#MedioOriente #Opinioni – MILIZIE TRIBALI A GAZA E IN SIRIA: OGGETTO DI STRUMENTALIZZAZIONE, NUOVI ASCARI O CHE ALTRO? – di Gianni Sartori

Dopo aver dovuto assistere – esterrefatti e impotenti – alla strumentalizzazione delle lotte per l’autodeterminazione (v. “l’indipendentismo a geometria variabile”, usa e getta), pare vada profilandosi una strumentalizzazione anche delle realtà tribali. Manipolate e foraggiate per mantenere lo stato di cose presente fondato su sfruttamento e dominio.

Recentemente si era parlato della possibilità di “dare potere alle strutture classiche di Gaza” (ossia i clan tribali) in alternativa alla gestione della sicurezza temporaneamente affidata ad Hamas dagli USA (il 13 ottobre).

Una via d’uscita realistica o direttamente dalla padella alla brace?

A Gaza i clan costituirebbero circa il 70% dei 2,3 milioni di residenti (dati approssimativi, forse “gonfiati”) con oltre 600 mukhtar (capi di villaggio, esponenti del comando tribale) in rappresentanza di sei confederazioni beduine.

Da segnalare (nella generale situazione di vuoto amministrativo e politico) che sempre al 13 ottobre risaliva l’offerta di amnistia da parte di Hamas (?!?) per i membri delle bande tribali che si fossero arruolati nelle sue forze di sicurezza. Le cose andavano complicandosi ulteriormente con gli scontri tra le milizie di Hamas e alcuni gruppi – definiti “indipendenti” – nei quartieri di Sabra e Shuja’iyya.

L’alternativa, per alcuni osservatori statunitensi, sarebbe quella di affidare la sicurezza alle realtà tribali. In tal senso aveva agito Israele fin dall’inizio del 2024 proponendo di svolgere tale compito a una dozzina di clan ritenuti “più affidabili”. Raccogliendo però il rifiuto di una decina di questi (non certo per “simpatia” nei confronti di Hamas, ma presumibilmente per opportunità, per non ritrovarsi poi “con il cerino in mano” se Israele li avesse scaricati).

Alla proposta israeliana avevano invece aderito le soidisant Forze Popolari di Yasser Abu Shabab (costituite da circa 400 miliziani).

Sul loro operato i pareri sono quantomeno controversi. Se per alcuni avrebbero “assicurato con successo corridoi umanitari per sei mesi consecutivi” (v. i convogli del discusso World Food Programme), per altri si sarebbero appropriati degli aiuti a spese degli sfollati.

Tra le altre realtà tribali che avevano accettato di collaborare, spiccava una fino ad allora sconosciuta “Forza d’Attacco Antiterrorismo” di Hossam al-Astal. In collaborazione con le milizie del clan al-Mujaida avrebbe (condizionale sempre d’obbligo data la “fluidità” della situazione) respinto le operazioni di Hamas in varie occasioni (fondamentale comunque il supporto aereo israeliano).

Dando comunque per scontato che alcuni clan (gli addetti ai lavori citano il clan Tayaha nelle zone orientali e il clan Barbakh) siano ancora in grado di esercitare una forma – magari parziale – di controllo sull’economia grazie una rete di attività agricole e commerciali in parte transfrontaliere (tra Gaza, Egitto e Giordania).

Del resto la stessa Hamas (tra il 2007 e il 2011 attraverso l’Amministrazione Generale per gli Affari dei Clan) aveva integrato tali strutture tradizionali coinvolgendo centinaia di mukhtar e istituendo una quarantina di “comitati di riconciliazione”.

Inoltre – nonostante le numerose perdite a causa dei bombardamenti israeliani – alcune famiglie di Gaza (gli Abd al-Shafi, i Rayyes…) avrebbero ancora al proprio interno numerosi professionisti (medici, insegnanti, avvocati, ingegneri…) in grado di svolgere funzioni tecniche indispensabili per la ricostruzione.

Esiste tuttavia il fondato sospetto che questo percorso( in parte ricalcato sulla fallimentare esperienza delle Leghe di Villaggio negli anni ’80, promossa da Israele per contrastare l’Intifada) finisca per alimentare l’ulteriore frammentazione-disgregazione della residua società civile di Gaza. Con la nascita di “feudi” controllati dalle milizie di questi minuscoli “signori della guerra”. Supervisionati dall’esercito israeliano che fornirebbe armamenti, veicoli, intelligence…oltre a garantire adeguati stipendi.

In ogni caso, al di là dei futuri sviluppi, appare evidente come anche in Palestina le realtà tribali vengano utilizzate, strumentalizzate per le finalità geopolitiche degli Stati (in gran parte estranee ai loro reali interessi).

E qualcosa del genere (utilizzo dei medesimi protocolli?) potrebbe essere già operativo in Siria.

Se a Gaza era lecito sospettare un intervento del Mossad, in Siria pare accertato che il MIT (l’intelligence turca) e le HTS (Hayat Tahrir al-Sham) stiano organizzando varie milizie sotto l’inedita denominazione di “esercito tribale”. Non sarebbero altro che residuati bellici delle  bande integraliste legate all’Isis. Sempre in prima linea nell’attaccare le forze arabo-curde (FDS) a Deir ez-Zor, Raqqa e Tapka (nord e est della Siria). Ne farebbero parte anche alcune “cellule (finora) dormienti”, ridestate e in un certo senso “istituzionalizzate”. Ancora in luglio (v. sito lekolin.org) si parlava di una “Brigata di Liberazione di Cizîrê”, legata alla tribù El Eşraf (ma infiltrata da capi di bande integraliste), frutto degli incontri a Damasco tra MIT e intelligence di HTS.

Per cui è possibile che sotto la “maschera tribale” si nasconda la pura e semplice riesumazione dello Stato islamico di antica memoria.

Allo scopo di seminare morte, distruzione e instabilità nei territori in parte ancora autogovernati del nord e dell’est della Siria.

Utilizzando sia i sabotaggi che gli omicidi mirati di esponenti dell’Amministrazione autonoma e delle FDS.

Così come – con lo stesso obiettivo – la Turchia mantiene da tempo le milizie dell’Esercito Siriano Libero nelle zone rurali di Aleppo e di Hesekê. Per alimentare le divisione settarie tra arabi e curdi e per guastare le conquiste del Rojava.

Risale al 10 ottobre l’apparizione un nuovo gruppo tribale autodenominato “Vulcano dell’Eufrate” (forse una creatura del MIT) di cui fanno parte anche ex (ex ?) membri dell’Isis. Si è fatto conoscere per aver incendiato la sede di un gruppo di donne (Zenobiya) nella città diAbu Hamam, à Deir ez-Zor.

Fermo restando che l’analogia (se esiste) riguarda l’utilizzo strumentale delle comunità tribali da parte di chi detiene potere e armamenti. Qui non si vuole assolutamente stabilire parallelismi tra la situazione di Gaza (dove opera una frazione dell’integralismo islamico come Hamas) e il Rojava (con quanto rimane dell’utopia “dal basso” del Confederalismo democratico).

Sempre sulla articolata questione curda, un’ultima ora dell’agenzia Reuters apre qualche inaspettato spiraglio.

Il governo turco starebbe preparando una legge speciale (l’approvazione è prevista verso la fine di novembre, dopo essere stata sottoposta al Parlamento) per consentire il rientro di migliaia di militanti curdi (ex PKK) attualmente rifugiati nel nord dell’Iraq.

Un passaggio ritenuto indispensabile per il processo di pace.

Non è però chiaro quanto il testo legislativo, elaborato dal partito di Erdogan (Adalet ve Kalkınma Partisi -AKP), consentirà – e in quale misura – di sospendere le inchieste e i procedimenti giudiziari nei confronti dei combattenti che depongono le armi.

Per cominciare, dovrebbe rientrare in Turchia un primo scaglione di circa mille militanti che non hanno preso parte direttamente al conflitto armato. Di seguito altri ottomila (sempre esponenti “civili”, non guerriglieri). Sarebbe inoltre prevista la possibilità per un migliaio di comandanti dell’ex PKK “di alto grado” di raggiungere paesi terzi.

Un portavoce del partito DEM (Tayyip Temel) aveva confermato la  notizia precisando che “stiamo lavorando all’elaborazione di una legge speciale per il PKK allo scopo di garantire la reintegrazione dei suoi membri nella vita sociale democratica dopo la dissoluzione”.

Per una soluzione politica “globale” del conflitto che dovrebbe riguardare “sia i civili che i membri delle milizie armate”.

Ma, par di capire, senza che ciò implichi per ora un’amnistia generale. Quella che consentirebbe a migliaia di prigionieri politici (curdi e non) di tornare nelle proprie case. Si prevede piuttosto l’utilizzo di procedure diverse, differenziate, sia nei confronti dei militanti curdi che rientreranno in Turchia (senza quindi escludere procedimenti giudiziari), sia dei detenuti.

Staremo a vedere

Gianni Sartori