#Americhe #Brasile – LA LCP ANCORA SOTTO TIRO – di Gianni Sartori

Come in passato, gli accampamenti dei contadini poveri vengono attaccati e distrutti, mentre le famiglie sono deportate.

La Lega dei Contadini Poveri (LCP) è un movimento popolare del Brasile ben radicato negli stati occidentali di Rondônia e Amazonas.

Già finita, suo malgrado, sotto i riflettori dei media nell’ottobre 2020 quando l’Accampamento di Tiago Campin dos Santos (con circa seicento famiglie di contadini e oltre un centinaio di bambini) veniva attaccato dal BOPE (polizia militare) e dalla Forza Tattica con impiego di elicotteri e granate lacrimogene.

Eravamo in piena era-Bolsonaro e lo scopo evidente era quello di sfrattare i contadini per consegnare le terre occupate ai latifondisti.

Oltre a distruggere le cucine collettive e depredarli dei loro miseri averi (attrezzi da lavoro, telefoni, documenti, un po’ di denaro..), i militari avrebbero costretto i contadini ad assistere alla proiezione di un video in cui Bolsonaro stesso li minacciava “di morte” se non avessero consegnato i loro leader. 

Infine i contadini con i loro familiari sono stati caricati a forza sui camion forniti dai latifondisti per deportarli lontano, a Vila Penha.

Alcune persone dell’accampamento in seguito risultarono desaparecidas.

Le cose non erano tanto cambiate un anno dopo quando, il 29 ottobre 2021, due membri della LCP (Gedeon José Duque e Rafael Gasparini Tedesco) venivano assassinati nel corso di un episodio simile: lo sgombero con la forza di oltre 700 famiglie nella zona di Nova Mutum.

In questa circostanza decine di pistoleros sul libro paga dei latifondisti avevano dato man forte al Battaglione delle Operazioni Speciali.

Le famiglie le cui abitazioni erano state distrutte rimanevano poi a lungo in situazione precaria, senza acqua e cibo, sottoposte a minacce e violenze. Nello stesso periodo altri sette contadini legati alla LCP erano stati assassinati nella regione di Nova Mutum.

In questi giorni le cose sembrano doversi ripetere con l’operazione “Godos” avviata nello stato di Rondônia (nella parte nord-occidentale del Brasile, confinante con la Bolivia) contro la LCP.

Per l’occasione sono stati mobilitati circa 500 poliziotti, sia civili che militari.

Al momento le persone arrestate sono una ventina, una cinquantina quelle ricercate e almeno una vittima, un contadino, ancora nella zona di Tiago Campin dos Santos.

Il 12 novembre, a Ji-Paraná, veniva arrestata anche l’avvocato Lenir Correia, membro dell’ABRAPO (gli “avvocati del popolo”), da tempo in prima linea nella difesa dei contadini diseredati.

Appare evidente che anche con la presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva (in ogni caso assolutamente non paragonabile a quella di Bolsonaro) le contraddizioni emergono prepotentemente.

Come l’11 novembre quando decine di indigeni (respinti dalle forze dell’ordine) avevano tentato di superare le barriere alla “zona blu” (quella dei dibattiti) della COP30 a Belem. Denunciando l’incremento della deforestazione e le trivellazioni.

Alle proteste il governo aveva risposto positivamente annunciando il riconoscimento come proprietà indigena di altri dieci territori ancestrali in diverse aree del paese. Un procedimento tecnicamente noto come “demarcazione” che dovrebbe garantire agli indigeni il diritto di consentire o meno attività di sfruttamento minerario o agricolo del territorio (ben sapendo che in genere tali attività vengono proibite dai nativi). D’accordo, siamo al minimo sindacale, ma comunque sempre meglio che all’epoca di Jair Bolsonaro. Se infatti con Lula sono già stati riconosciuti una ventina di territori indigeni, con il governo precedente nemmeno uno.

E anche per la ministra dei Popoli indigeni del Brasile Sonia Guajajara “il riconoscimento dei diritti territoriali deve essere uno degli obiettivi principali della COP30”.

Un’ultima considerazione poi sui recenti massacri di fine ottobre, quando il Battaglione delle operazioni speciali di polizia (2500 uomini del BOPE) ha causato la morte di circa 150 persone (in maggioranza pretos e pardos) nelle favelas dei quartiere Alemão e Penha di Rio de Janeiro. Un’operazione organizzata, senza autorizzazione del governo federale, dal governatore di Rio Claudio Castro (di estrema destra, vicino a Bolsonaro) che ufficialmente era di contrasto al narcotraffico, ma con evidenti riflessi propagandistici e anche elettoralistici.

O forse, come suggeriva qualche osservatore, un preludio, un esperimento di “strategia della tensione” in salsa brasiliana. Per screditare il governo di Lula e creare un clima favorevole al ritorno di Bolsonaro & C.

Vedi anche, si parva licet, i dubbi sull’origine dell’incendio del 20 novembre in un padiglione all’interno della sede dei negoziati sul clima delle Nazioni Unite alla COP30.

Gianni Sartori