#Memoria #USA – IN MORTE DI ASSATA SHAKUR – di Gianni Sartori

Con la morte il 25 settembre (a 78 anni, era nata il 16 giugno 1947) dell’ex Pantera nera Joanne Deborah Byron, più conosciuta come Assata Shakur, se ne va un’altra importante protagonista delle lotte internazionali (e internazionaliste) degli anni sessanta e settanta. Viveva all’Avana ormai da 40 anni e – stando a un comunicato della Cancillería cubana – negli ultimi tempi il suo stato di salute era alquanto peggiorato.

Condannata all’ergastolo nel 1977 (con l’accusa di aver ucciso il poliziotto Werner Foerster nel New Jersey), il 2 novembre 1979 si era resa protagonista, grazie alla “Coalizione 19 maggio” (compleanno di Ho Chi Minh e di Malcom X), di una rocambolesca evasione dal carcere di massima sicurezza di Hunterdon County. Rimase in clandestinità negli USA fino al 1984 per trovare poi rifugio a Cuba.

Alla riuscita dell’evasione aveva contribuito anche Silvia Baraldini , membro della “19 maggio”, legata alla BLA (Black Liberation Army), un gruppo (o meglio: un insieme di piccoli gruppi)  separatosi dal Black Panther Party.

Condannata da una giuria di soli bianchi, Assata Shakur si è sempre dichiarata innocente dei delitti a lei attributi (oltre alla morte del poliziotto, anche di quella di un altro militante, Zayd, presente sulla scena della sparatoria). Rimaneva comunque sulla lista dei ricercati dal FBI con sulla testa una taglia da due milioni di dollari. Ma, nonostante le ripetute richieste di una sua estrazione da parte di Washington, l’Avana le concesse sempre asilo politico.

In questi anni non risultano suoi interventi politici o interviste. Unica eccezione, la pubblicazione nel 1988 di una autobiografia.

Sicuramente, insieme ad Angela Davis e Afeni Shakur (madre del musicista Tupac Shakur, ucciso nel 1996, di cui Assata Shakur era la madrina), è stata una delle donne nere maggiormente coinvolte nelle lotte per l’autodeterminazione degli afro-americani.

Gianni Sartori

#Turkey #Repressione – TRA CARCERI SPECIALI, SCIOPERI DELLA FAME, NUOVE CONDANNE E QUALCHE SPORADICA RIMESSA IN LIBERTÀ – di Gianni Sartori

Nelle carceri turche sono in corso da mesi scioperi della fame illimitati (due fino alla morte) da parte di prigionieri della sinistra rivoluzionaria. Stiamo per assistere nuovamente a uno stillicidio di vittime come qualche anno fa?

Tra gli Hunger Strikers anche due esponenti di Grup Yorum, il gruppo di musica popolare di cui facevano parte İbrahim Gökçek, la cantante Helin Bölek e Mustafa Koçak deceduti in sciopero della fame nel 2020.

In Turchia è stata confermata dalla Corte Suprema d’appello la condanna a 35 anni (con sette distinti capi d’accusa) per il militante della sinistra rivoluzionaria Ünal Yiğit.

Confermando il verdetto emesso nell’aprile dell’anno scorso dalla Alta Corte penale di Istanbul. Altri coimputati sono stati invece assolti. Tra le accuse, la principale è stata di “appartenenza a una organizzazione terroristica”. Ossia il TKP/ML (Türkiye Komünist Partisi/Marksist-Leninist, Partito Comunista di Turchia/Marxista-Leninista). I suoi avvocati hanno annunciato di voler far ricorso alla Corte costituzionale.

Un altro episodio in sintonia con il quadro generale.

Il 1° settembre, alle dieci del mattino, gli esponenti di TAYAD (“Tenacia”, l’associazione di solidarietà con le famiglie dei prigionieri politici) andavano riunendosi nel parco Kurtuluş (Ankara) in sostegno di Serkan Onur Yılmaz. Un detenuto attualmente in sciopero della fame fino alla morte (da oltre 300 giorni) per protestare contro le prigioni di tipo “pozzo”.

Ma sono stati immediatamente assaliti dalla polizia che ha arrestato numerose persone tra cui Celal Elmacı, Feridun Osmanağaoğlu, Rukiye Serce, Ferdi Sarikaya e Umut Garan Can.

Qualche giorno prima, il 22 agosto, anche in varie località europee (Tolosa, Ginevra, Bruxelles, Vienna, Minsk, Kiev, Atene, Parigi… ) si erano svolti sit-in di solidarietà con la sua protesta di Serkan Onur Yılmaz.

Attualmente sono otto i prigionieri esponenti della sinistra rivoluzionaria in sciopero della fame: Mithat Öztürk, Ali Aracı e Fırat Kaya (due membri di Grup Yorum), Ayberk Demirdöğe, Gürkan Türkoğlu, Fikret Akar, Ümit Çobanoğlu, Tahsin Sağaltıcı.

A loro il 25 agosto si è unito un esponente di Dev-Genç (Gioventù Rivoluzionaria) Mahir Doğan, arbitrariamente trasferito in isolamento nella prigione di tipo L n. 6 di Silivri.

Protestano contro le condizioni indegne in cui versano i detenuti segregati nelle celle di tipo S, R e Y. In totale isolamento per demolire fisicamente e psicologicamente i prigionieri. Con assenza di finestre, camere di sorveglianza in ogni spazio e totale automatizzazione (impedendo di fatto ogni tipo di comunicazione, perfino con le guardie).

Il 27 agosto uno di loro, Ayberk Demirdöğen, ha deciso di trasformare il suo sciopero della fame illimitato (iniziato l’11 marzo) in digiuno fino alla morte. Unendosi così alla lotta ormai estrema condotta da Serkan Onur Yilmaz.

Volendo cercare a tutti i costi qualche qualche sprazzo di cielo azzurro nelle negras tormentas del cielo turco (o qualche per quanto magra – e qui suona involontariamente ironico – consolazione), riporto che il il 26 agosto, dopo 195 giorni di sciopero della fame illimitato, un altro esponente della sinistra rivoluzionaria, Mithat Öztürk, è stata trasferito – come rivendicava con la sua lotta – dalla prigione di tipo “pozzo” dove era rinchiuso alla prigione di tipo “F” n. 1 di Sincan.

Invece il 21 agosto due detenuti politici curdi della prigione di alta sicurezza di tipo “F” di Bolu, erano tornati in libertà.

All’uscita dal carcere Deniz Güzel (arrestato nel 1992, condannato per aver “attentato all’integrità dello Stato”) e Bülent Güneş (arrestato nel 1993 e tenuto in carcere anche dopo la fine della pena in quanto “rifiutava di pentirsi”) sono stati accolti e festeggiati da amici, parenti e compagni.

Diciamo un piccolo “premio di consolazione”.

Gianni Sartori

#Palestina #Analisi – REPRESSIONE E RESISTENZA IN PALESTINA E DINTORNI – di Gianni Sartori

Immagine by Lancelot

Ai primi di settembre è stata pubblicato un rapporto di varie organizzazioni da cui risulta che il numero dei prigionieri palestinesi è aumentato in maniera significativa. Sarebbero almeno 11.100 quelli richiusi nelle carceri israeliane. Tra loro una cinquantina di donne e oltre 400 minori.

Ben 3577 sono in detenzione amministrativa (praticamente senza accuse precise, senza processo e senza tutela giuridica). Altri 2662 vengono classificati come “combattenti illegali”. E comunque senza includere tutti quelli arrestati sul campo a Gaza. 

Stando al rapporto delle organizzazioni (e ai dati in loro possesso, comunque parziali) si tratterebbe del maggior numero di prigionieri politici palestinesi dall’epoca dell’Intifada Al-Aqsa di 25 anni fa. 

Sempre ai primi di settembre, in Gran Bretagna sette esponenti di Defend Our Juries venivano arrestati in base alla legge anti-terrorismo. L’arresto è avvenuto prima di una conferenza-stampa in cui si denunciava l’interdizione dell’organizzazione Palestine Action (classificata come “terrorista” dal mese di luglio).

Fondata nel 2000, Palestine Action ha condotto vigorose campagne di proteste contro l’azienda israeliana fabbricante di armi Elbit Systems. Accusandola di corresponsabilità nel genocidio in corso a Gaza e causandole perdite milionarie. Inoltre il 20 luglio alcuni militanti erano penetrati in una base militare della Royal Air Force nell’Oxforshire danneggiando diversi aerei. Per impedire analoghe azioni di protesta, veniva classificata dal ministero degli Interni britannico come “organizzazione terroristica”.

Su iniziativa della ministra Yvette Cooper la dichiarazione di messa-fuori-legge era poi stata votata a maggioranza dalla Camera dei Comuni e dalla Camera dei Lords alla fine di luglio.

Per cui la sola appartenenza all’associazione diventava illegale con pene previste fino a quattordici (14 !) anni di prigione. Sia per partecipazione, sia per “incitamento” (?!?).

Come conseguenza, alla fine di agosto oltre settecento (700) persone venivano denunciate per aver espresso solidarietà a Palestine Action. Alla fine, di queste “solo” 67 dovranno presentarsi davanti a un tribunale (presumibilmente in ottobre) rischiando sei mesi di detenzione.

Sempre ai primi di settembre, la polizia metropolitana di Londra annunciava che altre 47 persone erano state accusate di sostenere Palestine Action, portando a 114 il numero degli indagati.

Intanto a Bruxelles, davanti all’ambasciata britannica (Avenue d’Auderghem 10), il 4 settembre veniva indetto un raduno di solidarietà con i prigionieri denominati “Filton 24”. Accusati di aver preso parte all’incursione in una fabbrica israeliana di armi della Elbit Systems a Filton nel Gloucestershire (agosto 2025). Causando ingenti danni (si parla di milioni di euro).

E in particolare per la liberazione di una di loro, la ventinovenne britannica T. Hoxha. In sciopero della fame dall’11 agosto e le cui condizioni di salute si sono ulteriormente aggravate. Senza che la direzione del carcere intenda – almeno per ora – farla ricoverare in ospedale o almeno fornirle cure adeguate.

Ricordo che già dopo i primi tre-quattro giorni di sciopero della fame il corpo inizia a scomporre le proprie riserve di grasso per ricavarne energia. Continuando poi con i muscoli e organi vitali fino al midollo osseo. In pratica, divorando se stesso. Già dopo dieci giorni risulterebbe indispensabile un intervento medico adeguato (non l’alimentazione forzata ovviamente, classificata da Amnesty International come tortura).

Da parte loro i “Filton 24” denunciano di aver subito aggressioni, privazioni del suono, isolamento in unità speciali e violazione dei diritti fondamentali.

Quanto a Hoxha, lo stesso giorno in cui veniva votata la messa-fuori-legge di Palestine Action, veniva spostata dalla prigione HMP Bronzefield a quella HMP Peterborough, un carcere amministrato a scopo di profitto dall’impresa privata Sodexo.

Più ”folcloristica”, se vogliamo, la notizia che dall’estate del 2024 è vietato l’ingresso al memoriale di Buchenwald per quei visitatori che indossano la kefiah o magliette e spille con simboli palestinesi. Buchenwald (bosco di faggi), posto su una collina a pochi chilometri da Weimar, costituiva uno dei maggiori campi di sterminio sul territorio tedesco all’epoca del nazismo.

Noto in particolare per aver contribuito all’eliminazione di migliaia e migliaia di dissidenti e prigionieri politici comunisti (per un totale di 50-60 mila vittime, il 20% ebrei). Oltre a testimoni di Geova e “asociali” (generica categoria adottata talvolta per anarchici, “zingari” e altri soggetti non addomesticabili). 

Noto in particolare per gli esperimenti “medici” condotti sui prigionieri e per aver annoverato tra gli internati anche Mafalda di Savoia.

Tra le vittime più conosciute e ancora ricordate, il dirigente comunista Ernst Thälmann, qui assassinato nel 1944 per ordine diretto di Hitler.

E tuttavia, nonostante questi precedenti storici, dall’aprile di quest’anno (in coincidenza con la ricorrenza della liberazione del campo) sono stati vietati anche i simboli sovietici e comunisti.

Altro inasprimento. In una nota del Memoriale la kefiah veniva classificata come “simbolo antisemita”. Così come l’anguria (per i colori) e la chiave (emblema del ritorno dei rifugiati palestinesi alle loro case). Simboli che si aggiungevano alla “lista nera” dove erano già stati inseriti il movimento BDS (Movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni contro l’apartheid israeliano) e varie organizzazioni di sinistra.

Gianni Sartori

#Kurds #Syria – MENTRE DAMASCO E TURCHIA MINACCIANO DI ATTACCARE IL NORD-EST AUTOGOVERNATO DAI CURDI, ANCHE PER OCALAN IL ROJAVA RIMANE UNA “LINEA ROSSA” – di Gianni Sartori

Da un comunicato del 3 settembre di AFP da Al-Qāmishlī, si apprende che le forze di sicurezza curde nel nord-est della Siria (asayis) il giorno prima avevano sventato un tentativo di evasione di massa (oltre una cinquantina di persone) dal campo di al-Hol.

Gestito dall’amministrazione autonoma curda, anche a più di sei anni dalla disfatta dello Stato islamico (Daesh) rinchiude decine di migliaia di familiari dei miliziani jihadisti (o presunti tali) in condizioni oggettivamente difficili.

Il tentativo è avvenuto “a bordo di un veicolo di grandi dimensioni (un camion, un autobus…? nda) che è stato intercettato mentre tentava di forzare l’entrata principale”. Tutti gli aspiranti evasi sarebbero stati catturati.

Stando ai dati forniti dalla direzione del campo, attualmente qui vi sarebbero circa 27.000 persone. Di cui 15.000 siriani e circa 6300 donne e bambini stranieri (almeno 42 diverse nazionalità).

Come è noto sono soprattutto i paesi occidentali che si rifiutano di riprendersi i loro compatrioti ex jihadisti.

Nel 2014 Daesh aveva occupato una vasta area di territorio in Siria e in Iraq e anche dopo la disfatta subita nel 2019 (in gran parte per merito dei curdi) alcune “cellule dormienti” rimangono nascoste nei deserti siriani.

Da dove periodicamente fuoriescono per colpire (ultimamente soprattutto nella zone di Deir ez-Zor) i posti di controllo degli asayis. Con imboscate, bombardamenti, cecchinaggio… allo scopo di destabilizzare la regione (oltre un centinaio gli attacchi dall’inizio dell’anno).

Provocando decine di vittime tra le Forze democratiche siriane e tra i civili.

Il 3 agosto le Unità di protezione del popolo (YPG) annunciavano di aver arrestato nel villaggio di Hassaké un leader dell’Isis incaricato dell’addestramento delle milizie e e nell’identificazione degli obiettivi.

Sempre in agosto le Unità di protezione delle donne (YPJ) confermavano di aver condotto oltre 60 operazioni speciali contro i mercenari jihadisti dall’inizio del 2025, arrestando 64 mercenari, tra cui tre dirigenti.

Altre nuvole oscure si vanno intanto addensando sul nord-est della Siria. Almeno stando alle recenti dichiarazioni del presidente di MHP (Partito del Movimento Nazionalista, Milliyetçi Hareket Partisi), forse propedeutiche a un’operazione congiunta di Ankara e Damasco contro le Forze Democratiche Siriane (SDF), le YPJ e le YPG.

In quanto, secondo Devlet Bahçeli, non si sarebbero allineate all’appello di Ocalan e alla sua richiesta (almeno inizialmente rivolta a tutte le organizzazioni curde) di deporre le armi e procedere all’auto-dissoluzione.

Devlet Bahçeli (il principale alleato di Erdogan e tra i fondatori dei Lupi Grigi) è il soggetto politico responsabile del tentativo in corso (almeno da parte curda) di una “soluzione politica” del conflitto. Aveva infatti chiesto espressamente a Ocalan il disarmo volontario del PKK e delle altre milizie curde.

Richiesta finora respinta al mittente da FDS, YPG e YPJ. In quanto, come dichiaravail 14 agosto Çiğdem Doğu (esponente della Comunità delle Donne del Kurdistan – KJK) “In un contesto del genere (in riferimento ai ripetuti massacri perpetrati dai filogovernativi nelle regioni alavite e druse – nda) solo pensare di imporre la resa delle armi alle Forze democratiche siriane significa semplicemente dire “Venite a farvi sgozzare”.

Tanto che anche Pervin Buldan, membro della delegazione del Partito DEM a Imralı, si è sentito in dovere di ricordare che “Abdullah Öcalan aveva approfondito con loro a situazione nel nord e nell’est della Siria”. Spiegando che pur avendo parlato soprattutto della politica turca aveva anche ripetuto che “ La Siria e il Rojava sono la mia linea rossa. Per me questo ambito è diverso”.

Intendendo – presumo – rispetto al Bakur. Il minimo sindacale direi.

Gianni Sartori

#Africa #Saharawi – SAHARA OCCIDENTALE: CONTINUA LA BATTAGLIA DIPLOMATICA TRA CONTRADDIZIONI E AMBIGUITA’ – di Gianni Sartori

La prima impressione è che – tutto sommato – parlando di Sahara Occidentale, si registri una discreta attività diplomatica a livello internazionale (e non mancano le manifestazioni di solidarietà).

Con il 45° vertice della SADC (Comunità di Sviluppo dell’Africa Australe), tenutosi a Antananarivo in Madagascar, si confermava il sostegno dei paesi partecipanti al diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi.

Quasi contemporaneamente, con la nona edizione del Vertice Giappone-Africa-TICAD (Tokyo International Conference on African Development), l’isolamento del Marocco sembrava essersi accentuato. Infatti Rabat ha dovuto, se pur obtorto collo, subire la presenza al vertice di rappresentanti della Repubblica Saharawi.

Non sembra poi voler calare, almeno per ora, la tensione tra Algeria e Francia. Fermo restando che buona parte della diplomazia occidentale sembra dare prove ricorrenti di incapacità nell’affrontare la questione saharawi. E non solo quelle di Parigi, Washington e Londra: tre membri permanenti del Consiglio di sicurezza che sostengono apertamente il piano di Rabat.

Da questo punto di vista, una recente intervista di Abdelaziz Rahabi apparsa su El Independiente e ripresa da L’Algérie Aujourd’hui, può fornire qualche chiarimento.

L’ ex ministro algerino della cultura ed ex ambasciatore in Spagna denuncia apertamente che “il piano marocchino di autonomia per il Sahara Occidentale del 2006 non è stata concepito a Rabat ma a Parigi”. All’epoca di Jacques Chirac che poi tentò di “venderlo” agli altri paesi europei. Frutto degli ottimi rapporti con Hassan II e poi con il figlio Mohamed VI. Sarkozy proseguì nella medesima direzione e Rachida Dati impersonò il volto ufficiale della “lobby filo-marocchina” in Francia.

Ricordo che attualmente il “piano di autonomia” implica quella che è stata definita “occupazione silenziosa” della regione. Con vari effetti collaterali quali la distruzione di abitazioni e la deportazione della popolazione saharawi per progetti turistici ed energetici.

Inoltre Abdelaziz Rahabi sostiene che l’attuale crisi tra Algeria e Francia, oltre che dalle vecchie ferite mai rimarginate, viene alimentate dalle manovre elettorali francesi. Ossia che “la Francia ha fatto dell’Algeria uno strumento della sua politica interna”. Intensificando gli attacchi contro Algeri (v. gli interventi contro l’immigrazione e l’islam) ogni qualvolta si avvicinano le elezioni.

Ma evidentemente, aggiunge “Non conoscono gli algerini”.

Per completare il quadro, va anche segnalato (ce lo ricordava recentemente Luciano Ardesi su “Nigrizia”) che comunque qualche “crepa” in merito alla questione saharawi si è aperta anche tra i paesi africani.

Qualche mese fa, il 10 giugno, presso il Comitato Speciale sulla decolonizzazione nella sede delle Nazioni Unite, si era tenuto un dibattito sul Sahara Occidentale (uno dei 17 territori non autonomi di cui si occupa il Comitato).

Erano intervenuti, oltre ai membri del Comitato, vari osservatori e anche il rappresentante del Polisario presso le Nazioni Unite. Con ripetuti tentativi da parte del Marocco (presente in qualità di osservatore) di impedire gli interventi di chi difendeva i diritti dei saharawi.

A conti fatti la maggioranza dei paesi africani rimane a favore dell’autodeterminazione.

Tuttavia Senegal, Costa d’Avorio , Sierra Leone, Gambia Togo, Benin, Comore, Repubblica democratica del Congo e Guinea Bissau si sono allineati con il piano di autonomia del Marocco.

Naturalmente Algeria e Sudafrica mantenevano con forza le loro posizioni a favore sia dell’autodeterminazione che del referendum.

Stessa posizione, per quanto tiepida, sfumata, quella dell’Etiopia che ospita la sede dell’ Unione Africana di cui fa parte anche la RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica). Nonostante i ripetuti tentativi di Rabat per escluderla.

Va anche segnalato che (“merito” della aggressiva diplomazia di Rabat ) in America Latina sia Panama che l’Ecuador l’anno scorso hanno ritirato il riconoscimento alla RASD.

Mentre al Comitato Speciale si sono espressi a favore Venezuela e Bolivia.

Per il Medio Oriente, intervenendo a nome dei sei paesi membri del Consiglio di cooperazione del Golfo, il Kuwait si è espresso a favore del piano di autonomia marocchino.

Sappiamo poi che ancora nel 2020 Trump aveva riconosciuto la sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale. In cambio dell’adesione del Marocco agli Accordi di Abramo e al ristabilimento di rapporti diplomatici (ma anche economici e militari) con lo stato di Israele.

Nel frattempo l’Ufficio Saharawi per il Coordinamento delle Attività Relative alle Mine Antiuomo (SMACO) ha smentito con prove la propaganda di Rabat (definita “una manipolazione dei fatti”) in merito alla distruzione delle mine anti-persona nei territori occupati.

Gianni Sartori

#Corsica #Politica – A 50 ANNI DA ALERIA, L’AUTONOMIA (FORSE) – di Gianni Sartori

Esattamente 50 anni fa (21 agosto 1975) una ventina di autonomisti armati con fucili da caccia, guidati da Edmond Simeoni (poi condannato a cinque anni), prendevano il controllo della cantina di un rimpatriato dall’Algeria (pied-noir) nel villaggio di Aleria. Scopo dell’azione diretta, denunciare gli scandali finanziari esercitati sulla produzione vinicola locale.

All’assalto del giorno successivo da parte di 1500 gendarmi e CRS, i ribelli rispondevano aprendo il fuoco e due militari perdevano la vita.

L’evento rappresenta la rinascita dell’indipendentismo corso con la costituzione del Fronte di Liberazione Naziunale Corsu nel 1976.

Nei quaranta anni successivi il FLNC sia attribuirà oltre 4500 attentati, in gran parte contro la speculazione edilizia e turistica, in difesa del territorio.

Oggi a mezzo secolo di distanza dai fatti di Aleria forse “la montagna sta per partorire il topolino”.

Infatti il Parlamento francese sta studiando un progetto di legge costituzionale che dovrebbe concedere all’Isola di Granito (attualmente una “collettività territoriale a statuto particolare”) una “autonomia nella Repubblica”. Il progetto che verrà dibattuto in Parlamento in ottobre, nel riconoscere la ”specificità del profondo rapporto instauratosi tra l’isola e i suoi abitanti”, implica la modifica (un emendamento) della Costituzione del 1958.

Si tratta della prima importante conseguenza dell’accordo politico concluso l’11 marzo 2024 tra il governo e i rappresentati corsi.

Il progetto, adottato a larga maggioranza dall’Assemblea di Corsica il 27 marzo 2024, era stato avviato ancora nel 2022 dall’ex ministro dell’Interno Gerald Darmanin in risposta ai disordini scoppiati nell’isola per la morte in carcere dell’indipendentista Yvan Colonna (condannato come presunto responsabile dell’uccisione del prefetto Claude Erignac nel 1998).

In sostanza alla Corsica verrebbe concesso uno statuto di autonomia nella Repubblica, stabilendo con una loi organique le modalità di controllo delle nuove norme e le condizioni entro cui verranno esercitati i nuovi poteri (particolarmente in ambiti come l’edilizia, il turismo, lo sviluppo economico…).

Inserendo nella Costituzione un nuovo articolo (72‑5) che riconosce formalmente tale statuto di autonomia e le particolarità che ne giustificano l’applicazione con norme diverse dal resto del territorio francese. Disponendo che “la Corsica è dotata di uno statuto di autonomia in seno alla Repubblica che tiene conto dei suoi particolari interessi, legati alla sua insularità mediterranea e alla sua comunità storica, linguistica, culturale, avendo sviluppato un legame singolare con la propria terra”.

Rimanendo di competenza del governo centrale funzioni fondamentali come la legislazione elettorale, le libertà pubbliche, la cittadinanza, l’organizzazione della sicurezza e della giustizia.

In ogni caso le decisioni prese in Corsica rimarranno soggette alla supervisione del Consiglio di Stato o del Consiglio Costituzionale. Quanto al popolo corso, potrà esprimersi mediante referendum prima dell’approvazione della legge organica.

Certo, non si tratta del primo “statuto speciale” che Parigi attribuisce alla Corsica (v. gli Accordi di Matignon del 2002 in materia di educazione, lingua e imposte), ma probabilmente il più significativo e consistente.

Come ha sottolineato Gilles Simeoni (figlio di Edmond e leader di Inseme per a Corsica) “la principale domanda da porre al Parlamento è se la Francia intende vuole chiudere un conflitto politico durato 50 anni”.

Ovviamente non tutti sono d’accordo. In particolare per la presenza del termine “communauté” ampiamente utilizzato dall’estrema destra francese. Per Pierre Ouzoulias (vice-presidente del PCF al Senato) il progetto rappresenterebbe un “affront aux principes de la République”.

Messe in guardia anche dal Conseil d’État.

Invece per François Rebsamen (ministro per la pianificazione del territorio) rappresenterebbe “une voie hors de la violence qui redonne de l’espoir à une jeunesse qui en a besoin dans la région la plus pauvre de France métropolitaine “.

Gianni Sartori

Sitografia:

https://rivistaetnie.com/yves-stella-patriota-corso/

https://centrostudidialogo.com/2022/09/24/corsica-gloriaateyvan-il-popolo-corso-non-dimentica-yvan-colonna-di-gianni-sartori/

https://centrostudidialogo.com/2022/04/05/corsica-yvancolonna-corsica-ancora-in-stato-di-agitazione-di-gianni-sartori/

#Palestina #Carceri – DONNE PALESTINESI PRIGIONIERE AL TEMPO DEL GENOCIDIO – di Gianni Sartori

In questo mese – stando al comunicato del 18 agosto dell’Associazione dei Prigionieri Palestinesi – si contano almeno quattro attacchi da parte della polizia penitenziaria contro le celle (letteralmente devastate) dei detenuti politici palestinesi nel carcere di Damon. Per la precisione, il 4, 8, 10 e 14 agosto.

I prigionieri sono stati ammanettati, trascinati per terra, bastonati e umiliati. Con utilizzo di gas lacrimogeni e di cani poliziotto.

Come denunciano da tempo le organizzazioni palestinesi di solidarietà, i prigionieri versano in condizioni vergognose. Soffrono per la fame (cibo scadente, talvolta immangiabile..) e per le carenti condizioni igieniche (alte temperature, forte umidità e scarsa ventilazione nelle celle) con l’incremento di infezioni cutanee (per presenza di insetti e parassiti).

In difficoltà soprattutto le donne, in materia di salute mestruale e riproduttiva. Tra loro anche due minorenni (Sally Sadaqa e Hana Hammad) e due incinte. Si tratta di Reema Balawi (arrestata (per “incitamento” nel febbraio 2025 e ormai all’ottavo mese) e di Tahani Abu Samhan.

Come Reema Balawi, la maggior parte delle donne è stata arrestata per “incitamento” (si presume alla ribellione contro l’occupazione) sulle reti sociali. Niente più che un pretesto, vago e inconsistente. Sostanzialmente una forma di controllo, una variante della già diffusa “detenzione amministrativa”.

Stando alla denuncia, anche le donne prigioniere sarebbero state ammanettate, prelevate con la forza dalle celle afferrandole per la testa, trascinate nel cortile della prigione e molestate.

Niente di nuovo, naturalmente. Uno stile di violazione di diritti fondamentali ormai consolidato per reprimere ogni tentativo di resistenza collettiva e che si è ulteriormente esasperato nell’ultimo periodo.

Per le organizzazioni dei diritti umani siamo di fronte a “violazioni senza precedenti, dal momento dell’arresto al trasferimento provvisorio nel centro di detenzione di Hasharon fino a quello definitivo in Damon”.

Private dei figli, della famiglia per il divieto di visite, alimentandone ulteriormente la sofferenza psicologica. Senza cure mediche adeguate, come Fidaa Assaf, malata di tumore.

Secondo l’Associazione dei Prigionieri (in base alle denunce delle prigioniere stesse) la lista delle prevaricazioni esercitate sulle donne incarcerate comprenderebbe: torture, abusi, umiliazioni, perquisizioni corporali con denudamento (di fatto una forma di aggressione sessuale), isolamento, ricatti nei confronti delle famiglie (per l’Associazione si tratterebbe semplicemente di usarle come “ostaggi”), inattività, mancanza di cure mediche.

Dall’ottobre 2023 si contano almeno 570 casi di donne e bambine arrestate in Cisgiordania (compresa Gerusalemme). Non si hanno invece dati precisi su quelle arrestate a Gaza.

Tra loro studentesse, insegnanti, madri e sorelle di prigionieri…

Nell’indifferenza impotente della comunità internazionale. Al tempo del genocidio.

Gianni Sartori