#Kurds #Iraq – ANCORA UNA MANO TESA DELL’EX PKK AL REGIME TURCO (NELLA SPERANZA DI UNA DEFINITIVA SOLUZIONE POLITICA DEL CONFLITTO – di Gianni Sartori

Il 17 novembre l’ormai ex Partîya Karkerén Kurdîstan (PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha confermato di aver completato nel giorno precedente il ritiro dei combattenti da alcune zone frontaliere del nord dell’Iraq (regione di Zap).

Una misura che si inserisce nella nuova strategia per “contribuire alla pace e alla democratizzazione in Turchia”. In questi ultimi otto mesi l’ex PKK ha compiuto vari gesti di pacificazione e riconciliazione: dal cessate il fuoco unilaterale del marzo 2025 all’auto-dissoluzione  in maggio, fino alla cerimonia di distruzione delle armi in luglio.

Per continuare con l’evacuazione dei guerriglieri dalla Turchia in ottobre.

Anche se, va detto, con risposte per ora insoddisfacenti dalla controparte turca.

Nella regione di Zap, pesantemente colpita fin dal 2008 dalle operazioni militari di Ankara e dai bombardamenti, esistevano alcune basi storiche (di valore anche simbolico) della guerriglia curda. Qui si era insediato il suo primo quartier generale prima del trasferimento a est, sui monti Qandil.

Sempre in Iraq, il 19 novembre alcuni esponenti dell’amministrazione arabo-curda del Rojava hanno partecipato al Forum sulla Pace e sulla Sicurezza nel Medio-Oriente (MEPS) in corso presso l’Università americana di Duhoki (Kurdistan del Sud, in territorio iracheno).

Si tratta di Mazloum Abdi (comandante in capo delle Forze Democratiche Siriane) e di Ilham Ahmed (copresidente del dipartimento delle relazioni estere dell’Amministrazione autonoma del Nord e dell’est della Siria).

Al Forum (siamo alla quinta conferenza annuale organizzata dall’Università americana del Kurdistan) partecipano numerosi esponenti politici, universitari, ricercatori e scrittori statunitensi, europei e medio-orientali.

Gianni Sartori

#Matinik #StopColonialism – IL RILASCIO DEI MILITANTI ACCUSATI DI AVER ABBATTUTO ALCUNE STATUE IN MARTINICA NEL 2020 – di Gianni Sartori

elaborazione su immagine @ Mélissa Grutus

Matinik (Martinique, Martinica): il 17 novembre sono stati rilasciati undici giovani militanti (sei uomini e cinque donne), accusati di aver danneggiato (“déchoukées”, letteralmente “sbullonate”) alcune statue il 22 maggio 2020 (giornata dell’abolizione della schiavitù) e poi il 26 luglio. Due di Victor Schœlcher (colonizzatore del XVII° sec., fondatore delle prime colonie nelle Antille), una – già decapitata nel 1991 – di Joséphine Beauharnais (associata al ripristino della schiavitù da parte del marito, Napoleone, nel 1802) e un’altra di Pierre Belain d’Esnambuc, rivendicando il loro gesto come “un atto legittimo di anticolonialismo”. 

Nel maggio 2022 l’isola (dipartimento d’oltre mare francese) era stata letteralmente rastrellata per identificare e interrogare una decina di sospetti. Ammanettati e arrestati in attesa del processo che si è svolto in questi giorni nella capitale Fort-de-France.

Mentre risultano assolti quelli accusati di aver danneggiato le statue di Pierre Belain d’Esnambuc e di Joséphine de Beauharnais, sono stati ritenuti colpevoli ( ma comunque non condannati, anche il pubblico ministero aveva riconosciuto il “valore simbolico del gesto” ) coloro che avevano colpito le statue di Victor Schoelcher.

Forse perché in realtà Schoelcher non era un volgare colonizzatore, ma un addirittura un abolizionista. Messo comunque in discussione da una parte dei militanti in quanto la sua immagine paternalistica di “sauveur blanc” offuscherebbe, renderebbe “invisibile” la resistenza degli schiavi stessi.

Il processo è stata seguito da un folto pubblico (composto da insegnanti, artisti, esponenti del mondo culturale… ), la maggior parte a sostegno degli imputati (numerosi gli applausi). In quanto “è la storia stessa della Martinica, con i suoi simboli e le sue ferite, a venir portata in tribunale”.

Ossia, come ha commentato un altro militante: “Quello che stanno giudicando non è tanto la questione delle statue, ma il modo in cui si vuole raccontare la storia della Martinica”.

Aggiungendo che “da Bristol alla Guadalupa, dal Mississippi alla Martinica, i popoli si riappropriano della loro storia. Distruggere una statua significa aprire uno spazio per il dibattito”.

All’epoca i video delle spettacolari azioni dirette denominate “déchoukaj” (un termine creolo originario di Haiti per indicare la vendetta contro gli oppressori, i colonizzatori) avevano avuto vasta diffusione. 

All’esterno del tribunale, nella vicina place Bertin, venivano intanto lette poesie e opere di artisti locali. Inalberando striscioni come “Giudicare la gioventù significa condannare la memoria vivente”.

Appare evidente che anche a ormai quasi venti anni dalle rivolte del 2009, la popolazione della Martinica (Matinik in creolo) non ha smesso di interrogarsi su quale sia il suo posto nella storia francese. 

Gianni Sartori