futuro delle Alture del Golan.
Infatti ha fornito l’occasione – oltre che lo scenario – per pubblicizzare la nuova operazione di colonizzazione (si può ancora dire?) di questi territori siriani. Conquistati da Israele nel 1967 e annessi ormai da 40 anni (formalmente nel 1981). Si prospetta la creazione di nuovi insediamenti con almeno settemila nuovi alloggi e relative infrastrutture in grado di ospitare decine di migliaia di coloni. Tempi previsti: cinque anni con adeguati, sostanziosi investimenti (circa 280 milioni due euro).
Sul numero complessivo dei futuri coloni finora sono stati forniti dati diversi. In questi giorni si è parlato di un raddoppio (attualmente nel Golan vivono circa 25mila coloni israeliani e quasi altrettanti drusi che in genere si considerano e definiscono siriani), ma qualche mese fa Naftali Bennett si era spinto spinto a ipotizzare addirittura la cifra di centomila nel giro di qualche anno. Tre sarebbero (secondo gli osservatori) le circostanze favorevoli a tale operazione. Innanzitutto il vasto consenso politico interno, da destra come da sinistra (in sintonia con la composizione dell’attuale coalizione al governo).
Oltre alla vera o presunta debolezza dell’attuale governo siriano di Bachar al-Assad (seconda circostanza favorevole), avrebbe avuto un certo peso anche la cosiddetta “eredità trumpiana” (terza circostanza favorevole). Con un evidente riferimento al riconoscimento da parte dell’ex presidente statunitense (nel 2019) della piena sovranità israeliana sul Golan. Decisione che il successore Biden si è ben guardato dal sconfessare.
Una palese violazione del Diritto internazionale, alla faccia dell’opinione pubblica e della comunità internazionale (vedi la risoluzione 497 del Consiglio di Sicurezza) che lo considera ancora territorio siriano a tutti gli effetti. Ossia da restituire a Damasco.
Determinante dal punto di vista strategico, il controllo del Golan consente a Israele di accedere a cospicue risorse idriche in grado di rifornire la Galilea (oltre ad alimentare il lago di Tiberiade).
Anche se si è notato un certo imbarazzo da parte di qualche esponente del partito di sinistra Meretz, solo il partito islamico Raam (membro della coalizione, ma senza ministeri) non avrebbe preso parte alla scampagnata governativa.
A protestare, oltre ad alcune organizzazioni ambientaliste in quanto gli insediamenti sono deleteri per l’ecosistema, il deputato della lista araba unificata Ahmad Tibi che coerentemente ha definito il Golan “territorio siriano sotto occupazione”.
Gianni Sartori
#7NotePerUnaNuovaEuropa #Ireland
#7NotePerUnNuovoMondo #NativeAmericans
#Kurds #Kobane – TRA ATTACCHI CON I DRONI E MINACCE DI NUOVE INVASIONI, KOBANE RESISTE -di Gianni Sartori

Sarà stata anche una coincidenza, ma l’attacco turco del 25 dicembre contro un’abitazione nel distretto di Şehîd Peyman (a est di Kobane) che è costato la vita a cinque persone, (due al momento dell’attacco, altre tre il giorno dopo per le ferite riportate) ha tutta l’aria di una ritorsione per un attentato già pianificato dallo Stato islamico, ma sventato dalle FDS.
Questi i nomi delle cinque vittime, forniti dall’Amministrazione autonoma del Nord e dell’Est della Siria (AANES): Nûjiyan Ocalan, Viyan Kobanê, Rojîn Ehmed Îsa, Mirhef Xelîl Îbrahîme un giovane chiamato Walid (di cui non si conosce ancora il nome completo). Tutti loro militavano nel Movimento delle giovani donne o nel Movimento dei giovani rivoluzionari. Almeno quattro degli altri feriti sono ancora all’ospedale.
Mentre gli abitanti di Kobane scendevano in strada per protestarecontro queste azioni terroristiche (e anche per l’indifferenza mostrata in più occasioni dalla comunità internazionale) le Forze democratiche siriane (FDS) con un comunicato mettevano in evidenza come “non è una coincidenza se l’attacco contro Kobanê è avvenuto nello stesso giorno di un’operazione riuscita contro lo Stato islamico”.
Stando sempre al comunicato delle FDS, si sarebbe trattato di un attacco pianificato contro una prigione di Hassakê. I membri delle bande jihadiste pronti a entrare in azione sono stati arrestati e imprigionati. Tra di loro un personaggio già conosciuto, l’emiro Mihemed Ebd Elewad, responsabile di numerosi massacri nella regione. Non è certo fuori luogo pensare che la Turchia si sia risentita per questo colpo inferto dalle FDS a una banda di mercenari sul libro paga di Ankara.
Il continuo stillicidio di operazioni del genere (bombardamenti e attacchi con droni, a spese soprattutto dei civili) potrebbe anche esprimere la frustrazione di Erdogan per le difficoltà incontrate nel procedere a un’ulteriore invasione nel nord e nell’est della Siria. Infatti, diversamente da quanto accadde nel 2019 quando Trump sostanzialmente dette il suo benestare all’attacco turco contro una parte del Rojava, oggi come oggi la comunità internazionale sembrerebbe (il condizionale resta d’obbligo) meno disposta a chiudere entrambi gli occhi.
O almeno questa sembra essere l’opinione (o forse la speranza) di un comandante delle FDS recentemente intervistato da Al-Monitor. Mazlum Kobane (conosciuto anche come Mazlum Abdi) ritiene di potersi fidare dell’impegno preso da Biden di non abbandonare la regione, anche se quanto è avvenuto recentemente in Afghanistan, lo ammette, non è incoraggiante (dal punto di vista dei curdi ovviamente). In ogni caso considera assolutamente necessario un accordo tra i curdi e Damasco, un accordo di cui solamente la Russia può rendersi garante. Ovviamente il comandante intervistato non ha scordato quanto avvenne solo qualche anno fa, quando la Russia consentì alla Turchia di invadere Afrin.
Nel dubbio, sia per timore di una nuova aggressione turca che per la pessima situazione economica (tra siccità e Covid-19) molti curdi se ne vanno passando illegalmente la frontiera.
Gianni Sartori
#Kurds #Syria – CURDI SOTTO IL TALLONE DI FERRO DI ANKARA ANCHE NEL NORD DELLA SIRIA – di Gianni Sartori

Dal Rojava, anche nel giorno di Natale, giungono altre brutte notizie. Se ormai è ordinaria amministrazione sentire degli attacchi ai civili con i droni (l’ultimo, quello del 25 dicembre, ha causato due morti e sette feriti, di cui un paio in gravi condizioni), suscita raccapriccio la notizia del ritrovamento del cadavere di una curda bruciata viva, Zeinab Abdo. Anche perché questa morte brutale è giunta dopo una serie infinita di tribolazioni subite dalla donna sessantenne.
Da mesi viveva in una casa diroccata nei pressi del villaggio di Rota (distretto di Mabata) dopo che le milizie filoturche avevano confiscato la sua casa arrestando praticamente tutti i membri della famiglia (il marito, i figli, le nuore…). Una delle due nuore – Zelikhe Walid Omar – era stata rimessa in libertà nell’agosto 2021 (dopo oltre un anno di detenzione) avendo perso la ragione a causa delle torture e degli stupri subiti.
Violenze subite anche da Zeinab Abdo durante il periodo in cui era nelle mani dei miliziani jihadisti che l’avevano liberata solo da qualche mese.
Per cui non si può escludere che si sia tolta volontariamente la vita per disperazione.
Zeinab era stata arrestata nel giugno 2020, così come gli altri componenti della famiglia di cui ancora non si conosce la sorte: il marito Osman Majid Naasan (65 anni), i suoi figli Jankin (32 anni), Sheyar (30 anni) e Mohammed (28 anni).
A finire nelle mani jihadiste anche le due nuore, Zelikhe Walid Omar (30 anni, l’unica, oltre a Zeinab, ad essere stata finora liberata, ma solo perché impazzita per le violenze subite) e Jaylan Hamalo. Nessuna notizia anche di due bambini, tra cui la figlia (di nemmeno 2 anni) di Jankin e Zelikhe.
In novembre era stato diffuso un video in cui si vedeva una senzatetto, Zelikhe Walid Omar, rovistare tra i rifiuti con lo sguardo perso nel vuoto. Da fonti locali si veniva a saper che la donna vagava da circa tre mesi per le strade di Afrin in cerca di cibo. Avviene anche questo nel Rojava invaso e occupato dalla Turchia e dalle sue bande di mercenari.
Gianni Sartori
#7NotePerUnNuovoMondo #NativeAmericans
#Kurds #MemoriaStorica – 2015-2016: ATTACCO AL BAKUR – di Gianni Sartori

Tra i molteplici conflitti che hanno in qualche maniera coinvolto le organizzazioni curde in quest’ultimo decennio quello del 2015 nell’Anatolia orientale (Bakur, il Kurdistan sottoposto all’occupazione turca) tra esercito turco e PKK è stato probabilmente il maggiormente privo di copertura mediatica (se si escludono i siti curdi militanti).
Il conflitto tra Ankara e il movimento di liberazione curdo è notoriamente di vecchia data. Rinnovato e inasprito periodicamente se pur interrotto da qualche tentativo di “soluzione politica” (l’ultimo risalente al 2014).
Oscurato, dicevo, soprattutto in confronto a quello passato alla storia come la “battaglia di Kobane” (settembre 2014 – gennaio 2015) che vide fronteggiarsi in armi lo Stato islamico con le milizie YPG (Unità di difesa del popolo), braccio armato del PYD (Partito di unione democratica) ritenuto un’emanazione del PKK.
E oscurato anche rispetto alla battaglia di Mosul (ottobre 2016 – luglio 2017) tra il solito Stato islamico da un lato e l’esercito e le milizie irachene dall’altro.
Invece quanto avvenne in Bakur tra il luglio 2015 e la primavera del 2016 (e che – a conti fatti – rappresentò se non una completa disfatta, perlomeno una sconfitta per il PKK), non solo all’epoca venne trascurato, ma rimane ancora sostanzialmente nel dimenticatoio. Un “buco nero” della memoria storica.
Una delle ragioni potrebbe essere stato il mancato coinvolgimento di forze straniere (presenti invece nei due conflitti sopracitati, si trattasse di USA, Russia, Iran, monarchie del Golfo o altro) per cui venne declassato a mera “questione interna”.
Agli inizi del 2015 il processo di pace avviato nel 2012 appariva sostanzialmente bloccato e la tregua (dichiarata nel 2013) reggeva a stento. A far precipitare la situazione arrivò la decisione della Turchia di inasprire la detenzione di Ocalan (con cui fino al giorno prima il governo turco stava trattando di persona). Una decisione inaspettata dovuta – forse – ai timori di Ankara per l’ulteriore radicamento di PYD e YPG nel Rojava. O – sempre forse – un modo per rinforzare l’alleanza politico-elettorale tra il partito di Erdogan e le forze nazionaliste turche (ostili a ogni sorta di patteggiamento con i curdi in generale e con il PKK in particolare).
Dopo un aspro scambio reciproco di accuse (mentre Erdogan rilanciava la definizione di “organizzazione terroristica” contro il PKK, il Partito dei lavoratori curdi evocava una plausibile “strategia della tensione” messa in campo da Ankara).
Almeno due eventi funzionarono da innesco irreversibile. L’attentato rivendicato dallo Stato islamico del 20 luglio 2015 a Suruç (32 vittime tra i militanti della Federazione delle associazioni dei giovani socialisti che erano giunti nella città alla frontiera con la Siria per contribuire alla ricostruzione di Kobane) venne interpretato dal PKK come una prova della collusione tra Turchia e integralisti islamici.
E poi la rappresaglia del 22 luglio 2015 quando vennero uccisi due poliziotti turchi. Di conseguenza si arriva alla sospensione del cessate-il-fuoco tra esercito turco (che comunque non aveva mai smesso di bombardare gli insediamenti del PKK nel nord dell’Iraq) e la guerriglia curda.
A questo punto la situazione precipita e (forse per una scelta precisa del PKK che si illudeva di costringere così la Turchia a ritornare al tavolo dei negoziati), nel Kurdistan “turco” (Bakur) scoppia l’insurrezione.
Gli scontri determinarono la distruzione di interi quartieri a Cizre, Idil,Diyarbakir, Silopi…e la morte di decine di civili coinvolti, loro malgrado, nel conflitto.
Con il solito corollario di arresti di massa, esecuzioni extragiudiziali, torture…
Forse il PKK aveva sopravvalutato il credito, innegabile, conquistato dai curdi (e dalle YPG in particolare) a livello internazionale con la battaglia di Kobane e l’intervento a difesa della minoranza yazida (abbandonata in mano ai tagliagole dell’Isis dai peshmerga del PDK).
In realtà le nazioni occidentali si guardarono bene anche soltanto dal rimproverare Ankara per il devastante intervento. quanto alla stremata popolazione curda del Bakur, non si lasciò coinvolgere più di tanto (se non in quanto vittima) nel conflitto rimasto appannaggio dei combattenti del PKK e del TAK (Falchi per la libertà del Kurdistan). Questi ultimi non esitarono a compiere attentati contro caserme e anche all’aeroporto di Istanbul (azioni talvolta condannate – almeno ufficialmente – dal PKK in quanto colpivano pure i civili).
L’insurrezione nelle città del Bakur si concluse nel 2016 quando i guerriglieri si rifugiano tra i monti Qandil (Nord dell’Iraq, in Bashur, il Kurdistan entro i confini iracheni).
Si mantennero invece fino ai nostri giorni – consolidandosi ed esasperandosi ulteriormente – la presenza militare e la repressione turche. A farne le spese, oltre alla popolazione civile, il Partito democratico dei popoli (HDP).
Il passo successivo di Ankara (per completare l’opera, se non di sradicamento totale, perlomeno di contenimento dell’influenza del PKK) è stato quello di intervenire militarmente nel Nord-Est della Siria.
Da dove non sembra intenzionata a sloggiare, almeno per ora.
Gianni Sartori
