#KURDISTAN – IN MORTE DELLA PRIGIONIERA POLITICA CURDA NURCAN BAKIR – di Gianni Sartori

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La prigioniera politica Nurcan Bakir (47 anni di età, in carcere da 28 anni e gravemente ammalata) si è tolta la vita in cella per protestare contro la repressione nelle carceri turche e denunciare le condizioni indegne in cui versano i detenuti. Contro la sua volontà Nurcan era stata trasferita dal carcere femminile di Gezbe a quello speciale di Burhaniye, prigione chiusa di tipo T che sorge nei pressi di Mardin (provincia Balikesir, nella regione di Marmara). Una ritorsione – tale trasferimento – per la sua partecipazione allo sciopero della fame di massa indetto l’anno scorso per protestare contro l’isolamento totale imposto al leader curdo Ocalan. Al suo rilascio definitivo mancavano ancora due anni e lei si era quindi rivolta alla Corte di Giustizia Europea per i Diritti Umani affinché, date le sue condizioni di salute, potesse essere rilasciata prima. Nel suo ultimo contatto con familiari (una telefonata del giorno precedente) aveva detto di non voler “tacere di fronte alla repressione”, ma soprattutto di ricordare “ogni notte nei sogni i suoi figli assassinati dal regime”.
Inizialmente il suo corpo era stato portato all’Istituto di Medicina Forense di Bursa e qui trattenuto in quanto pare mancassero alcuni documenti. Altri problemi dalla direzione del cimitero di Bursa che ha reso problematica (rifiuto di un mezzo di trasporto, proibizione di trasportarlo in aereo) forse in un tentativo di impedirla, la restituzione alla famiglia. Nurkan Bakir verrà sepolta nel villaggio di Kayakdere (nel distretto Omerli di Mardin) dove nel pomeriggio di questo 16 gennaio i suoi parenti si stanno dirigendo trasportandone i resti con i propri mezzi. Seguiti e controllati da uno spiegamento di polizia. Sicuramente le forze dell’ordine cercheranno di impedire che la cerimonia funebre si svolga pubblicamente diventando un momento di lotta e protesta contro Erdogan.
Gianni Sartori
nota: l’immagine, appena diffusa, mostra proprio le esequie di Nurkan Bakir

#Veneto – Biblioteca di Arzignano (Vi), giovedì 23 gennaio – appuntamento con nuovi libri

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La Biblioteca di Arzignano, ospita nella sede di vicolo Marconi 6, giovedì 23 gennaio alle ore 20.30 un incontro pubblico con Ettore Beggiato, autore di “1439: galeas per montes” e Luca Polo autore di “Independentista”, una panoramica sull’identità veneta attraverso la storia fino alle attuali aspirazioni di autogoverno, toccando il fenomeno più ampio dell’indipendentismo moderno europeo catalano, scozzese, basco e di tanti altre “nazioni senza stato”.

“1439: galeas per montes. Navi attraverso i monti” di Ettore Beggiato racconta l’impresa, decisa dalla Serenissima, di trasportare un’intera flotta dall’Arsenale di Venezia al Lago di Garda, prima risalendo il fiume Adige fino a Mori (in provincia di Trento), poi trascinando le navi via terra fino a Torbole, punta settentrionale del Garda, superando i 287 metri di Passo San Giovanni.
Una spedizione che già gli storici dell’epoca considerarono straordinaria. Assai curato nella documentazione storica, nella ricerca fotografica e nella ricostruzione del contesto, il libro sottolinea sia le capacità di chi materialmente aveva organizzato e portato avanti il trasporto, sia la genialità e la capacità di immaginare di chi aveva proposto l’impresa. Una sfida vinta la cui eco però non è arrivata ai nostri giorni, e lo scopo del libro è proprio quello di contribuire a colmare un vuoto nella nostra conoscenza della storia veneta.

“Independentista, i sentieri della libertà” di Luca Polo racconta le storie di donne e uomini sui sentieri della libertà. Un viaggio nelle menti e nei cuori, in Veneto e in Europa, dentro il fenomeno politico e sociale continentale dell’indipendentismo moderno europeo. Un sentimento, prima che una ideologia, che attraversa e abbraccia l’Europa da Venezia a Barcellona, da Bilbao a Edimburgo, passando per Bolzano e Bruxelles. Il racconto di una trasformazione intima, individuale, di una conquistata consapevolezza, di un cambiamento irreversibile personale da cui scaturisce una visione della società e della nuova Europa dei popoli che vogliono costruire. A ogni costo.

SERVIZI SEGRETI TURCHI E SIRIANI (SOTTO LA SUPERVISIONE RUSSA) SI INCONTRANO A MOSCA PER IL DEFINITIVO AFFOSSAMENTO DELL’AUTONOMIA CURDA IN ROJAVA – di Gianni Sartori

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La notizia è ufficiale. Da parte turca si registra addirittura la presenza del capo del MIT, Hakan Fidan. Con il suo omologo siriano avrebbe discusso -oltre alle modalità del cessate il fuoco a Idlib – di un possibile coordinamento delle attività anti-curde nel nord della Siria.

Stando a quanto viene riportato dall’agenzia di stampa SANA, un responsabile turco coperto dall’anonimato avrebbe dichiarato che le discussioni comprendevano anche “la possibilità di lavorare insieme contro le YPG, la componente siriana dell’organizzazione terrorista (SIC!) PKK a est dell’Eufrate”.

La medesima agenzia ha anche riportato che il capo dei servizi siriani ha chiesto alla Turchia di riconoscere pienamente la sovranità della Siria, la sua indipendenza e integrità nazionale e di impegnarsi in un ritiro immediato e completo dal territorio siriano. Ovviamente – questo l’agenzia non l’ha detto, ma si intuisce – dopo averlo bonificato dalla fastidiosa presenza curda. 

Quindi possiamo affermare che alla fine la maschera è proprio caduta. Chi blaterava (rosso-bruni e neostalinisti) di inesistenti “pulizie etniche” operate dai curdi nel nord della Siria e fantasticava sull’altrettanto inesistente “anti-imperialismo” di Assad, potrà ritenersi soddisfatto. Definitivamente fuori gioco l’esperienza libertaria di Rojava, gli Stati con i loro apparati repressivi potranno riprendere il controllo della situazione.

L’ordine regna in Rojava!

Appare infatti evidente che con questo incontro tra i massimi vertici dei rispettivi servizi segreti, Ankara e Damasco potranno accordarsi per dare definitiva sepoltura ai sogni di autodeterminazione e autogoverno delle popolazioni insorte della regione. Non solamente dei curdi.

Come in precedenti incontri tra esponenti turchi e i loro corrispettivi iraniani si era compreso che almeno su una cosa i due stati sono profondamente d’accordo – ossia su come controllare e reprimere le rispettive popolazioni curde – così Damasco e Ankara, per quanto divisi su tutto o quasi, troveranno comunque un accordo ai danni dei curdi dei territori siriani ora occupati dalla Turchia.

E questo nonostante Erdogan avesse appoggiato e supportato le milizie ribelli – islamisti compresi – che avevano preso le armi contro il regime siriano per rovesciarlo. Sorvolando poi sul fatto che il presidente turco in varie occasioni aveva definito Assad un “terrorista”.

Cose che si dicono…e da che pulpito, comunque. 

Ovviamente dietro tali incontri d’alto livello tra servizi segreti turchi e siriani si intravede la manina di Mosca (e magari anche di Teheran) il cui ruolo nel conflitto siriano è stato determinante. L’anno scorso Ankara e Mosca avevano sottoscritto l’accordo di Sotchi in base al quale le forze congiunte siriane e russe si sarebbero dispiegate nel nord.est del paese per obbligare le YPG a ritirarsi dalla frontiera con la Turchia.

Il fatto di essersi trovati schierati su fronti opposti nella guerra civile siriana (così come attualmente in Libia) non ha impedito a russi e turchi di riavvicinarsi, rinnovare progetti congiunti in campo energetico e militare (vedi l’acquisto di sistemi russi di difesa aerea da parte della Turchia, alla faccia della NATO e degli Usa)

Ugualmente – grazie a Mosca – si erano ristabiliti solidi legami anche tra Iran e Turchia, perlomeno sulla questione curda. Entrambi gli stati erano preoccupati per il sorgere di un’entità autonoma curda in Rojava in quanto possibile esempio e modello per tutti i curdi.

Gianni Sartori

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RUSSIA: PRESUNTE TORTURE E TRIBUNALI MILITARI PER GLI ANARCHICI ACCUSATI DI “DESTABILIZZAZIONE”- di Gianni Sartori

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Risale al 26 dicembre la richiesta, da parte di un procuratore di San Pietroburgo (do you remember Kronstadt? Sta proprio lì davanti, nella Baia della Neva…coincidenze) di una condanna dai sei ai 18 anni per sette militanti libertari accusati di far parte di una organizzazione, anarchica, denominata “The Network”. Nell’eventualità che venissero riconosciuti colpevoli, cinque di loro sconterebbero la pena in una colonia carceraria di alta sicurezza. Le origini del caso risalgono al 2017 quando, in ottobre, i Servizi federali della sicurezza russa (FSB) avevano arrestato sei persone a Penza (ovest della Russia) accusandole di far parte appunto di “The Network”. Altri due presunti militanti, nel frattempo scomparsi dalla circolazione, venivano iscritti nel registro degli indagati e successivamente arrestati a Mosca. Ancora due arrestati nel gennaio 2018 e un altro in aprile. Oltre che a Pietroburgo e a Penza, l’organizzazione sarebbe presente a Mosca e in Bielorussia. Si tratta in maggioranza di militanti anarchici o comunque antifascisti e libertari. L’accusa: aver fatto parte di una “comunità terrorista anarchica” nata nel 2015. Secondo l’FSB avrebbero posto delle bombe per “alimentare una destabilizzazione del clima politico nel paese” in due diverse occasioni: le elezioni presidenziali del 2018 e la Coppa calcistica del mondo.

Gli arrestati hanno denunciato di essere stati sottoposti alla tortura per estorcere loro delle confessioni. Inoltre , stando sempre alle dichiarazioni degli arrestati, le armi ritrovate nelle loro auto e nelle abitazioni vi sarebbero state poste dalla polizia per incriminarli. L’FSB ha ammesso di averne sottoposto almeno uno a scariche elettriche giustificando tale operato come “necessità professionale”.

Il processo era iniziato nell’aprile 2019 davanti a un tribunale militare nel distretto del Volga. Presenza massiccia della polizia antisommossa, ma anche di persone solidali con gli imputati.

Oggi, 13 gennaio 2020, è prevista l’udienza in cui sarà data la possibilità di intervenire alla difesa.

A sostegno dei militanti libertari sotto processo si è attivata l’Anarchist Black Cross.

Gianni Sartori

QUANDO LO STATO SI AUTOASSOLVE: NESSUN COLPEVOLE PER LA MORTE INGIUSTA DI REMI FRAISSE – di Gianni Sartori

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L’8 gennaio i magistrati della corte d’appello di Tolosa responsabili dell’inchiesta sulla morte di Rémi Fraisse hanno stabilito che nessuno doveva essere perseguito  per il tragico evento. Il giovane militante ecologista – 21 anni – era rimasto ucciso da una granata esplosiva nella notte tra il 25 e il 26 ottobre 2014 mentre protestava contro la costruzione di una diga a Sivens (Tarn). Nonostante le richieste in tal senso degli avvocati della famiglia di Rémi, i giudici hanno sostanzialmente evitato di procedere ad una nuova ricostruzione dei fatti e di interrogare il prefetto in proposito. Un “non-luogo a procedere” nei confronti del gendarme responsabile (con cui si confermano e sottoscrivono le conclusioni a cui era  giunto il giudice nel gennaio 2018) che chiude definitivamente la possibilità di riaprire il processo. Ai familiari di Remy che già avevano denunciato l’utilizzo di una “justice d’exception”  (una giurisdizione sostanzialmente militare)  non rimane che ricorrere alla Corte europea dei diritti dell’Uomo.

La ZAD de Testet

Quella che per i pianificatori di Stato è una “Zone d’Amenagement Diffèré” per i militanti ecologisti èZone A’ Défendre”, ossia territori (campagne, boschi…il bocage bretone a Notre Dame des Landes, una delle ZAD più conosciute) da sottrarre allo sfruttamento, alla speculazione e al degrado capitalista. Alla ZAD di Testet (Sivens) in quei giorni si svolgevano iniziative pacifiche tra cui  un festival di sostegno alla lotta contro il progetto di una diga. Nonostante la prefettura avesse garantito che non vi sarebbe stata la presenza della polizia, nella serata del 25 ottobre 2014 decine di camion della gendarmeria  vi fecero irruzione tentando di reprimere l’iniziativa. In un primo tempo da parte delle autorità si cercò di mistificare la morte del ragazzo sostenendo che era deceduto per overdose. In realtà (come avevano poi dovuto ammettere, ma invocando comunque la “legittima difesa”) la causa del decesso era dovuta a una granata antisommossa (“grenades offensives mêlant TNT et gaz lacrymogène”) lanciata da un gendarme e che era esplosa sulla schiena del giovane ecologista.

Alla notizia della morte di Rémi (così simile per certi aspetti a quella di Carlo Giuliani) si erano svolte numerose manifestazioni di protesta. Almeno una trentina in Francia, due a Bruxelles, una a Torino. Manifestazioni che talvolta si erano concluse con duri scontri tra manifestanti e polizia. A Nantes, dove circa un migliaio di persone erano scese in piazza, si contavano una decina di arresti. A Parigi, dove  centinaia di persone avevano manifestato indossando dei caschi, gli arresti erano stati una trentina. In una successiva manifestazione – in place Stalingrad – gli arresti arrivavano a 78

A Rouen veniva occupato un centro di reclutamento della gendarmeria (quattro arresti).

A Pont-de-Buis (Finisterre) un corteo di centinaia di persone si dirigeva verso la polveriera Nobelsport che fabbrica munizioni utilizzate dalle forze dell’ordine.  Anche qui scontri tra polizia e manifestanti con ampio uso di lacrimogeni. Il sabato successivo si era svolta una fiaccolata notturna con un nuovo tentativo di entrare nella polveriera lanciando sassi, bulloni e petardi. Da parte delle guardie si rispondeva con granate lacrimogene e cannoni ad acqua. Nuovi scontri nel pomeriggio del giorno dopo durante un terzo corteo.
Nei giorni immediatamente successivi alla morte di Rémi a Lille si svolgevano almeno quattro manifestazioni non autorizzate al grido “On n’oublie pas, on pense à toi” e anche “l’Etat tue, la lutte continue”.

A Rouen, alle 4 del mattino, i CRS erano intervenuti smantellando la tendopoli allestita in memoria di Rémi in place Foch e allontanandone gli occupanti a colpi di lacrimogeni (agendo in base all’ordinanza emessa dal sindaco “socialista” di Rouen).

Gianni Sartori