#Iran #Turkey – PRIGIONIERI POLITICI IN TURCHIA E IRAN: UN AGGIORNAMENTO – di Gianni Sartori

Come i grani di un rosario. Continua incessante il calvario dei prigionieri politici curdi, turchi, iraniani…

Tanto che – come il Guccini di sessanta anni fa (ma parlava d’altro, di incidenti stradali) vien da chiedersi “…vorrei sapere a che cosa è servito…”.

Intendo lottare, patire la repressione, dare l’assalto al cielo…

Non sapendo per ora rispondere adeguatamente, proseguo nella modesta (forse  inutile?) denuncia di quanto è avvenuto in questi ultimi tempi – tristi e cupi – nelle galere di Ankara e di Teheran.

Cominciamo dalla morte della prigioniera politica curda Somayeh Rashidi. Arrestata nella capitale iraniana, nel quartiere di Javadiyeh, il 24 aprile per aver scritto slogan anti regime sui muri della città. Colpita con calci e pugni al capo, al volto, alle gambe e all’addome. Inoltre la sua testa veniva violentemente sbattuta contro un muro e un agente l’aveva premuto a lungo e con forza sul petto con un ginocchio impedendole quasi di respirare. 

Accusata di “propaganda contro lo Stato”, veniva inizialmente rinchiusa per alcuni giorni nel centro Agahi 15 Khordad di Teheran (subendo ulteriori violenze e torture). Poi trasferita nell’ormai internazionalmente noto carcere di Evin e infine, dopo i bombardamenti israeliani, in quello di Qarchak (a Veramin). Nonostante da mesi soffrisse di ripetuti attacchi epilettici (probabile conseguenza delle percosse subite al momento dell’arresto), è stata mantenuta in prigione fin quasi alla fine dei suoi giorni. Addirittura i medici del carcere l’accusavano di “simulare una malattia” prescrivendole soltanto sedativi e sarebbe stata nuovamente picchiata durante una crisi.

Soltanto quando le sue condizioni di salute apparivano irreparabilmente compromesse, la militante curda veniva sottoposta a esami medici (stando a quanto riporta l’agenzia curda Mezopotamya “non approfonditi”). Per il comunicato emesso dalle autorità penitenziarie sarebbe stata diagnosticata una (del tutto presunta, improbabile) “tossicodipendenza”.

Favorendo così un ulteriore deterioramento delle sue condizioni e portandola – dopo undici giorni di una tardiva e ormai inutile terapia intensiva all’ospedale Mefteh – al coma e infine alla morte.  

L’ennesimo decesso di un prigioniero politico malato per la negligenza istituzionale e per mancanza di cure adeguate. L’ultimo risaliva a qualche giorno prima quando (come denunciato dall’Organizzazione iraniana per i diritti umani) Jamila Azizi aveva perso la vita nelle stessa prigione in circostanze analoghe.  

Contemporaneamente in Turchia prosegue lo sciopero della fame di decine di prigionieri politici della sinistra rivoluzionaria che richiedono la chiusura delle prigioni di tipo S, R e Y (quelle denominate “pozzi”).

Uno di loro, Serkan Onur Yılmaz (rinchiuso nella prigione di tipo F di Bolu e giunto al 318° giorno di “digiuno fino alla morte”) è stato trasferito e ospedalizzato per decisione dell’amministrazione penitenziaria. Forse per essere sottoposto all’alimentazione forzata (definita da Amnesty International una forma di tortura).

Ancora pienamente cosciente e consapevole, Serkan Onur Yilmaz si è opposto a tale decisione. Vari presidi di solidarietà si stanno ora svolgendo davanti alle ambasciate turche in varie città europee, in particolare a Parigi.

Invece un altro prigioniero politico, il curdo Ali Haydar Elyakut (condannato all’ergastolo nel 1993, all’età di 17 anni e ultimamente detenuto nel carcere di tipo T di Karabük) è tornato in libertà dopo 32 anni trascorsi nelle prigioni di Diyarbakır, İzmir Şakran, Semsûr, Amasya, Kırıkkale, Ankara e Karabük.

Gianni Sartori

#Memoria #USA – IN MORTE DI ASSATA SHAKUR – di Gianni Sartori

Con la morte il 25 settembre (a 78 anni, era nata il 16 giugno 1947) dell’ex Pantera nera Joanne Deborah Byron, più conosciuta come Assata Shakur, se ne va un’altra importante protagonista delle lotte internazionali (e internazionaliste) degli anni sessanta e settanta. Viveva all’Avana ormai da 40 anni e – stando a un comunicato della Cancillería cubana – negli ultimi tempi il suo stato di salute era alquanto peggiorato.

Condannata all’ergastolo nel 1977 (con l’accusa di aver ucciso il poliziotto Werner Foerster nel New Jersey), il 2 novembre 1979 si era resa protagonista, grazie alla “Coalizione 19 maggio” (compleanno di Ho Chi Minh e di Malcom X), di una rocambolesca evasione dal carcere di massima sicurezza di Hunterdon County. Rimase in clandestinità negli USA fino al 1984 per trovare poi rifugio a Cuba.

Alla riuscita dell’evasione aveva contribuito anche Silvia Baraldini , membro della “19 maggio”, legata alla BLA (Black Liberation Army), un gruppo (o meglio: un insieme di piccoli gruppi)  separatosi dal Black Panther Party.

Condannata da una giuria di soli bianchi, Assata Shakur si è sempre dichiarata innocente dei delitti a lei attributi (oltre alla morte del poliziotto, anche di quella di un altro militante, Zayd, presente sulla scena della sparatoria). Rimaneva comunque sulla lista dei ricercati dal FBI con sulla testa una taglia da due milioni di dollari. Ma, nonostante le ripetute richieste di una sua estrazione da parte di Washington, l’Avana le concesse sempre asilo politico.

In questi anni non risultano suoi interventi politici o interviste. Unica eccezione, la pubblicazione nel 1988 di una autobiografia.

Sicuramente, insieme ad Angela Davis e Afeni Shakur (madre del musicista Tupac Shakur, ucciso nel 1996, di cui Assata Shakur era la madrina), è stata una delle donne nere maggiormente coinvolte nelle lotte per l’autodeterminazione degli afro-americani.

Gianni Sartori