#Kurdistan #War – ANCORA SULL’USO DI ARMI CHIMICHE DA PARTE DELLA TURCHIA – di Gianni Sartori

Non è certamente la prima volta (e temo non sarà nemmeno l’ultima). Su Ankara cala nuovamente e pesantemente il sospetto di utilizzare armi chimiche contro la Resistenza curda.
Spargendo sostanze proibite dalle Convenzioni internazionali, compresa quella firmata dalla stessa Turchia ed entrata in vigore nel 1997.
Talvolta lo fa in maniera sfacciata, arrivando addirittura a esporre i suoi prodotti nelle fiere internazionali di
armi e affini.
Sconcertante il silenzio dei media e delle istituzioni in merito a tali evidenti violazioni del diritto internazionale. Soprattutto se confrontato con le accuse al regime di Assad per il possibile utilizzo di armi chimiche o con quelle nei confronti di Saddam Hussein per il possesso, solo presunto e mai confermato. Accuse che fornirono il pretesto per dichiarargli guerra.

Ankara invece sembra ne possa far uso senza incorrere in sanzioni o altro. Due pesi e due misure. Ultimamente se ne è riparlato per le operazioni militari contro il PKK nel nord dell’Iraq (per i curdi il Bashur, Kurdistan del Sud). Solo negli ultimi mesi l’esercito turco avrebbe fatto uso almeno duecento volte di armi considerate da “guerra chimica”.
Va anche detto che soprattutto in passato – come nel caso di Dersim nel 1938 – si parlava di un possibile coinvolgimento tedesco (in qualità di produttori e fornitori).
In seguito, dalla metà degli anni ottanta, le armi chimiche sono state impiegate contro il PKK. Esistono in proposito alcuni documenti che provano l’esistenza di un piano segreto per l’impiego di gas tossici, atti a sterminare i guerriglieri.

Nel 2000 il giornale Dogru pubblicò integralmente uno di tale documenti, risalente al 25 febbraio 1989 e firmato dal generale Necdet Oztorun.
Invece in un filmato propagandistico dell’esercito si rivendicava apertamente l’utilizzo di gas lacrimogeni particolarmente letali (CS da 120 mm, ad alta concentrazione). Forse gli stessi utilizzati recentemente nei tunnel della guerriglia curda (o perlomeno il colore, giallo, sembrerebbe identico).

Come è noto, paradossalmente, l’utilizzo dei gas è consentito contro le manifestazioni – vedi Genova 2001 – ma non sul teatro bellico. Qui infatti entra in vigore la Convenzione sulle armi chimiche in caso di guerra. Riporto qualche caso in cui si è potuto stabilirne l’uso e talvolta anche la provenienza.
Nel 1999, in maggio, 20 guerriglieri curdi vennero uccisi dai gas in una grotta a Sirnak.

Come si poteva vedere e sentire in un video, anche dopo un paio di giorni i soldati turchi si preoccupavano di dover entrare a rastrellare i tunnel ancora contaminati in quanto, lo dice un ufficiale “il gas è ancora efficace”.
Per la cronaca, quei soldati rispondevano agli ordini di Necdet Ozel destinato a diventare capo di stato maggiore. Anche in quel caso i frammenti delle granate raccolti rimandavano a una produzione tedesca. Le tracce di gas ancora identificabili confermavano il sospetto che si trattasse di quello prodotto dalla società Buck & Depyfag. Presumibilmente con l’autorizzazione del governo tedesco.

Nel settembre 2009 otto combattenti del PKK erano stati ammazzati in un’altra grotta a Cukurca (provincia di Hakkari). Anche in tale circostanza, stando alle dichiarazioni dei testimoni, venivano impiegati gas tossici. Le immagini dei cadaveri erano state analizzate nel 2010 da medici legali dell’università di Amburgo Eppendorf che ne avevano dato ulteriore conferma. In primo luogo dell’autenticità delle immagini (messa in dubbio dalla stampa turca allineata) e poi dell’evidenza che si trattava di effetti – devastanti – dovuti alle sostanze chimiche. I corpi infatti apparivano completamente bruciati, ma in un modo che escludeva ciò fosse dovuto al calore. In realtà si trattava di effetti già noti, le “bruciature fredde” conseguenza appunto dell’utilizzo di armi chimiche.
Altri casi analoghi venivano riscontrati nel 2010 a Semdinli e nel 2011 (in ottobre) nella valle di Kazan (Cukurca) dove ben 36 militanti del PKK erano stati uccisi. Anche in questo caso una commissione che aveva potuto esaminarne i corpi nell’ospedale di Malatya, aveva espresso la convinzione che fossero stati colpiti da armi chimiche.

Gianni Sartori

#Kurds #Bombardamenti – MANIFESTAZIONI CONTRO GLI ATTACCHI TURCHI NEL NORD E NELL’EST DELLA SIRIA – di Gianni Sartori

La reale esistenza – vorrei dire la “consistenza” – di un popolo si misura nei momenti difficili.
Come può testimoniare chiunque abbia conosciuto le lotte dei Baschi negli anni settanta – quando il franchismo già in agonia sferrava i suoi colpi di coda finali – o dei Repubblicani irlandesi nei primi anni ottanta (vedi gli scioperi della fame).
Così è – da decenni e più – per i Curdi.
Anche ora, mentre Ankara colpisce ben oltre le sue stesse frontiere. Sia nel Bashur (Nord dell’Iraq) che in Rojava (Nord ed Est della Siria).
Nell’ultima settimana centinaia di persone, nel cantone di Kobane come in quello di Cizire (Jazira), hanno manifestato contro gli attacchi aerei (con i droni) che continuano a provocare vittime (le ultime: due civili il 20 ottobre, tre esponenti delle FDS il 23).
I manifestanti si appellavano alle “forze internazionali” (quindi sia agli Stati Uniti che alla Russia, di cui si evidenziano le maggiori responsabilità) al fine di interdire lo spazio aereo all’aviazione turca.
La manifestazione di Kobane si era conclusa nella Piazza Martyr Egid dove Ayse Efendi, parlando a nome del Consiglio delle famiglie dei martiri della regione dell’Eufrate, ha detto di voler “presentare le nostre condoglianze alle famiglie di coloro che hanno sacrificato la loro vita per la libertà”. Purtroppo, va detto,il numero di questi va aumentando di giorno in giorno.
La portavoce di Konhreya Star – Newroz Eli – ha spiegato che con questi attacchi e con l’invasione “lo Stato turco mira a colpire la volontà popolare e il nostro progetto di una nazione democratica”.
Ugualmente a Derik i manifestanti inalberavano cartelli e striscioni contro l’invasione turca e a favore dei diritti umani.
E anche qui un esponente del PYD (Partito dell’unione democratica) è intervenuto per ribadire che lo Stato turco va pianificando ulteriori attacchi nel nord e nell’est della Siria per annientare tale progetto.
A Tall Tamr (cantone di Hassake) altre centinaia di persone hanno richiesto l’interdizione dello spazio aereo nel nord della Siria. Dato che in questa area gli attacchi con i droni proseguono tuttora, dai manifestanti venivano denunciate le ripetute violazioni degli accordi per un cessate-il-fuoco.
A Raqqa la manifestazione contro i raid dell’aviazione turca e contro le continue violazioni dei diritti umani – una marcia a cui si sono aggregati centinaia di giovani, alcuni leader tribali, esponenti della società civile e dell’amministrazione autonoma (AANES)- era stata indetta dall’Assemblea delle donne di Zenubiya che accusano esplicitamente il governo turco di “colpire i civili per mascherare il proprio fallimento”.
Altre manifestazioni similari si sono svolte a Amûdê nella piazza delle Donne libere.
Tuttavia anche ora altri droni di sorveglianza continuano a sorvolare il territorio del Rojava.


Gianni Sartori

#Kurds #Repressione – ANCORA VIOLENZA CONTRO LE DONNE PRIGIONIERE NELLE CARCERI TURCHE – di Gianni Sartori

Mentre suscita scalpore l’allontanamento di qualche ambasciatore che ha “osato” sottoscrivere un appello per Osman Kavala, il filantropo in carcere da quattro anni, il solito velo poco pietoso si stende su infamie ben peggiori.
Garibe Gezer, ha denunciato di essere stata torturata e violentata dai suoi carcerieri in una cella imbottita della prigione di Kandira (Kocaeli). Inoltre, ha dichiarato l’avvocato, le sue ferite (conseguenza oltre che dello stupro e delle torture subiti anche di un tentativo di suicidio) non sarebbero state curate adeguatamente. Nonostante la giovane curda sanguinasse vistosamente dal capo.
Arrestata ancora nel 2016 a Mardin, in questi anni aveva già subito ogni sorta di angheria e spesso era finita in isolamento. Giunta nella prigione di tipo F il 15 marzo, dopo un periodo di isolamento a Kayseri, aveva chiesto di essere mandata in una cella comune da tre persone. Ma la sua richiesta veniva respinta e lei – per punizione – veniva rinchiusa in una cella imbottita (il 21 marzo). Subendo maltrattamenti sia da parte dei carcerieri maschi, sia dalle donne che l’avevano trascinata per terra tenendola bloccata per le mani e sfilandole gli abiti.
In risposta alle sue proteste (aveva battuto ripetutamente contro la porta della cella), il 24 marzo veniva nuovamente aggredita dai guardiani, picchiata con gli scarponi e rinchiusa in una cella di tipo particolare, classificata come cella di tortura da alcune Ong (ma la cui esistenza viene negata dalla direzione del carcere) in quanto interamente ricoperta di polipropilene, un isolante perfetto, quasi da deprivazione totale. Qui veniva torturata e violentata.

Quando poi Gezer aveva cercato di togliere il rivestimento dalle pareti, era stata nuovamente picchiata al punto da provocarne lo svenimento. Ammanettata con le mani dietro la schiena, era stata lasciata in cella in tali condizioni.
Successivamente, come reazione allo stupro subito, la prigioniera aveva tentato il suicidio impiccandosi. Ma la stoffa utilizzata si era spezzata ed era caduta battendo violentemente il capo. Nonostante una vistosa emorragia, veniva lasciata per diverse ora stesa a terra. Quanto alle sue lettere agli avvocati e alla sorella in cui denunciava l’accaduto, alcune non erano state nemmeno spedite, altre pesantemente censurate.
Sempre relegata in una cella singola (nonostante il rischio di un nuovo tentativo di suicidio e nonostante versasse in tali condizioni, quelle di una persona che aveva subito molteplici violenze) il 7 giugno la prigioniera aveva appiccato il fuoco alla cella.
Una protesta, la sua, anche contro la costrizione di dover espletare i propri bisogni sotto lo sguardo una camera di sorveglianza. Inoltre i carcerieri immettevano continuamente aria fredda nella cella attraverso il sistema di ventilazione.
Nella denuncia la cella viene descritta come “uno spazio da due a tre metri di lunghezza, interamente imbottita e sotto video-sorveglianza 24 ore al giorno, con escrementi dovunque e con un insopportabile odore di urina ed escrementi.
Nella cella come toilette c’era solo un buco visibile dalla camera di sorveglianza”.
Il 20 settembre i suoi avvocati (Eren Keskin, Jiyan Tosun e Jiyan Kaya) hanno sporto denuncia appellandosi “alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDH) e alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti”.
Per gli avvocati i carcerieri andrebbero incriminati in base agli articoli 86, 94 4 102 del codice penale turco, mentre i medici incorrerebbero nell’articolo 257.
Denunciato anche il direttore del carcere per “negligenza”.
Inoltre il caso di Garibe è stato posto all’ordine del giorno del Parlamento dai deputati di HDP (Partito democratico dei popoli) e anche l’Associazione dei diritti dell’uomo ha denunciato sia i carcerieri che i medici della prigione. 
Le dichiarazioni di Garibe Gezer in merito alle torture subite sono state confermate da un’altra detenuta, Resmiye Vatansever, davanti al giudice che l’aveva interrogata.

Gianni Sartori