#MemoriaStorica #Grecia – IN MEMORIA DI ALEXANDROS ANDREAS GRIGOROPOULOS – di Gianni Sartori

17 anni fa il giovane libertario perdeva la vita per “spari intenzionali e immotivati”

“Buon viaggio, Alexis. Forse era necessario che tu te ne andassi affinché potessimo svegliarci. Resterai sempre nei nostri cuori, l’ultimo sangue innocente».

C’era anche questo epitaffio nel dicembre 2017 tra le decine di frasi lasciate appese nel quartiere di Exarchia dove il quindicenne ateniese Alexandros Andreas Grigoropoulos era stato ucciso da un colpo di pistola dell’agente Epaminonda Korkoneas, poi incriminato per omicidio. Da quel 6 dicembre 2008, quando il giovane anarchico venne assassinato nel quartiere di Exarchia, erano passati 9 anni. All’epoca le proteste durarono settimane mentre altre si svolsero in mezza Europa, Italia inclusa.

Oggi, dicembre 2025, ne sono trascorsi 17, ma la memoria resiste.

All’epoca si tentò di mascherare l’uccisione di Alexis come una reazione agli scontri in atto. Un video, diffuso dai suoi familiari confermò senza ombra di dubbio che quelli esplosi contro il ragazzo erano «spari intenzionali e immotivati». Tre colpi sparati a freddo durante uno scontro puramente verbale, una discussione.

In seguito il responsabile del delitto (Epaminondas Korkoneas) venne condannato all’ergastolo. Nel 2019 la sua pena veniva ridotta alimentando nuove proteste. Nel dicembre 2017 i cortei per Alexis si conclusero con scontri e arresti. Anche a causa delle politiche (di fatto neoliberiste e antipopolari nonostante le “buone intenzioni” iniziali) del governo di allora (Syriza-Anel). Poco tempo prima i lavoratori del PAME, affiancati dal KKE, avevano assaltato il ministero del Lavoro sfondando la saracinesca di uno degli accessi all’edificio. Sconfessando con i fatti quanti sostenevano che ormai in Grecia la ribellione aveva ceduto il passo alla stanchezza e alla disillusione.

Ovviamente niente di paragonabile a quanto accadeva nel 2008. I giovani che allora avevano trasformato le strade della Grecia in quelle di una Belfast o Donosti degli anni ottanta protestavano per l’uccisione di uno di loro ma la rabbia covava da tempo. Negli ultimi mesi vi erano state numerose manifestazioni per esprimere il malcontento popolare nei confronti delle politiche di austerità.

Nei giorni della ribellione il Politecnico di Atene, circa 13mila iscritti, era diventato la roccaforte del movimento. Non solo studenti, ma anche giovani disoccupati, precari, militanti dei gruppi della sinistra radicale e altri che fino al giorno prima non si erano mai occupati di politica. L’età dei rivoltosi variava dai 15 ai 35 anni. Alcuni avevano scelto di protestare pacificamente, altri (i “kukulofori”, incappucciati) lanciavano pietre e molotov. Dopo la manifestazione pomeridiana dell’8 dicembre 2008 il centro di Atene appariva saccheggiato: un intero cinema dato alle fiamme, decine di negozi e banche incendiati, innumerevoli le vetrine infrante e le barricate. Per tutta la notte, dopo che i cortei erano stati dispersi dalle cariche, continuavano gli scontri fra i giovani e le unità antisommossa (MAT) nella città invasa dall’odore acre dei lacrimogeni e degli incendi. Le manifestazioni proseguirono nei giorni successivi, sia per il funerale di Alexis che durante lo sciopero generale di mercoledì 10 dicembre 2008. A Patrasso, Atene, Komotinis, Kavala, Tessalonica, Salonicco, Trikala e anche nelle isole: Creta, Rodi, Corfù, Samo…

Nel corso della rivolta, durata circa tre settimane, verranno occupati fabbriche, teatri, scuole, università, sindacati. Tali eventi si ripeterono sia nel dicembre 2009 che nel maggio 2010 quando un corteo di oltre 200mila manifestanti assaltò lo stesso Parlamento greco.

Il quotidiano Eleftheros Typos nel dicembre 2008 titolò «Atene e Salonicco sono state messe sotto assedio” mentre A. Sanchez, corrispondente di El Pais scrisse che «ad Atene sono stati attaccati tredici commissariati di polizia». Stessa situazione a Salonicco dove si registrarono gli scontri più violenti. Altre manifestazioni di protesta, pacifiche, erano state organizzate dai partiti di opposizione, il Pasok (socialista) e il Kke (comunista).

A Berlino il consolato greco restò occupato per circa otto ore e venne tolta la bandiera per sostituirla con un cartello in memoria del compagno ucciso. Altre occupazioni di consolati greci si registrarono in Italia il 12 dicembre.

Iniziative di solidarietà con gli studenti greci si svolsero davanti a consolati e ambasciate di Londra, Parigi, Milano, Berlino e Nicosia. Anche Amnesty International stigmatizzò il comportamento della polizia greca, accusandola di usare la forza in maniera «sproporzionata e illegale» nella repressione delle manifestazioni.

Gli avvenimenti del dicembre 2008 venissero classificati come «i più gravi accaduti in Grecia dal 1973» in riferimento alla rivolta del Politecnico contro i colonnelli fascisti. Il Politecnico di Atene aveva e ha un grande valore simbolico: da qui nel 1973 era partita la sollevazione destinata a dare il colpo di grazia alla dittatura militare dei colonnelli. Più di quaranta studenti rimasero uccisi e da allora la legge proibiva alla polizia di mettervi piede. Intervistato da Elise Vincent, il vice-presidente dell’Università, Gerasimos Spathis, aveva mostrato comprensione e anche una certa simpatia per i giovani di questa «intifada greca» che nella facoltà trovavano rifugio tra una manifestazione e l’altra. Da tempo molti docenti si opponevano alle politiche governative di privatizzazione delle università. Il governo aveva appena approvato una riforma per «rendere più flessibile il sistema universitario» che all’epoca produceva il minor numero di laureati (fra i giovani dai 20 ai 29 anni) nei Paesi dell’Unione europea. In realtà già allora si prevedevano ulteriori tagli all’istruzione pubblica per favorire la nascita di atenei privati.

Nel 2008 la radiografia economica dell’ultimo decennio in Grecia appariva contraddittoria. La disoccupazione sembrava essere passata dal 12% al 7,6%, ma le cose cambiavano se si considerava la situazione dei giovani. Nel 2007 i disoccupati greci giovani erano al 22,9%: il peggior dato di tutta l’Ue, seguivano Italia (20,3%) e Polonia (21,7%). Percentuali lontanissime non solo da quelle dell’Olanda (5,9%) ma anche da Cipro (10%), dalla Slovenia (10,1%) o dalla Repubblica Ceca (10,7%). La mancanza di prospettive, il timore per un futuro incerto alimentavano il rancore sociale sia contro le forze dell’ordine accusate di «usare metodi brutali» che contro il governo di allora, il centro-destra di Costas Caramanlis (così come accadeva nel 2017 nei confronti dei “progressisti” di Syriza-Anel). In molti giudicavano il governo direttamente responsabile della corruzione dilagante (confermata dai numerosi scandali) e delle sempre più accentuate disuguaglianze sociali. Fortemente contestati anche i salari da 650 euro destinati ai giovani lavoratori, una delle ragioni per cui un gran numero di loro era costretta a coabitare con i genitori fino ai 30 anni.

Le possibilità di manovra del governo di allora apparivano molto limitate. Era ormai evidente che con un solo deputato di vantaggio rispetto all’opposizione, il partito al potere (Nuova Democrazia) sarebbe stato costretto a indire elezioni anticipate nel 2009. Secondo Anthony Livianos, citato dall’agenzia Reuters: «Queste proteste avvengono in un momento molto delicato e, se dovessero continuare, avranno un effetto devastante sulla stabilità politica». Intervistato da «la Repubblica» anche l’ex segretario generale del Pasok Mihalis Hrisohoidis, ministro dell’Interno fino al 2007, si era detto pessimista al punto di temere un ritorno del regime militare.

E anche quest’anno, il 6 dicembre 2025, l’adolescente quindicenne assassinato è stato ricordato da migliaia di persone in Atene.

Manifestazioni inizialmente pacifiche. Ma poi – dopo che circa 400 antagonisti si erano scontrati con la polizia – verso le otto di sera sono partite le cariche i lanci di lacrimogeni.

Una sessantina le persone arrestate.

Gianni Sartori

#Kurds #Europe – ZEHRA KURTAY ANCORA IN SCIOPERO DELLA FAME CONTRO L’ESTRADIZIONE – di Gianni Sartori

Giornalista di origine curda, militante della sinistra radicale e rifugiata politica, Zehra Kurtay (53 anni) vive in Francia ormai da 18 anni.

Su di lei pende una spada di Damocle, con la prospettiva di venir estradata in Turchia. Dove, oltre alla detenzione (forse a vita), rischia di subire maltrattamenti e torture.

Già perseguitata in patria (varie volte arrestata e imprigionata per alcuni articoli), nei suoi confronti stato emesso un OQTF (Obligation de Quitter le Territoire Français).

In Turchia nei primi anni novanta, all’Università, aveva collaborato con un gruppo di giornalisti militanti riuniti attorno a una rivista chiamata Le Combat (in francese).

Arrestata una prima volta nel 1994 assieme ad altri colleghi, successivamente a Istanbul partecipa alla creazione di un giornale nel quartiere di Gazi: La Voce di Gazi e nel 1998 diventa capo redattore di Kurtuluş, apertamente di sinistra. Nel corso di una perquisizione della redazione alcuni giornalisti, tra cui Zehra, rimangono feriti mentre in un’altra successiva vengono arrestati per sospetti legami con il THKP-C (Türkiye Halk Kurtuluş Partisi-Cephesi). Rinchiusa nel carcere di Ümraniye, con altri prigionieri politici organizza la protesta contro la riforma con cui il governo intendeva modificare la situazione carceraria. Sostituendo le grandi camerate-dormitorio (dove era possibile la socialità, il confronto, lo studio collettivo…) con l’isolamento delle celle di “tipo F”.

Dopo “un anno di dibattiti e discussioni tra noi detenuti per avere una linea comune, abbiamo deciso di iniziare gli scioperi della fame”. Nel 2000 Zehra Kurtay fa parte del primo gruppo di Hunger Strikers. Giunta al sessantesimo giorno viene prelevata di forza dalla polizia, insieme a molte altre persone che partecipavano alla protesta. Di fronte alla loro resistenza si scatena un vero massacro. Solo nel suo carcere cinque prigioniere perdono la vita. In totale (la protesta coinvolgeva una ventina di penitenziari e circa duecento militanti) alla fine si conteranno una trentina di vittime tra i prigionieri.

Dato che sia Zehra Kurtay che altri detenuti proseguivano nello sciopero, al suo 181° giorno di digiuno viene sottoposta all’alimentazione forzata (per Amnesty International “una forma di tortura”, condannata dal Diritto internazionale). Nel corso di questo e di altri scioperi della fame successivi (tra il 2000 e il 2007) almeno 600 dissidenti turchi e curdi che l’avevano subita risultarono pesantemente danneggiati, sia fisicamente che psicologicamente.

Anche per Zehra il trattamento non rimane senza conseguenze. Riporta “lesioni neurologiche irreversibili e serie difficoltà per spostarsi autonomamente”.

A causa delle sue condizioni può uscire di prigione e rientrare a casa. Ma quatto anni dopo “nonostante non fossi ancora ristabilita, il governo e i medici hanno deciso che stavo meglio e volevano rimettermi in prigione”.

Grazie ai famigliari che le procurano un passaporto falso nel 2007 riesce a raggiungere la Francia ottenendo lo status di rifugiata.

Ma nel 2012 veniva condannata a cinque anni per il suo precedente impegno politico e rinchiusa nella prigione di Fleury-Mérogis (praticamente in isolamento).

Nel 2021 scopre che le era stato tolto lo status di rifugiata politica (oltretutto senza informarla).

Per “difendere i miei diritti, ottenere l’asilo politico che mi è stata usurpato” dal 3 luglio di quest’anno Zehra Kurtay è in sciopero della fame (in data 5 dicembre siamo ormai al 157° giorno).

E fatalmente il suo stato di salute va deteriorandosi. Pesa solo 38 kg., con una significativa diminuzione delle riserve muscolari e altre serie complicazioni.

Finora solo la mobilitazione solidale di una quindicina di associazioni che si è andata sviluppando intorno alla sua tenda di resistenza a Porte de Saint Denis (Boulevard Saint Denis, Parigi) ne ha impedito l’espulsione.

Gianni Sartori

#IncontriSulWeb – EUSKERA, LA BATTAGLIA PER LA LINGUA

Un incontro con Xuban Zubiria, attivista politico e linguistico che opera nei Paesi Baschi per salvaguardare la Lingua tradizionale del territorio.
Analizzeremo la situazione attuale, i tentativi di repressione linguistica attuati negli ultimi mesi e l’attività messa in campo dall’associazionismo basco per rispondere a questi attacchi.
In contemporanea sui nostri social e sul nostro Blog.

#Kurds #News – IL PKK HA FATTO LA SUA PARTE, ORA TOCCA ALLA TURCHIA – di Gianni Sartori

elaborazione su immagine @ ANF

IN ASSENZA DI SIGNIFICATIVE INIZIATIVE DA PARTE DI ANKARA, L’EX PKK NON INTENDE COMPIERE ALTRI PASSI VERSO LA SOLUZIONE POLITICA DEL CONFLITTO

A tutto c’è un limite evidentemente. Dopo aver compiuto nel corso del 2025 una serie di passaggi significativi (cessate il fuoco unilaterale del 1 marzo, auto-dissoluzione in maggio, distruzione delle armi in luglio, ritiro della guerriglia dalla Turchia…) verso la soluzione politica del conflitto, l’ex PKK non intende compierne altri. Perlomeno finché la “controparte” (il governo turco) non darà il suo contributo ai negoziati liberando Abdullah Öcalan, imprigionato dal 1999.

Il messaggio è stato enunciato in occasione della commemorazione del 47° anniversario della fondazione del PKK.

Un evento organizzato dalle HPG (Hêzên Parastina Gel – Forze di Difesa del Popolo) e dalle YJA STAR (Yekîneyên Jinên Azad ên Star – Unità delle Donne Libere) nelle Zone di Difesa di Medya (Bashur, nord dell’Iraq).

Questo almeno è quanto ha dichiarato da Kandil (nel Bashur) il comandante delle HPG Amed Malazgirt.

Aggiungendo di aver apprezzato la creazione di una commissione parlamentare incaricata del processo di pace di cui una delegazione ha visitato il 24 novembre il “Mandela curdo” a Imrali.

“Un gesto positivo – ha detto – ma non sufficiente”.

Due le principali richieste dei curdi: la liberazione appunto di “Apo” e il “riconoscimento ufficiale e costituzionale del popolo curdo in Turchia”. Il comandante guerrigliero ha poi voluto chiarire il significato della simbolica cerimonia di luglio (distruzione con il fuoco di una trentina di AK-47). Non si è trattato, come ha voluto interpretarla il governo turco, della rassegnata risposta del PKK a una richiesta di Ankara. Ma semplicemente della conferma che – così come aveva chiesto Öcalan – “noi ci siamo impegnati a non utilizzarle contro lo Stato turco”. Come infatti è avvenuto fino ad oggi.

Sempre in riferimento a Öcalan (ma il discorso dovrebbe valere anche per tutti gli altri prigionieri politici rinchiusi nelle carceri turche) la comandante Serda Mazlum Gabar ha rivendicato “il concetto di diritto alla speranza e alla liberazione”. Spiegando che “per libertà noi intendiamo che “Apo” sia libero di agire, di dirigere il movimento e di integrarsi nel popolo”.

Gianni Sartori