
Nei giorni scorsi è stata pubblicata dal quotidiano gallego “Nos Diario” un’intervista con il prof. Aureli Argemì, presidente emerito del Ciemen di Barcelona e grande amico del nostro Centro Studi Dialogo, raccolta da Alberte Mera. Ne pubblichiamo la traduzione in italiano.
Aureli Argemí: “Tessere indipendenze”
Intervista di Alberte Mera – pubblicata su Nòs Diario (sezione Sermos Galiza)
Nei giorni prossimi al 1° di ottobre, il giorno in cui quattro anni fa i cittadini catalani votarono in un referendum su quello che volevano essere, abbiamo parlato con Aureli Argemí (Sabadell, Catalunya, 1936). Questo teologo, attivista ed indipendentista di lunga data è il fondatore e presidente emerito del Ciemen ed un infaticabile difensore dei diritti delle Nazioni oppresse. “E’ toccato a me seminare”, ammette, poiché sia lui che il Ciemen sono al centro di molti degli strumenti attuali dei popoli: dalla Conferenza delle nazioni senza Stato dell’Europa occidentale all’Assemblea Nacional Catalana. “Un vero amico della Galizia”. Così definisce Aureli Argemí la professoressa María Pilar García Negro. Entrambi si sono ritrovati per anni in conferenze, dibattiti e nella costruzione di iniziative a favore dei diritti nazionali e linguistici della Galizia e della Catalunya. La verità è che Argemí conosce da vicino la Galizia e c’è persino un curioso filo tra il nostro paese e la sua formazione intellettuale. Prima di fondare nel 1974 il Centro internazionale per le minoranze etniche e le nazioni (Ciemen) Escarré e molte altre iniziative in difesa dei popoli, è stato monaco nell’abbazia di Montserrat. Proprio in questa enclave si riunirono il 1° febbraio 1938 le Cortes della Seconda Repubblica che misero in discussione – grazie all’opera titanica di Daniel Castelao – lo Statuto della Galizia, già votate in un plebiscito nel 1936.
—Nel 1965 lei fu nell’Abbazia di Montserrat come segretario dell’abate Aureli Escarré e in quell’anno andò in esilio con lui. In che modo il suo soggiorno a Montserrat e il lavoro al fianco di Escarré l’hanno influenzata?
Il Montserrat nel Medioevo era già un centro di confluenza per i pellegrini di tutto il mondo. È diventato un santuario culturale per una sorta di internazionalizzazione dei messaggi evangelici e della difesa dei diritti dei popoli. E questo è sempre avvenuto. Quando arrivò la Prima Repubblica, la prima cosa che fece il governo di Madrid fu vietare al Montserrat di avere una dimensione internazionale e tentò di chiudere il monastero perché era un centro, soprattutto, di rivendicazione nazionale catalana. Non riescirono a chiuderlo. Poi, durante la Guerra Civile, si tentò distruggere il monastero, i monaci dovettero andarsene, alcuni furono uccisi. Tornarono quindi in un quadro desolante ed vollero eleggere un nuovo abate, Aureli Escarré, che proveniva da una lunga esperienza in Italia, aveva conosciuto il fascismo, e sosteneva che il Montserrat doveva essere un pilastro contro il fascismo e a favore di una Chiesa aperta e progressista, contro il nazional-cattolicesimo che prevaleva in Spagna. Durante il suo mandato come abate del Montserrat, parlò spesso pubblicamente contro il regime che si proclamava cristiano e non aveva nulla a che fare con i principi del cristianesimo e questo causò problemi con il regime. Il culmine fu quando nel 1963 Escarré fece delle dichiarazioni a “Le Monde”, pubblicate in prima pagina, in cui definiva lo Stato come un regime fascista, dittatoriale e contrario ai diritti umani e alla lingua, alla cultura e alla Nazione catalana. Infine nel 1965 l’abate dovette andare in esilio e io lo accompagnai in esilio come suo segretario fino alla morte.
—È proprio in Italia, nel 1974, che fondò il Ciemen. Cosa l’ha convinta a crearlo?
Ho avuto modo di conoscere praticamente tutta l’opposizione al regime franchista: di destra, di centro, di sinistra… ho incontrato il presidente in esilio della Generalitat, Josep Tarradellas; l’ex capo degli anarchici, Federica Montseny, e persone del movimento democratico-cristiano dentro e fuori l’Italia, anche dell’Unió Democràtica de Catalunya. Queste conoscenze hanno notevolmente ampliato la mia visione del mondo e quando è morto l’abate Escarré ho pensato che questa potesse essere la base per un centro di ricerca sulla conoscenza dei Popoli senza Stato, per la difesa dei loro diritti e per la creazione di una rete di solidarietà tra loro. Ecco, all’origine del Ciemen c’è la mia esperienza in esilio, i contatti con tante persone che hanno combattuto per la liberazione dei popoli e la necessità di avere un centro in cui convergere. Ho fondato il Ciemen in Italia, in Spagna era impossibile, ma poi, nel sud della Francia, nell’abbazia di Cuixà (Conflent), in Catalogna Nord, dove ho vissuto per alcuni anni, abbiamo iniziato ad organizzare le Giornate internazionali del Ciemen. In quei giorni ho conosciuto María Pilar García Negro. Lì abbiamo discusso i problemi delle Nazioni senza Stato. È stata un’iniziativa pionieristica in Europa, grazie all’importante confluenza di persone provenienti da ogni parte. Dopo quella prima iniziativa iniziammo ad organizzare collaborazioni tra i popoli, all’inizio con galiziani e baschi. Poi, nel 1982-1983, abbiamo fondato la Conferenza delle Nazioni senza Stato in Europa, e questa aveva già una base più ampia. Fu un’estensione di quelle conferenze iniziate a Cuixá e che ebbero una grande risonanza. Molti se ne ricordano ancora perché si era venuta a creare una rete di collaborazione tra i popoli d’Europa. Infine nel 2012 abbiamo fondato un’altra organizzazione che aveva una dimensione più ampia: la Rete Internazionale dei Diritti Collettivi dei Popoli. E questa è la strada percorsa dal Ciemen in collaborazione con Nazioni senza Stato.
-Nell’eredità del Ciemen c’è anche la pioneristica Dichiarazione universale dei diritti linguistici.
Il Ciemen è stato anche ed è ancora oggi una scuola di ricerca per la conoscenza dei popoli e il riconoscimento dei loro diritti. E sì, uno dei frutti più importanti di questa ricerca ha visto la luce nel 1995 quando abbiamo pubblicato con la collaborazione di esperti di tutto il mondo la Dichiarazione Universale dei Diritti Linguistici. Mi piacerebbe che anche in Galizia si potessero organizzare eventi anche per questo anniversario, ci sono stati galiziani che hanno partecipato alla realizzazione di questa Dichiarazione, che è molto importante perché fu la prima volta che si parlò di lingue, ma soprattutto si parlò del soggetto delle lingue, che sono le persone. Non esistono lingue più o meno rilevanti, sono tutte ugualmente importanti perché sono un diritto delle persone. La predisposizione a rendere predominanti alcuni linguaggi e a rendere minoritari altri è contro i diritti linguistici fondamentali. E un’altra questione che è stata per noi una base dottrinale è la Dichiarazione Universale dei Diritti Collettivi dei Popoli, del 1989, che ha avuto una grande evidenza ed è la base dell’Alleanza Libera Europea, un gruppo che riunisce gli eurodeputati a favore della liberazione dei popoli.
—Nel rapporto Galizia-Catalunya di quegli anni c’è anche la partecipazione all’Ufficio Europeo per le Lingue meno diffuse.
Il Bureau è nato in Irlanda per difendere le lingue allora minoritarie. In ogni caso saranno minoranza, perché le lingue sono lingue e tutte sono minoranza nel mondo. Nessuna lingua appartiene a tutti, anche l’esperanto ha fallito. La pluralità è inerente alla natura umana. Nacque così il Bureau con l’idea di creare uno spazio per lavorare sul coordinamento delle politiche favorevoli a questi linguaggi. In Catalogna ne siamo diventati membri e posi come condizione che avremmo dovuto ammettere come membri anche Galiziani e Baschi; mi è stato poi chiesto di cercare degli interlocutori e ovviamente li ho trovati in Galizia in María Pilar García Negro. Poi è stata sostituita nell’Ufficio di Presidenza dalla professoressa María del Carmen Fernández Pérez-Sanjulián. Erano questi gli interlocutori in Galizia. Allo stesso modo, prima c’erano stati anche interlocutori dalla Galizia nella Conferenza delle Nazioni senza Stato d’Europa, provenienti da tutti i partiti con radici nazionali galiziane. C’era Bautista Alvarez, per esempio, che rappresentava i comunisti, e anche persone su posizioni più moderate. Ma sempre alla base di tutto c’era: “Non difenderemo l’autonomia, ma il diritto all’Autodeterminazione dei popoli”. Questa era la base per poter essere un membro della Conferenza delle Nazioni senza Stato.
—E nell’Europa di oggi, dove collocherebbe i principali focolai di conflitto territoriale e di aspirazioni nazionali
Alcuni anni fa abbiamo vissuto il processo di recupero dei diritti dei popoli dell’Europa orientale. È stato un momento importante per vedere la possibile mappa futura dell’Europa. Quando l’URSS si è praticamente sciolta, emersero i diversi popoli e alcuni arrivarono ad esercitare il Diritto fondamentale all’autodeterminazione. E anche dall’altra parte, diciamo nel mondo della Comunità Europea, abbiamo visto dei processi importanti. Il caso più avanzato è quello della Scozia, dove l’indipendenza è attualmente considerata come qualcosa per non essere separato dagli altri (europei – NdT), ma per meglio integrarsi in un progetto comune. L’indipendenza è sempre più vista come la possibilità di creare un progetto comune in cui tutti i popoli siano sullo stesso piano. Questa è precisamente la base ideologica del Partito nazionale scozzese (SNP): per integrarsi, senza dipendenza. C’è poi la Catalunya, che il 1° ottobre 2017 ha esercitato il Diritto all’autodeterminazione, pur non raggiungendo l’indipendenza. Poi c’è il Belgio dove ci sono importanti processi per arrivare a superare la divisione che attualmente esiste in quello Stato, che è totalmente artificiale. C’è anche il caso della Corsica, dove hanno vinto i partiti nazionali con il 64% di voti alle elezioni di tre mesi fa. Ci sono poi altri processi meno avanzati ma con una forte indicazione che le condizioni attuali possono essere superate. Li troviamo in Galizia, nei Paesi Baschi, in Sardegna… Ci sono dei processi ma c’è sempre un freno allo Stato. Gli Stati mentono quando affermano che il Diritto all’autodeterminazione è un diritto delle colonie, perchè abbiamo visto che in Europa è stato più volte esercitato negli ultimi anni. Ci sono diritti inalienabili e che appartengono a tutti i popoli, siano essi colonizzati o semplicemente vogliano esercitare il diritto fondamentale di essere se stessi.
—In Catalunya vi siete siete sentiti negli ultimi anni come orfani di questa Unione Europea, che alla fine è un’Unione di Stati e non di popoli?
Se leggiamo bene la storia dell’Europa vediamo che dopo la Seconda Guerra Mondiale i padri dell’Europa -Schuman, De Gasperi…- dicevano che i trattati tra Stati in Europa finivano sempre male perché erano trattati tra potenze e poi finivano in guerre.
Si sono chiesti perché non fare un’Unione europea sulla base dei cittadini e dei loro popoli. Questa era l’intenzione dell’Europa del futuro. Ma purtroppo sappiamo che gli Stati hanno rubato l’idea e ne sono diventati i proprietari dicendo che erano loro a rappresentare i popoli. Confondono Stato e popolo e sono visti come una garanzia di pluralità in Europa. Gli Stati non credono molto nell’UE, ma considerano necessario essere difesi in un mondo che è globale. E cosa è successo? Molte persone, popoli e lingue europee sono state emarginate per essere differenti. Differenti dall’idea di unità che hanno gli Stati, perché l’unità e l’Europa sono il frutto della pluralità di culture, lingue e popoli. Siamo contrari a questa unificazione e globalizzazione che mette il potere nele mani di pochi che opprimono gli altri.
—Inoltre, il comportamento dell’Europa con i popoli è paradigmatico guardando il suo sostegno alla Turchia. Nel Ciemen hanno studiato molto il caso curdo.
Il caso curdo è curioso. Quando l’Impero ottomano cade, le grandi potenze, Francia e Inghilterra, si divisero il territorio del vecchio impero con l’appoggio dell’URSS. Crearono l’Iraq e l’Iran, ma c’era un popolo di mezzo e non sapevano dove metterlo perché aveva due ricchezze essenziali: acqua (lì nascono il Tigri e l’Eufrate) e petrolio. Ci fu una lotta tra i diversi Stati che si stavano formando e ci fu un trattato per cercare una soluzione, in modo che i curdi avessero il loro Stato. Ma quel trattato non si applicò e oggi i curdi sono in Turchia (più di 20 milioni), Siria, Iraq e Iran; oltre ad una piccola parte in Armenia. I rapporti sono diversi in ogni territorio: in Iraq sono quasi indipendenti mentre in Turchia sono i più perseguitati. In Siria hanno riconquistato il proprio territorio ma hanno da una parte l’esercito siriano che non vuole concedere loro l’autonomia e dall’altra la Turchia che vede un grande pericolo nell’indipendenza dei curdi di Siria. È molto interessante vedere l’evoluzione di ogni parte del Kurdistan e dei movimenti di liberazione interna, in tutti i sensi: di liberazione nazionale e sociale. Ciò si è visto soprattutto negli ultimi tempi nel Kurdistan siriano, dove l’uguaglianza è assoluta e le donne hanno un ruolo importante da svolgere dall’insegnamento alla lotta, anche come leaders militari dell’autodeterminazione. Sono donne libere e liberate.
—“Sobirania o submissió” è il saggio da lei pubblicato nel 1993. Già il titolo indica il carattere pionieristico dell’opera, che formula un’alternativa eloquente e molto concreta anni prima che il termine ‘soberanismo’ diventasse popolare. Esiste democrazia senza indipendenza? E come vede la situazione dell’indipendenza catalana?
Il processo prende il via soprattutto dal 2010 quando la Corte Costituzionale limitò drasticamente i poteri della Catalunya approvati nella riforma dell’Estatut. Ci fu un processo di mobilitazione popolare e la società civile divenne consapevole del suo ruolo fondamentale in ogni movimento di liberazione nazionale, non “solo” nei partiti politici, ma “anche”, e quindi come sia necessario organizzare la società civile. E le grandi manifestazioni iniziano con un entità, l’ANC, ed Òmnium Cultural. L’ANC è la conseguenza di un altro movimento che era la Piattaforma per il Diritto di Decidere.
È interessante notare come questo fu il risultato di un intero movimento che era nato in parte alla Conferenza delle Nazioni senza Stato e dal lavoro del Ciemen. Nei locali del Ciemen, infatti, è stata fondata la Piattaforma per il Diritto di Decidere ed è lì che l’ANC ha avuto la sua prima sede, cosa che pone il Ciemen come uno strumento che è servito a dar vita a questo processo. Poi i politici devono capire che essi devono rispondere alla domanda sociale di esercitare il Diritto all’autodeterminazione. Il presidente Artur Mas tentò nel 2014, ma non glielo permisero. Tuttavia, ci fu una sorta di votazione, nella quale vinse il “sì” all’indipendenza. In precedenza c’era stato un altra iniziativa di voto popolare in diversi comuni in cui aveva vinto il “sì”. Più tardi, quando il movimento metteva un milione di persone nelle strade, il Presidente Puigdemont disse che una definitiva risposta doveva essere data e propose il referendum. L’abbiamo fatto, anche se lo Stato lo aveva vietato e ha fatto di tutto per impedirlo. Abbiamo esercitato un Diritto dei popoli e uno Stato tentò di impedire che venisse rispettato, non in qualità di Stato democratico, ma come uno Stato oppressivo. E da lì, dal 1° ottobre 2017, le forze sono alla ricerca di una via d’uscita di quello che abbiamo deciso in un referendum. Alcuni cercano di arrivare al giorno in cui si possa svolgere un altro referendum, ma con le garanzie e il sostegno della comunità internazionale. Cioè, ripetere la stessa cosa che abbiamo fatto nel 2017. Personalmente, penso che abbiamo già fatto il referendum, il risultato è stato positivo, quello che dobbiamo fare è trovare un modo per essere in grado di esercitare tale diritto. E questo non riguarda il fatto di ripetere il referendum, ma di mettere in pratica ciò che abbiamo deciso. Molti politici dicono che ora dobbiamo cominciare i colloqui e le trattative con lo Stato, io penso che sia una cosa positiva, ma senza perdere di vista il fatto che ciò che stiamo cercando è quello di esercitare il Diritto all’autodeterminazione che porta all’indipendenza.
-Sta lavorando alle sue memorie. Quando saranno stampate?
Spero nel mese di dicembre. Prima di questa intervista stavo dando loro l’ultima lettura per correggere alcuni dettagli. Non sono ricordi in senso classico. Ho deciso di testimoniare un’epoca che è finita ed è appena iniziata. Ecco perché il titolo è “E’ toccato a me seminare”. Alcuni fanno grattacieli, io ho dovuto seminare. Seminare idee, progetti…
Vorrei presentarlo un giorno in Galizia.