#MemoriaStorica #Veneto – ALPAGO RESISTENTE – di Gianni Sartori

Dalla chiesa di Montanès (provincia di Belluno), dedicata a San Martino, si domina il Lago di Santa Croce. Lo sguardo si spinge dal Cansiglio al Col Visentin e alle dolomitiche pareti della Schiara.
In lontananza si distinguono il Grappa e l’Altopiano di Asiago dove “Piccoli maestri” partigiani scrissero altre pagine significative.
Tra il ’43 e il ’45 molte furono le vicende di questa conca verde circondata dalle cime suggestive di Col Nudo, Teverone, Crep Nudo, Antander, Messer…
Su alcuni episodi della Resistenza in Alpago ero stato informato dal compianto Luigi De Min di Lamosano, comandante di un battaglione della Brigata Fratelli Bandiera, nome di battaglia “Squalo” per il servizio militare svolto in Marina, nei sommergibili.
Altre notizie le avevo poi avute da Nino De Marchi (il comandante “Rolando”), autore del libro “Memorie 1943-1945”.
Per saperne di più avevo poi incontrato Carlo Barattin, classe 1925, di Montanès.
“Nel 1943 –mi spiegava- anche noi dell’Alpago siamo stati annessi alla “Grande Germania” del Reich, come l’intera provincia di Belluno insieme a quelle di Bolzano, di Trento e al Friuli Venezia Giulia. Era il territorio dell’Alpenvorland, governato direttamente dai tedeschi”.
Proprio riferendosi a questo evento Nino de Marchi affermava che “la nostra lotta fu, senza dubbio, guerra di liberazione ed anche di indipendenza”.
Racconta Carlo Barattin: “Personalmente ero già stato alla visita di leva italiana, ma nel novembre ’43 venni richiamato dai tedeschi. A Montanès eravamo in 8 del ’25 e in un primo momento non ci presentammo. Poi, minacciati dal Podestà (sosteneva che in tutto l’Alpago solo noi non ci eravamo presentati), andammo a Puos per la visita. Ripensandoci è stato un errore. Da quel momento avevano nomi e cognomi precisi di ogni renitente e se ti prendevano eri spacciato”.
La cartolina arrivò dopo quindici giorni e “noi abbiamo preso la corriera verso Ponte nelle Alpi. D’accordo con l’autista siamo scesi in una zona disabitata e per due mesi siamo rimasti nascosti nei boschi”.
A questo punto il gruppo di renitenti decise di integrarsi nella Resistenza, alcuni in Cansiglio, altri in Alpago. Qui operava la Brigata Fratelli Bandiera comandata da Nino De Marchi, ex ufficiale di Artiglieria Alpina. In seguito De Marchi doveva diventare il comandante della Brigata Nino Bixio. Nella piana del Cansiglio si era insediato il Comando di Divisione Nino Nanetti (dedicata ad un esponente delle Brigate Internazionali caduto, con il grado di generale, sul fronte basco al comando di una divisione dell’Esercito popolare) che comprendeva le brigate del Gruppo Vittorio Veneto: Cairoli, Fratelli Bandiera, Bixio (con i battaglioni Manara, Nievo e Manin) oltre alle brigate Mazzini, Tollot e Piave.
“Ad un certo punto –continua Carlo Barattin- ci siano spostati a Pian Cajada, sopra Longarone e Fortogna, dietro il monte Serva. Poi siamo andati alle casere Stabali, sotto al Monte Dolada e al Col Mat, verso Venal di Montanes. Con noi c’era anche il comando del CLN. Ricordo che con Giorgio Betiol e Attilio Tissi dovevamo fare la guardia ad un gruppo di tedeschi. Grazie al parroco di Padola, don Weiss, organizzammo uno scambio di prigionieri alle “paludi”, vicino al canale sotto Tignes. Noi abbiamo consegnato otto tedeschi e contemporaneamente, in base all’accordo, a Bolzano venivano liberati alcuni prigionieri dal campo di concentramento”.
Naturalmente nel gruppo dei giovani partigiani “c’era un po’ di paura. Noi eravamo in quattro (più il parroco) con otto prigionieri. Di fronte, in mezzo alla strada, c’era un maresciallo tedesco con quattro soldati”. Carlo ricorda che in quel periodo vennero attaccati il presidio di Puos, quello di Bastia e di Santa Croce. Una volta un attacco è fallito perché “dovevamo attraversare un ghiaione e il rumore dei sassi che cadevano ha messo in allarme i nemici che hanno cominciato a sparare”.

Un evento particolare nella storia dell’Alpago è rappresentato dall’arrivo del maggiore Harold William Tilman. Del mitico comandante della missione alleata Beriwind, conosciuta come Simia, mi avevano parlato sia Luigi De Min che Nino De Marchi.
Nato nel 1898, Tilman,noto alpinista-esploratore con esperienze himalaiane, viene ricordato per la prima ascensione del Nanda Devi nel 1936, all’epoca la più alta vetta mai raggiunta. Al suo attivo scalate sui monti Kenya, Ruwenzori. Kilimanjaro e in Patagonia, oltre a tre tentativi sull’Everest.
In Alpago e Cansiglio Tilman manteneva i collegamenti con le truppe sbarcate nel sud d’Italia e garantiva la possibilità di ricevere rifornimenti paracadutati dagli aerei.
Carlo fece parte del gruppo incaricato di incontrare Tilman (arrivato a piedi dall’Altopiano di Asiago dove era stato paracadutato pochi giorni prima) e di portarlo in Alpago.
“Siamo andati a prenderlo sul Piave, nella zona tra Castion e Sagrogna, nel maggio del 1944, di notte. Durante il ritorno, eravamo appena arrivati a Puos e ci eravamo fermati per riposare, è iniziato l’attacco di un altro gruppo di partigiani al presidio. Naturalmente siamo ripartiti immediatamente”.
Tilman rimase a lungo con il gruppo di Carlo esplorando le vette circostanti. In particolare “cercava un passaggio da utilizzare per sfuggire ai rastrellamenti raggiungendo Cimolais e la valle del torrente Cellina (in Friuli) attraverso i monti”. Spesso queste esplorazioni si concludevano in piena notte. Del maggiore ricorda anche che “in pieno inverno scendeva dal Col Nudo (quota 2471) e per lavarsi si tuffava nell’acqua gelida”.
Tilman “riceveva e trasmetteva in codice, senza che neppure il marconista, un toscano, potesse comprendere. L’interprete era un tenente di artiglieria di Trento”.
Ai partigiani era affidato il compito di recuperare i piloti inglesi e americani colpiti dai tedeschi. Racconta che “ne avevamo sempre una dozzina nascosti. Una volta in Cansiglio cadde una fortezza volante; tre piloti morirono, ma altri tre sopravvissero. Tra questi c’era un capitano di nome Tom”. A Montanès si ricordano anche di un certo “Tech”. Rimasero tutti nascosti per mesi nelle casere sopra il paese.
“Un altro pilota –prosegue Carlo- lo abbiamo recuperato in Fadalto, vicino al Lago di Santa Croce. La vita non era facile. C’era poco da mangiare e non era semplice procurarsi del cibo”.
Inizialmente i paracadute venivano bruciati “poi li usammo per fare delle camicie”.
Ogni tanto “i piloti sparivano. Tilman trovava il modo di mandarli verso Venezia, verso Trieste, verso il mare…dove venivano recuperati”. E’ significativo che dopo la guerra alcune famiglie di Montanès abbiano avuto un riconoscimento benemerito dalla RAF.
Bisognava inoltre recuperare il materiale paracadutato dagli aerei. I “lanci” avvenivano soprattutto in Cansiglio e Pian Cavallo, dove era facile nascondere le armi e i viveri nelle numerose cavità naturali.
Luigi De Min mi aveva raccontato di quando con Tilman aveva risalito il Venal di Montanès fino al Passo di Valbona, tra il Col Nudo e la Cima della Pala del Castello per poi inoltrarsi lungo il sentiero impervio delle Landres Negres, già nel Friuli. Al ritorno il maggiore si levò il giubbotto e con quello scese per il ripido pendio ricoperto di neve “come se fosse sopra ad uno slittino”.
Ma anche i tedeschi erano alla ricerca del passaggio.“Una volta –racconta il nostro interlocutore-prelevarono alcune persone a Montanès tentando di raggiungere il Passo di Valbona con i muli”. Sembra che siano riusciti ad “arrivare fino a Claut, forse a Barcis. Uno dei sequestrati è riuscito a scappare: gli altri due poi sono stati rilasciati…era solo un giro di esplorazione”.
Ben più grave quella che accadde durante un rastrellamento quando “i tedeschi arrivarono da Farra, mentre il nostro gruppo si trovava a Col Indes (sopra Tambre). Il primo morto lo hanno fatto a Sant’Anna dove allora c’era soltanto la malga”. Era l’epoca dei grandi rastrellamenti che colpirono anche sulle montagne vicentine: dalla valle di Posina (in agosto, Malga Zonta), all’Altopiano (ne parla Meneghello in “Piccoli maestri”), al Grappa. Poi, in settembre, toccò al Cansiglio e all’Alpago. Durante il rastrellamento del settembre 1944 i tedeschi “hanno ucciso anche alcuni malgari in Val Salatis, la valle che risale verso il Monte Cavallo. A Spert i partigiani catturati e uccisi sono stati appesi ai ganci, esposti come in una macelleria”.
Carlo ricorda con commozione anche un’altra vittima dei nazifascismi, il “Comandante Zero”, originario da Soccher, del battaglione Piave. Era stato fatto prigioniero e avrebbe dovuto portare i soldati in Venal di Montanès, alle casere Stabali dove erano nascosti i partigiani e il comando del CLN. Finse di sbagliar strada portandoli in Venal di Funès, sull’altro versante del Teverone. Naturalmente “quando si resero conto di essere stati ingannati i tedeschi lo ammazzarono. Il corpo del comandante Zero venne ritrovato nei boschi da Tilman, vicino alla Crosetta. Noi pensavamo che dopo la cattura fosse stato deportato. Con il suo sacrificio –sottolinea – ha salvato una cinquantina di persone, tutte quelle che in quel momento si trovavano a Stabali”.
E prosegue ricordando che “nel gennaio del 1945 da Tambre vennero deportate una cinquantina di persone, in maggioranza renitenti. Alcuni finirono a Mathausen e solo tre o quattro ritornarono a casa. Uno in particolare ritornò distrutto psicologicamente. Nel campo di concentramento era stato costretto a bruciare i cadaveri dei suoi compagni”.
Il 20 febbraio alla casera di Montanès venne ucciso Vittorio Barattin (nome di battaglia Faè) un partigiano amico e coetaneo di Carlo. L’episodio è stato raccontato anche da Nino De Marchi. In quel momento il comandante partigiano si trovava proprio a Montanes dove era stato mandato per riorganizzare la sua vecchia brigata, la “Fratelli Bandiera”.
“Quel giorno a Montanès i tedeschi avevano rinchiuso nelle stalle una trentina di civili che sicuramente sarebbero stati uccisi per rappresaglia se ci fosse stato uno scontro a fuoco, se Nino avesse tentato di sganciarsi combattendo”. Invece il “comandante Rolando”, rischiando di essere catturato, riuscì a restare nascosto durante il rastrellamento e le perquisizioni. Alla fine i tedeschi se ne andarono senza distruggere il paese.
Lorenzo Barattin, anche lui del ’25, ricorda che “la sera prima avevo dormito nella casera di Montanès con mio fratello e con Vittorio , ma per ben tre volte avevo fatto un sogno angoscioso. Entrava nella casera un cacciatore e si metteva a dormire vicino a noi. Sempre lo stesso sogno per tre volte. Ne parlai con mio fratello e decidemmo di traslocare”. Invece Vittorio aveva incontrato in paese alcuni partigiani e rimase con loro nella casera. “Morì –racconta-per una pallottola che entrò dalla spalla e forò il polmone”.
Finita la guerra, nonostante avessero partecipato alla Resistenza (“pagando il prezzo del biglietto di ritorno alla democrazia”) Carlo, Lorenzo e altri partigiani dell’Alpago furono obbligati a fare anche il militare. Poi se ne andarono a lavorare in Svizzera, in Francia o in Belgio.
Quanto a Tilman, l’ultima immagine che Carlo conserva è quella del maggiore mentre sale su una jeep americana a “la Secca”, sulla strada che collega Vittorio Veneto a Ponte nelle Alpi. La sua vita avventurosa si concluse nel 1977 quando, navigando verso le isole Falkland, scomparve misteriosamente nell’Oceano Atlantico.

Gianni Sartori

#IncontriSulWeb – EUSKERA, LA BATTAGLIA PER LA LINGUA – venerdì 5 dicembre – ore 18

Un incontro con Xuban Zubiria, attivista politico e linguistico che opera nei Paesi Baschi per salvaguardare la Lingua tradizionale del territorio.
Analizzeremo la situazione attuale, i tentativi di repressione linguistica attuati negli ultimi mesi e l’attività messa in campo dall’associazionismo basco per rispondere a questi attacchi.
In contemporanea sui nostri social e sul nostro Blog.

#Turchia #Repressione – PERQUISIZIONI E ARRESTI CONTRO GRUP YORUM – di Gianni Sartori

Forse vi ricordate gli hunger strikers morti nelle carceri turche cinque anni fa.

Tra loro Ebru Timitk (esponente degli avvocati del popolo) deceduta il 27 agosto 2020, dopo 238 giorni di sciopero della fame. Accusata di far parte dell’organizzazione di estrema sinistra  DHKP-C (Devrimci Halk Kurtuluş Partisi-Cephesi). Anche se in realtà la sua vera “colpa” era quella di aver assistito i prigionieri politici e i loro familiari.

Ma con Timtik erano già quattro le persone accusate di appartenenza a DHKP-C e decedute in sciopero della fame nel 2020.

Prima di lei, Helin Bolek, cantante di Grup Yorum, morta il 3 aprile dopo 288 giorni di sciopero della fame; il bassista della stessa band, Ibrahim Gokcek, era deceduto il 7 maggio dopo 323 giorni di digiuno; qualche giorno prima, il 24 aprile, la medesima sorte era toccata ad un altro membro di Grup Yorum,Mustafa Kocak (dopo 296 giorni di sciopero).

Ricordo che fin dalla nascita nel 1985, Grup Yorum ha sempre garantito il proprio sostegno (e la sua presenza) sia alle lotte della popolazione turca che a quelle internazionali per la giustizia e la libertà, coniugando sapientemente la vena di protesta con le melodie tradizionali. A conferma del suo spirito internazionalista e del rispetto per tutte le culture, le canzoni vengono eseguite sia in curdo che in arabo e in circasso, sostanzialmente in tutte le lingue parlate in Anatolia.

Presente nelle manifestazioni contro il regime turco di studenti, operai, minatori, contadini, sempre a fianco dei popoli oppressi (nonostante qualche “sbavatura” nei confronti dei curdi, va detto)* i membri di Grup Yorum hanno subìto (oltre alla scontata censura, repressione, galera e torture) oltre 400 processi processi. Continuando a esibirsi nei concerti in quanto «strumento della coscienza collettiva» di oppressi, sfruttati, umiliati e offesi. Voce di coloro che continuano a rialzare la testa, nonostante tutto.

Producendo una trentina di album di cui sono stati venduti oltre due milioni di esemplari.

Evidentemente, nonostante la repressione, in questi anni la voce e la musica di Grup Yorum (dal 40 anni una spina nel fianco del regime turco) non si erano spente.

Tanto che possiamo dire che forse “ci risiamo”. Il 25 novembre a Istanbul una nuova ondata di perquisizioni e arresti ha colpito membri della band e sostenitori. In particolare è stata attaccato il centro culturale Idil Kültür Merkezi dove lavora Grup Yorum (e alcuni manufatti, strutture e strumenti di lavoro sarebbero stati distrutti o incendiati).

Con altrettanta brutalità la polizia è entrata nel centro per anziani Sevgi Erdoğan Vefa Evi che – stando alle testimonianze – sarebbe stato “saccheggiato”.

Così come sono state perquisite molte abitazioni private.

Nove persone sono state arrestate. Si tratta di: Hüseyin Kütük, Beyza Gülmen, Can Kaba, Turgut Onur, Yeliz Kütük, Köksal Taş, Vedat Doğan, Şura Başer, Barış Yüksel.

Gianni Sartori

* nota: https://centrostudidialogo.com/2021/04/30/turchia-opinioni-grup-yorum-una-presa-di-posizione-perlomeno-discutibile-di-gianni-sartori/

#Asia #Popoli – MIGLIAIA DI ADIVASI PRESENZIANO AL FUNERALE DEL NAXALITA MADVI HIDMA – di Gianni Sartori

Comunque vada a finire, pare evidente che i partecipati funerali di Madvi Hidma (Santosh) nel villaggio natale di Puvarthi, distretto di Sukma nel Chhattisgarh (inevitabile pensare a quelli grandiosi di Durruti ucciso il 20 novembre del ’36), vanno in assoluta controtendenza con quanto gran parte degli osservatori internazionali (si parva licet, anche chi scrive) dava ormai per scontato. Ossia la sostanziale fine del movimento naxalita. In particolare dopo l’ennesimo episodio di resa di alti dirigenti maoisti (una decina dal 2024) il 28 ottobre: Pulluri Prasad Rao (Shankaranna, membro del comitato centrale) e Bandi Prakash (Prakash, membro del comitato di Telangana).

Il 18 novembre il comandante maoista Madvi Hidma, sua moglie Raje (Rajakka) e altri quattro maoisti erano stati uccisi in circostanze non chiare (si ipotizza un’esecuzione extragiudiziale da parte dei paramilitari anti-guerriglia) nella foresta di Maredumilli (distretto di Alluri Sitharama Raju, in Andra Pradesh). Nello stesso giorno venivano arrestati una trentina di maoisti.

Al funerale hanno partecipato, nonostante il clima repressivo instaurato dal governo (dopo l’autopsia il corpo è stato trasferito sotto ampia scorta militare e il villaggio era presidiato da un consistente dispositivo di sicurezza), migliaia di adivasi, gli indigeni autoctoni tra i quali godeva di ampia popolarità.

Le esequie si sono svolte secondo il rito tradizionale adivasi.

Ma chi era Madvi Hidma? Nato nel 1981, al momento della morte risultava comandante di alto livello del Partito comunista dell’India (maoista) Era ritenuto responsabile di numerose azioni della guerriglia natalità, tra cui l’attaccodel 2013 nella valle di Darbha. Si era integrato nel PCI (maoista) alla fine del secolo scorso per diventare in breve tempo comandante del 1° battaglione di Plga, considerata l’unità d’élite della guerriglia, nella regione di Dandakaranya (estesa in Chhattisgarh, Odisha, Andhra Pradesh, Telangana e Maharashtra). Oltre che il più giovane, era l’unico esponente tribale di Bastar in seno al comitato centrale. La sua morte (successiva di qualche mese a quella dell’ex segretario generale maoista Nambala Keshava Rao) è caduta in una fase convulsa per il movimento naxalita a causa dei numerosi arresti e capitolazioni. Sotto i colpi dell’operazione contro-insurrezionale Kagaar con cui il governo Modi intende risolvere entro l’anno prossimo (definitivamente e manu militari) la pluridecennale questione dell’insorgenza maoista e tribale.

Gianni Sartori

#Americhe #Brasile – LA LCP ANCORA SOTTO TIRO – di Gianni Sartori

Come in passato, gli accampamenti dei contadini poveri vengono attaccati e distrutti, mentre le famiglie sono deportate.

La Lega dei Contadini Poveri (LCP) è un movimento popolare del Brasile ben radicato negli stati occidentali di Rondônia e Amazonas.

Già finita, suo malgrado, sotto i riflettori dei media nell’ottobre 2020 quando l’Accampamento di Tiago Campin dos Santos (con circa seicento famiglie di contadini e oltre un centinaio di bambini) veniva attaccato dal BOPE (polizia militare) e dalla Forza Tattica con impiego di elicotteri e granate lacrimogene.

Eravamo in piena era-Bolsonaro e lo scopo evidente era quello di sfrattare i contadini per consegnare le terre occupate ai latifondisti.

Oltre a distruggere le cucine collettive e depredarli dei loro miseri averi (attrezzi da lavoro, telefoni, documenti, un po’ di denaro..), i militari avrebbero costretto i contadini ad assistere alla proiezione di un video in cui Bolsonaro stesso li minacciava “di morte” se non avessero consegnato i loro leader. 

Infine i contadini con i loro familiari sono stati caricati a forza sui camion forniti dai latifondisti per deportarli lontano, a Vila Penha.

Alcune persone dell’accampamento in seguito risultarono desaparecidas.

Le cose non erano tanto cambiate un anno dopo quando, il 29 ottobre 2021, due membri della LCP (Gedeon José Duque e Rafael Gasparini Tedesco) venivano assassinati nel corso di un episodio simile: lo sgombero con la forza di oltre 700 famiglie nella zona di Nova Mutum.

In questa circostanza decine di pistoleros sul libro paga dei latifondisti avevano dato man forte al Battaglione delle Operazioni Speciali.

Le famiglie le cui abitazioni erano state distrutte rimanevano poi a lungo in situazione precaria, senza acqua e cibo, sottoposte a minacce e violenze. Nello stesso periodo altri sette contadini legati alla LCP erano stati assassinati nella regione di Nova Mutum.

In questi giorni le cose sembrano doversi ripetere con l’operazione “Godos” avviata nello stato di Rondônia (nella parte nord-occidentale del Brasile, confinante con la Bolivia) contro la LCP.

Per l’occasione sono stati mobilitati circa 500 poliziotti, sia civili che militari.

Al momento le persone arrestate sono una ventina, una cinquantina quelle ricercate e almeno una vittima, un contadino, ancora nella zona di Tiago Campin dos Santos.

Il 12 novembre, a Ji-Paraná, veniva arrestata anche l’avvocato Lenir Correia, membro dell’ABRAPO (gli “avvocati del popolo”), da tempo in prima linea nella difesa dei contadini diseredati.

Appare evidente che anche con la presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva (in ogni caso assolutamente non paragonabile a quella di Bolsonaro) le contraddizioni emergono prepotentemente.

Come l’11 novembre quando decine di indigeni (respinti dalle forze dell’ordine) avevano tentato di superare le barriere alla “zona blu” (quella dei dibattiti) della COP30 a Belem. Denunciando l’incremento della deforestazione e le trivellazioni.

Alle proteste il governo aveva risposto positivamente annunciando il riconoscimento come proprietà indigena di altri dieci territori ancestrali in diverse aree del paese. Un procedimento tecnicamente noto come “demarcazione” che dovrebbe garantire agli indigeni il diritto di consentire o meno attività di sfruttamento minerario o agricolo del territorio (ben sapendo che in genere tali attività vengono proibite dai nativi). D’accordo, siamo al minimo sindacale, ma comunque sempre meglio che all’epoca di Jair Bolsonaro. Se infatti con Lula sono già stati riconosciuti una ventina di territori indigeni, con il governo precedente nemmeno uno.

E anche per la ministra dei Popoli indigeni del Brasile Sonia Guajajara “il riconoscimento dei diritti territoriali deve essere uno degli obiettivi principali della COP30”.

Un’ultima considerazione poi sui recenti massacri di fine ottobre, quando il Battaglione delle operazioni speciali di polizia (2500 uomini del BOPE) ha causato la morte di circa 150 persone (in maggioranza pretos e pardos) nelle favelas dei quartiere Alemão e Penha di Rio de Janeiro. Un’operazione organizzata, senza autorizzazione del governo federale, dal governatore di Rio Claudio Castro (di estrema destra, vicino a Bolsonaro) che ufficialmente era di contrasto al narcotraffico, ma con evidenti riflessi propagandistici e anche elettoralistici.

O forse, come suggeriva qualche osservatore, un preludio, un esperimento di “strategia della tensione” in salsa brasiliana. Per screditare il governo di Lula e creare un clima favorevole al ritorno di Bolsonaro & C.

Vedi anche, si parva licet, i dubbi sull’origine dell’incendio del 20 novembre in un padiglione all’interno della sede dei negoziati sul clima delle Nazioni Unite alla COP30.

Gianni Sartori

#Kurds #Iraq – ANCORA UNA MANO TESA DELL’EX PKK AL REGIME TURCO (NELLA SPERANZA DI UNA DEFINITIVA SOLUZIONE POLITICA DEL CONFLITTO – di Gianni Sartori

Il 17 novembre l’ormai ex Partîya Karkerén Kurdîstan (PKK, Partito dei Lavoratori del Kurdistan) ha confermato di aver completato nel giorno precedente il ritiro dei combattenti da alcune zone frontaliere del nord dell’Iraq (regione di Zap).

Una misura che si inserisce nella nuova strategia per “contribuire alla pace e alla democratizzazione in Turchia”. In questi ultimi otto mesi l’ex PKK ha compiuto vari gesti di pacificazione e riconciliazione: dal cessate il fuoco unilaterale del marzo 2025 all’auto-dissoluzione  in maggio, fino alla cerimonia di distruzione delle armi in luglio.

Per continuare con l’evacuazione dei guerriglieri dalla Turchia in ottobre.

Anche se, va detto, con risposte per ora insoddisfacenti dalla controparte turca.

Nella regione di Zap, pesantemente colpita fin dal 2008 dalle operazioni militari di Ankara e dai bombardamenti, esistevano alcune basi storiche (di valore anche simbolico) della guerriglia curda. Qui si era insediato il suo primo quartier generale prima del trasferimento a est, sui monti Qandil.

Sempre in Iraq, il 19 novembre alcuni esponenti dell’amministrazione arabo-curda del Rojava hanno partecipato al Forum sulla Pace e sulla Sicurezza nel Medio-Oriente (MEPS) in corso presso l’Università americana di Duhoki (Kurdistan del Sud, in territorio iracheno).

Si tratta di Mazloum Abdi (comandante in capo delle Forze Democratiche Siriane) e di Ilham Ahmed (copresidente del dipartimento delle relazioni estere dell’Amministrazione autonoma del Nord e dell’est della Siria).

Al Forum (siamo alla quinta conferenza annuale organizzata dall’Università americana del Kurdistan) partecipano numerosi esponenti politici, universitari, ricercatori e scrittori statunitensi, europei e medio-orientali.

Gianni Sartori

#Matinik #StopColonialism – IL RILASCIO DEI MILITANTI ACCUSATI DI AVER ABBATTUTO ALCUNE STATUE IN MARTINICA NEL 2020 – di Gianni Sartori

elaborazione su immagine @ Mélissa Grutus

Matinik (Martinique, Martinica): il 17 novembre sono stati rilasciati undici giovani militanti (sei uomini e cinque donne), accusati di aver danneggiato (“déchoukées”, letteralmente “sbullonate”) alcune statue il 22 maggio 2020 (giornata dell’abolizione della schiavitù) e poi il 26 luglio. Due di Victor Schœlcher (colonizzatore del XVII° sec., fondatore delle prime colonie nelle Antille), una – già decapitata nel 1991 – di Joséphine Beauharnais (associata al ripristino della schiavitù da parte del marito, Napoleone, nel 1802) e un’altra di Pierre Belain d’Esnambuc, rivendicando il loro gesto come “un atto legittimo di anticolonialismo”. 

Nel maggio 2022 l’isola (dipartimento d’oltre mare francese) era stata letteralmente rastrellata per identificare e interrogare una decina di sospetti. Ammanettati e arrestati in attesa del processo che si è svolto in questi giorni nella capitale Fort-de-France.

Mentre risultano assolti quelli accusati di aver danneggiato le statue di Pierre Belain d’Esnambuc e di Joséphine de Beauharnais, sono stati ritenuti colpevoli ( ma comunque non condannati, anche il pubblico ministero aveva riconosciuto il “valore simbolico del gesto” ) coloro che avevano colpito le statue di Victor Schoelcher.

Forse perché in realtà Schoelcher non era un volgare colonizzatore, ma un addirittura un abolizionista. Messo comunque in discussione da una parte dei militanti in quanto la sua immagine paternalistica di “sauveur blanc” offuscherebbe, renderebbe “invisibile” la resistenza degli schiavi stessi.

Il processo è stata seguito da un folto pubblico (composto da insegnanti, artisti, esponenti del mondo culturale… ), la maggior parte a sostegno degli imputati (numerosi gli applausi). In quanto “è la storia stessa della Martinica, con i suoi simboli e le sue ferite, a venir portata in tribunale”.

Ossia, come ha commentato un altro militante: “Quello che stanno giudicando non è tanto la questione delle statue, ma il modo in cui si vuole raccontare la storia della Martinica”.

Aggiungendo che “da Bristol alla Guadalupa, dal Mississippi alla Martinica, i popoli si riappropriano della loro storia. Distruggere una statua significa aprire uno spazio per il dibattito”.

All’epoca i video delle spettacolari azioni dirette denominate “déchoukaj” (un termine creolo originario di Haiti per indicare la vendetta contro gli oppressori, i colonizzatori) avevano avuto vasta diffusione. 

All’esterno del tribunale, nella vicina place Bertin, venivano intanto lette poesie e opere di artisti locali. Inalberando striscioni come “Giudicare la gioventù significa condannare la memoria vivente”.

Appare evidente che anche a ormai quasi venti anni dalle rivolte del 2009, la popolazione della Martinica (Matinik in creolo) non ha smesso di interrogarsi su quale sia il suo posto nella storia francese. 

Gianni Sartori