#Palestina #Carceri – DONNE PALESTINESI PRIGIONIERE AL TEMPO DEL GENOCIDIO – di Gianni Sartori

In questo mese – stando al comunicato del 18 agosto dell’Associazione dei Prigionieri Palestinesi – si contano almeno quattro attacchi da parte della polizia penitenziaria contro le celle (letteralmente devastate) dei detenuti politici palestinesi nel carcere di Damon. Per la precisione, il 4, 8, 10 e 14 agosto.

I prigionieri sono stati ammanettati, trascinati per terra, bastonati e umiliati. Con utilizzo di gas lacrimogeni e di cani poliziotto.

Come denunciano da tempo le organizzazioni palestinesi di solidarietà, i prigionieri versano in condizioni vergognose. Soffrono per la fame (cibo scadente, talvolta immangiabile..) e per le carenti condizioni igieniche (alte temperature, forte umidità e scarsa ventilazione nelle celle) con l’incremento di infezioni cutanee (per presenza di insetti e parassiti).

In difficoltà soprattutto le donne, in materia di salute mestruale e riproduttiva. Tra loro anche due minorenni (Sally Sadaqa e Hana Hammad) e due incinte. Si tratta di Reema Balawi (arrestata (per “incitamento” nel febbraio 2025 e ormai all’ottavo mese) e di Tahani Abu Samhan.

Come Reema Balawi, la maggior parte delle donne è stata arrestata per “incitamento” (si presume alla ribellione contro l’occupazione) sulle reti sociali. Niente più che un pretesto, vago e inconsistente. Sostanzialmente una forma di controllo, una variante della già diffusa “detenzione amministrativa”.

Stando alla denuncia, anche le donne prigioniere sarebbero state ammanettate, prelevate con la forza dalle celle afferrandole per la testa, trascinate nel cortile della prigione e molestate.

Niente di nuovo, naturalmente. Uno stile di violazione di diritti fondamentali ormai consolidato per reprimere ogni tentativo di resistenza collettiva e che si è ulteriormente esasperato nell’ultimo periodo.

Per le organizzazioni dei diritti umani siamo di fronte a “violazioni senza precedenti, dal momento dell’arresto al trasferimento provvisorio nel centro di detenzione di Hasharon fino a quello definitivo in Damon”.

Private dei figli, della famiglia per il divieto di visite, alimentandone ulteriormente la sofferenza psicologica. Senza cure mediche adeguate, come Fidaa Assaf, malata di tumore.

Secondo l’Associazione dei Prigionieri (in base alle denunce delle prigioniere stesse) la lista delle prevaricazioni esercitate sulle donne incarcerate comprenderebbe: torture, abusi, umiliazioni, perquisizioni corporali con denudamento (di fatto una forma di aggressione sessuale), isolamento, ricatti nei confronti delle famiglie (per l’Associazione si tratterebbe semplicemente di usarle come “ostaggi”), inattività, mancanza di cure mediche.

Dall’ottobre 2023 si contano almeno 570 casi di donne e bambine arrestate in Cisgiordania (compresa Gerusalemme). Non si hanno invece dati precisi su quelle arrestate a Gaza.

Tra loro studentesse, insegnanti, madri e sorelle di prigionieri…

Nell’indifferenza impotente della comunità internazionale. Al tempo del genocidio.

Gianni Sartori

#IRAN  #REPRESSIONE – UN’ALTRA PRIGIONIERA POLITICA CURDA CONDANNATA A MORTE – di Gianni Sartori

Arrestata a Rasht (capitale della provincia di Guilan, nord-ovest dell’Iran) nel dicembre 2023, Sharifeh Mohammadi era conosciuta come militante di un sindacato legale da oltre dieci anni. Nel luglio 2024 veniva condannata a morte a causa della sua pubblica opposizione alla tortura e alle esecuzioni. Una “colpa” equiparata prima a “propaganda contro lo Stato” e poi a “ribellione armata”.

In carcere ha subito maltrattamenti e torture (sia fisiche che psichiche) per estorcerle confessioni, posta in isolamento per oltre tre mesi con la proibizione di visite e telefonate. Unica “concessione”, qualche breve contatto telefonico con il figlio dodicenne.

Nel giugno del 2024 veniva arrestato anche suo marito.

Il 12 ottobre 2024 la Corte suprema iraniana aveva annullato la condanna a morte, per vizi di procedura, rinviando il verdetto a un nuovo processo.

Ma la condanna veniva riconfermata il luglio di quest’anno e l’esecuzione potrebbe avvenire in qualsiasi momento.

Sulla drammatica vicenda è intervenuta con un comunicato l’Assemblea delle donne del partito filo-curdo Dem (Partito dell’uguaglianza e della democrazia del popolo) che ha definito Sharifeh Mohammadi “una militante che ha difeso i diritti delle donne e dei lavoratori”.

Affermando di considerare “ogni attacco contro le donne, ovunque avvenga nel mondo, come un attacco contro il nostro corpo e intensificheremo la nostra ribellione contro questo. Il regime fascista dei Mullà ha per l’ennesima volta commesso un crimine contro l’umanità e contro le donne per conservare il proprio potere dominato dagli uomini”.

E proseguendo: “La pena di morte inflitta a Şerife Muhammedi che ha lottato contro le violazioni dei diritti umani, la violenza, lo sfruttamento e l’ingiustizia non è frutto di un sistema giuridico fondato sul diritto, ma piuttosto di un sistema che privilegia il dominio maschile e va contro il diritto delle donne alla vita, Centinaia di donne che lottavano per la loro libertà sono già rimaste vittime di questo regime misogino…”.

Per concludere che “non resteremo in silenzio di fronte a quei sistemi che utilizzano il potere giudiziario come una mazza quando si sentono in difficoltà e che alimentano il loro maschilismo mascherandolo dietro la legge”.

Gianni Sartori

#Syria #Analisi – SIRIA, UN GRAN CASINO – di Gianni Sartori

fonte @ Reuters

Oltre che nel nord est della Siria, la situazione potrebbe precipitare anche nei quartieri curdi di Aleppo (Cheikh Maqsoud e Achrafiyah) a causa delle ripetute provocazioni e violazioni degli accordi del 1 aprile tra la locale comunità curda e il governo di transizione (di fatto islamista) di Damasco. Con attacchi di droni ai posti di blocco e il ferimento di alcuni membri delle Forze di sicurezza interna (Asayish, la polizia curda).

Per Hevin Suleiman (la Copresidente del Consiglio generale di Sheikh Maqsoud e Achrafiyah), anche se gli abitanti curdi di Aleppo preferiscono risolvere i problemi attraverso il confronto e il dialogo, non per questo, se attaccati, rinunceranno all’autodifesa (di cui, spiegava “abbiamo una lunga esperienza”).

Peggio ancora quello che sta avvenendo nella regione di Afrin. Qui vengono semplicemente consegnate a miliziani uiguiri e alle loro famiglie (in maggioranza provenienti dal Turkestan orientale, Xinjiang) le abitazioni che gli abitanti, circa 300mila persone, avevano dovuto abbandonare con l’invasione turca del 2018. 

Determinando un significazione cambiamento demografico (o sostituzione etnica).

Per Bushkin Muhammad Ali (direttore di Afrin Now) “membri della Division Hamza, ora integrata nel Ministero della Difesa siriano come 76° Divisione sono stati incaricati di supervisionare il ricollocamento delle famiglie uigure in alcune abitazioni nel villaggio di Me’riskê (Maraseh al-Khatib nda)”. 

Abitazioni provvisoriamente occupate da famiglie sfollate da Menagh che sono state nuovamente cacciate via. Così in altri villaggi.

Ulteriore conferma è venuta dall’ufficio locale del KNCS (Consiglio nazionale curdo).

Contemporaneamente (fonte Reuters) il ministero siriano della Difesa annunciava la nascita di una nuova struttura militare denominata 84° Divisione composta da soldati siriani e da circa 3500 combattenti stranieri, in larga maggioranza uiguri. Conseguendo (oltre alla possibilità di carriera militare) di venir naturalizzati con la cittadinanza siriana. Da sottolineare l’approvazione di Washington che in un primo tempo aveva richiesto l’espulsione di questi foreign fighters.

Mentre su Afrin, regione storicamente a maggioranza curda (il 95% fino al 2018)incombe lo spettro di una radicale sostituzione etnica. Oltre agli uiguri, vengono reinsediati miliziani turchi, palestinesi…  integrati nelle varie milizie dell’Esercito siriano libero (sostenuto da Ankara).

Superflua qualsiasi considerazione sulla strumentalizzazione dei popoli.

Fermento e agitazione anche tra la popolazione drusa.

Con imponenti manifestazioni a Suwayda a cui hanno partecipato persone provenienti da ogni angolo della provincia.

Contro il “blocco soffocante e il barbaro attacco” che ha colpito la comunità drusa.

Riferendosi in particolare ai servizi essenziali, all’acqua, all’elettricità e agli aiuti.

Per i manifestanti, la popolazione non intende accettare “niente di meno che un totale ritorno nei loro villaggi distrutti dai terroristi” (testimonianza raccolta dall’agenzia curda ANHA). Chiedendo nel contempo una “inchiesta internazionale indipendente sulle uccisioni, gli sfollamenti forzati e i saccheggi subiti”. Denunciando in particolare gli attacchi contro le mosche, le chiese, gli ospedali. Operazioni in cui sarebbero intervenuti anche cecchini d’élite per colpire i civili.

Gianni Sartori

#AMERICHE #PERÙ – AMNISTIA GENERALE PER I MILITARI RESPONSABILI DI CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ – di Gianni Sartori

Insana decisione (per quanto in linea con i tempi) quella presa dalle autorità peruviane (v. la presidente del Perù Dina Boluarte).

Accordare l’amnistia ai membri delle forze armate, della polizia e dei comitati di autodifesa (squadre della morte parastatali) accusati o condannati per crimini contro l’umanità e crimini di guerra (esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate, torture, violenze sessuali, atrocità di ogni genere…) commessi nel corso conflitto interno con vari gruppi insurrezionali (Sendero Luminoso, MRTA..) tra il 1980 e il 2000.Con oltre 600 processi ancora in corso che verrebbero così vanificati, annullati.

Un gesto che rappresenta un autentico insulto per migliaia di vittime, come hanno denunciato le organizzazioni di difesa dei diritti umani. Ricordando che il diritto internazionale umanitario proibisce le amnistie e le prescrizioni in caso di gravi violazioni dei diritti umani.

Attualmente la legge contemplava già la liberazione dei condannati per delitti risalenti al conflitto interno (per certi aspetti una guerra civile) che avessero superato i 70 anni (la maggioranza).

Per Volker Türk (Alto Commissario dell’ONU per i Diritti Umani che si è detto “costernato”) questa legge trasgredisce agli standard internazionali e costituisce un passo indietro nella ricerca della giustizia. In quanto le vittime “meritano verità, giustizia, riparazione e garanzia che tali eventi non si ripeteranno. Non l’impunità per i colpevoli”.

Stando alle cifre individuate dagli esperti della Comisión de Verdad y Reconciliación (ma presumibilmente inferiori a quelle reali per le oggettive difficoltà nel quantificarle) nei 20 anni considerati vennero uccise 70mila persone e altre 20mila risultano desaparecidos.

Stando ai dati della Coordinadora Nacional de Derechos Humanos de Perú, i tribunali peruviani finora avrebbero emesso circa 150 sentenze mentre sarebbero ancora in sospeso altre 600.

La legge ha potuto venir approvata grazie al sostegno di Fuerza Popular, il partito dell’ex presidente Alberto Fujimori, arrestato nel 2005 e condannato nel 2007 a 25 anni di carcere per crimini contro i diritti umani e per corruzione.

Tra le accuse più gravi (e documentate), l’aver ordinato omicidi, sequestri di persone, sterilizzazioni forzate (delle donne indigene), e torture. Individuato anche come il diretto responsabile dei delitti perpetrati dallo squadrone della morte conosciuto come Gruppo Colina (agli ordini di Santiago Martin Rivas). Un distaccamento dell’esercito costituito dallo stesso Fujimori, ufficialmente per combattere la guerriglia, ma che si scatenò contro gli oppositori politici e la popolazione civile, assassinando anche molti minori.

Tra gli eventi più tragici, il massacro di Barrios Altos (3 novembre 1991) contro una ventina di civili (tra cui un bambino di otto anni).

Una strage ordinata direttamente dal capo dei servizi segreti Vladimiro Montesinos (su incarico di Fujimori).

Rimasto dietro le sbarre per 12 anni (in condizioni comunque di favore, niente a confronto di quelle nelle galere di Lurigancho e di El Frontón), usufruì dell’indulto nel 2017 (poi revocato l’anno successivo). Per tornare definitivamente in libertà nel 2023.

È morto nel 2024.

Gianni Sartori

#Kurds #Europa – GERMANIA: ESTRADIZIONE DI RIFUGIATI CURDI E ARMI ALLA TURCHIA – di Gianni Sartori

Significativo il recente (primi di luglio) intervento di Jakob Migenda (membro del partito della sinistra tedesca Die Linke) riportato dall’agenzia Mezopotamya. Oltre a sottolineare l’importanza della solidarietà verso la lotta dei Curdi per la pace, la giustizia e la libertà, Migenda ha stigmatizzato le responsabilità del suo paese, la Germania, nel. sostenere il regime turco. Sia a livello diplomatico che con l’invio di armi.

Al momento della denuncia da parte dell’esponente della sinistra radicale tedesca, circa il 90% degli armamenti comprati da Ankara risultavano di provenienza tedesca.

Nella sua denuncia Jakob Migenda aveva anche ricordato come il PKK rimanga illegale in territorio tedesco. Rendendo perseguibili penalmente le attività di solidarietà con il movimento curdo (comprese quelle di contro-informazione). Inoltre si registrano diversi casi di rifugiati politici curdi rispediti in Turchia.

Recentemente, il 25 luglio, un tribunale di Amburgo aveva accusato (in virtù degli articoli 129a e 129b) altri due sessantenni curdi di appartenenza al PKK. In particolare di “attività organizzative, finanziamenti (raccolta fondi nda) e propaganda” in Schleswig-Holstein e Mecklenburg-Pomerania occidentale dal 2020 al 2025.

Un altro caso poi coinvolge anche il nostro Paese.

Già ai primi di agosto il militante curdo Mehmet Çakas (ugualmente accusato di appartenenza al PKK), detenuto nel carcere di Uelzen, stava in attesa di essere estradato in Turchia entro la fine del mese (presumibilmente il 28 agosto).

Attraverso i familiari aveva diffuso un comunicato in cui chiedeva che un tribunale italiano garantisse per la sua non-estradizione in quanto in Turchia potrebbe essere sottoposto a tortura e la sua stessa vita sarebbe in pericolo. Infatti, prima di venir estradato in Germania, Çakas aveva chiesto asilo politico in Italia e il procedimento era stato forzatamente interrotto.

Ancora nel dicembre di tre anni fa, nel carcere di Alessandria, aveva spiegato al presidente della quinta sezione della Corte d’Appello di Milanoche estradandolo in Germania lo si esponeva al rischio di venire deportato in Turchia dove rischia l’ergastolo.

Cansu Özdemir, membro del Bundestag per Die Linke, ha portato la questione di Mehmet Çakas all’attenzione del governo tedesco (mentre dall’Italia per ora solo silenzio).

Gianni Sartori

#Kurds #News – SIRIA: I CURDI (YPJ e YPG) NON CONSEGNANO LE ARMI – di Gianni Sartori

Direttamente dal canale ufficiale Al-Ikhbariya, era arrivata la conferma di quanto si presumeva.

Il nuovo governo siriano avrebbe tutte le intenzioni di disarmare i curdi che ancora controllano ampi territori nel nord e nell’est del Paese. Promettendo in cambio una generica “integrazione” delle loro istituzione autonome (Rêveberiya Xweseriya Demokratîk a Herêma Bakur û Rojhilatê Sûriyê) nello Stato. E delle Forze democratiche siriane (Hêzên Sûriya Demokratîk, definite “braccio armato” dei curdi siriani) nell’esercito siriano (da cui comunque sarebbero escluse – in quanto donne – le miliziane delle YPJ).

Quanto alla Turchia, per Ankara disarmare i curdi rimane una priorità (o forse la priorità).

Anche nella prima settimana di agosto il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan si è recato ben tre volte a Damasco. Ufficialmente per “sostenere il popolo siriano e le sue legittime aspirazioni e volontà”. Ma in realtà per ottenere la messa al bando definitiva delle milizie YPJ e YPG.

Un primo risultato sembra averlo ottenuto con l’annuncio di Damasco (emesso sotto la pressione turca) del 9 agosto con cui annunciava di ritirarsi dai negoziati in corso a Parigi con le FDS. Nonostante i Curdi siriani avessero ancora una volta ribadito di non volere la divisione territoriale della Siria. Ma unicamente “un modello decentralizzato che garantisca i diritti di tutte le minoranze etniche e confessionali del paese mentre i recenti massacri subiti da alaviti e drusi sono causa di inquietudine per la popolazione”.

Ma sul richiesto disarmo, i curdi del Rojava appaiono decisamente intenzionati a opporsi. In una intervista diffusa da al-Yaum TV, il portavoce delle FDS, Farhad Shami, ha dichiarato che “la consegna delle armi è una linea rossa”. Invalicabile.

Almeno per ora quindi, le FDS non sembrano avere l’intenzione di sottoscrivere l’appello di Öcalan rivolto a tutte le organizzazioni curde combattenti (“convocate il vostro congresso e prendete una decisione: tutti i gruppi devono deporre le armi”).

Una ulteriore conferma è venuta il 14 agosto con le dichiarazioni di Çiğdem Doğu.

Nel corso di un’intervista su Medya Haber TV, spiegando come la Siria odierna si definisca “attraverso una molteplicità di etnie e religioni diverse”, l’esponente della Comunità delle Donne del Kurdistan (KJK) ha sottolineato quanto sia altrettanto distintivo il ruolo assunto dalle donne.

In particolare nel nord e nell’est del Paese dove “assistiamo a una autentica rivoluzione con l’auto-organizzazione femminile, mentre nelle regioni alavite e druse avvengono ripetuti massacri contro la popolazione e ripetute violenze sulle donne”.

In un contesto del genere “solo pensare di imporre la resa delle armi alle Forze democratiche siriane significa semplicemente dire “Venite a farvi sgozzare”. Non esiste infatti “alcune garanzia di sopravvivenza”. (Torna il mente il video della cattura di Cicek Kobane con le feccia jihadista che grida “Bisogna sgozzarla, bisogna sgozzarla”).

Per Çiğdem Doğu altrettanto priva di senso sarebbe “l’idea dell’integrazione delle FDS nell’esercito siriano”.

In quanto semplicemente “oggi non esiste un vero esercito siriano, ma soltanto varie gang. Gruppi sanguinari che conducono attacchi contro le diverse identità nazionali, etniche e religiose”.

“Qui le persone – aveva proseguito – hanno combattuto per anni, contando decine di migliaia di caduti e di feriti e ottenendo grandi risultati. In particolare le donne che con la rivoluzione hanno conquistato il diritto di vivere in libertà”.

Ricordando che le YPJ (Unità di difesa delle donne) “sono un’organizzazione combattente e non possono cedere le armi”: In quanto con le YPG rappresentano una garanzia per “Armeni, Arabi, Curdi, Siriaci di poter continuare a vivere pacificamente insieme, senza che nessuno si senta autorizzato a parlare a nome loro”.

Per cui la soluzione della crisi siriana comporta “la decentralizzazione e lo sviluppo di un sistema che consenta alle comunità di autogestirsi democraticamente”.

La recente (8 agosto) “Conferenza sull’unità delle componenti del nord e dell’est della Siria” diHassaké, a cui oltre ai curdi hanno preso parte alaviti, drusi e sunniti, va considerata un’importante riflessione sull’idea di una “Repubblica siriana democratica”. In cui ciascuna componente potrà partecipare democraticamente, difendendosi e combattendo se necessario.

Preservare la rivoluzione delle donne e la rivoluzione democratica dei popoli costituirà “un esempio sia per la Turchia che per tutto il Medio-Oriente”.

Tale presa di posizione, in particolare la decisione delle YPJ (Yekîneyên Parastina Jin – Unità di Difesa delle Donne) di non deporre le armi, non nasce dal nulla, naturalmente.

Ci sono stati dei precedenti.

Tra gli episodi più controversi, inquietanti quello accaduto il 28 maggio ad Aleppo. Quando un previsto scambio di prigionieri tra il regime di Damasco (comunque sotto la supervisione turca) e le autorità curde del Rojava è andato a vuoto in quanto le prigioniere di guerra curde YPJ non erano state liberate.

Non solo. Sembra siano state trasferite direttamente nelle prigioni turche. Inevitabile ripensare ancora all’analogo destino subito da Çiçek Kobane (Dozgin Temo)*.

Ferita alle gambe e catturata in Rojava nell’ottobre 2019 dalla banda jihadista Ahrar al-Sham, veniva trasferita in Turchia per essere condannata all’ergastolo in quanto avrebbe “distrutto l’unità e l’integrità dello Stato turco”. Nientemeno. 

Da quando è al potere Aḥmad Ḥusayn al-Shara (al-Jolani), la situazione delle donne in Siria – non solo di quelle appartenenti alle minoranze curde, druse e alavite – è andata peggiorando. Almeno 635 donne sono state uccise in Siria dall’inizio del 2025 (dati – per difetto – dell’agenzia curda ANF risalenti alla fine di luglio, in seguito le cose non sono certo cambiate).

Per non parlare della loro sistematica esclusione dai processi decisionali in corso per definire il futuro del paese.

Uccisioni, stupri, rapimenti e aggressioni sono ordinaria amministrazione in particolare nelle zone costiere e a Soueïda (Suwayda). Dove le vittime civili delle milizie sunnite filogovernative si sono contate a migliaia, tanto che l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati ha ripetutamente denunciato gli abusi contro le donne alavite.

E resta grave anche la situazione complessiva della Siria. Soltanto nelle ultime settimane almeno cinque persone sono morte sono tortura per mano dei servizi di sicurezza della nuova amministrazione: Abdulrahman Jaaloul ad Aleppo, Youssef al-Ali e Ghassan al-Naaman a Homs, Ahmed Kaddour e Youssef al-Labbad a Tartous. Presumibilmente per difetto, numerosi rapporti di Ong denunciano che almeno 17 persone sono decedute sotto tortura nel primo semestre del 2025.

Gianni Sartori

*nota 1 – http://uikionlus.org/siamo-tutti-cicek-kobane/

#Kurds #Opinioni – TRATTATIVE IN CORSO TRA GOVERNO TURCO E PKK: QUALCHE CONSIDERAZIONE – di Gianni Sartori

Pare assodato che l’iniziale proposta delle attuali trattative tra governo e movimento curdo (che per ora ha prodotto lo smantellamento del PKK) sia partita da Devlet Bahceli.

Per alcuni osservatori ciò potrebbe costituire una garanzia della buona fede del governo turco, ma personalmente mantengo qualche riserva in proposito (o se volete “malcelato scetticismo”).

Il personaggio è infatti noto non soltanto in quanto leader del movimento della destra nazionalista MHP (Milliyetçi Hareket Partisi, alleato di Erdogan), ma anche come uno dei fondatori dei famigerati Lupi Grigi (Ülkücüler).

Comunque sia, in un’intervista del 10 agosto, commentando l’Appello per la pace e una società democratica di Abdullah Öcalan (27 febbraio 2025) Devlet Bahceli ha dichiarato che “la distruzione delle proprie armi da parte del PKK è un passo positivo”. Ribadendo che i popoli della Turchia “sono un tutto indivisibile”. Garantendo che il suo partito (MHP) “continuerà a lavorare sinceramente per la realizzazione di un clima di pace” e auspicando che il processo si concluda “entro la fine del 2025”.

Permane comunque il fondato il timore che si finisca con l’assistere al ripetersi del fallimentare copione del 2015. Se non peggio.

In particolare per le incognite sul destino dei militanti del PKK e di migliaia di prigionieri politici curdi.

Anche se – va detto – diversamente da quanto accadeva nel 2015, praticamente tutti i partiti sia turchi che curdi (con qualche eccezione nell’estrema sinistra rivoluzionaria) si sono pronunciati per un accordo tra “belligeranti” ( per convinzione o  per forza). Accomunati dalla necessità di risolvere una situazione economica e politica sempre più deteriorata. 

Cercando qualche segnale positivo, va segnalata la recente liberazione (dopo 31 anni e tre mesi, con l’aggiunta di un anno all’effettiva pena di 30 anni) del prigioniero politico curdo Veysi Aktaş, considerato un dirigente del PKK e finora segregato nell’isola-prigione di massima sicurezza di tipo F di Imrali (dove è rinchiuso anche Ocalan).

Il 7 agosto poi è tornato in libertà dopo 15 anni il militante curdo Abdülkerim Varışlı. Rinchiuso nel carcere di tipo S di Samsun Kavak, anche la pena era stata prolungata di sei mesi a causa della “cattiva condotta” (nonostante sia seriamente malato). Il suo ritorno è stato festeggiato con fiori e colombe bianche da un gran numero di persone nel quartiere di Cizîr a Şirnex.

Meno del minimo sindacale, d’accordo. Ma pur sempre meglio che niente.

Anche se poi, l’8 agosto, è arrivato un segnale di segno opposto. Il consiglio di amministrazione e osservazione del carcere di tipo F di Bolu ha – per l’ennesima volta – respinto la liberazione di cinque prigionieri politici.

La liberazione di Ahmed Mustafa è stata così bloccata per la quinta volta, quella di Hasan per la quarta, di Tuncay Doğan per la terza . Mentre per Keyfo Başak e Nurettin Ataman siamo a sette volte ciascuno. Un prolungamento della pena dovuta al rifiuto dei prigionieri di scambiare la liberazione con il pentimento.

E, dato che nelle galere turche, non ci sono soltanto dissidenti e ribelli curdi, ricordo che il 31 luglio il prigioniero Serkan Onur Yilmaz annunciava di trasformare il suo sciopero della fame (iniziato il 10 novembre 2024) in digiuno fino alla morte. Militante della sinistra rivoluzionaria turca, Serkan protestava contro le celle denominate “pozzo” (o “fossa”) tristemente note per costringere i detenuti in condizioni disumane, oltre che di assoluto isolamento. Con le stesse rivendicazioni altri otto militanti della sinistra rivoluzionaria (Mithat Öztürk, Ali Aracı, Ayberk Demirdöğen, Fikret Akar, Ümit Çobanoğlu, Fırat Kaya, Tahsin Sağaltıcı e Gürkan Türkoğlu) sono entrati ugualmente in sciopero della fame.

 Gianni Sartori