#Turchia #Repressione – QUANDO IL POTERE INFIERISCE ANCHE SUI FAMILIARI DELLE VITTIME – di Gianni Sartori

Nel 2014, dopo 269 giorni di coma, moriva l’adolescente Berkin Elvan colpito alla testa da un lacrimogeno. Ora, dopo 11 anni, i suoi genitori vengono condannati al carcere per aver offeso Erdogan.

Risale all’11 marzo 2014 l’epilogo della tragica vicenda – un autentico calvario – del quindicenne Berkin Elvan.

Quando morì dopo 269 giorni di coma e al suo funerale, nel quartiere di Okmeydani (Istanbul), parteciparono oltre diecimila persone.

Il 16 giugno 2013, ancora quattordicenne, era uscito da casa per andare a comprare il pane mentre in città migliaia di manifestanti protestavano un difesa degli alberi di Gezi Park. Nei pressi di piazza Taksim viene colpito alla testa da un lacrimogeno sparato da una camionetta della polizia e resta a terra. Nonostante fossero stati chiamati immediatamente dai presenti, i soccorsi arrivarono con colpevole ritardo.

Giunto all’ospedale in condizioni disperate, da allora non uscirà più dal coma. Immediata la dichiarazione del presidente Erdogan che di fatto rivendicava: “Sì, sono stato io a dare l’ordine alla polizia di reprimere le manifestazioni”. Un’affermazione che aggiungeva ancora dolore (e indignazione) a quello già provato dai genitori.

Iniziano le proteste e l’11 luglio 2013 centinaia di persone assediano simbolicamente la caserma dei poliziotti che quel giorno occupavano il quartiere. Ovviamente anche questa iniziativa viene repressa duramente. 

Diventati, loro malgrado, il simbolo della violenza del potere in Turchia, la madre e il padre rischiano di subirne un’altra. Quella dei medici che vorrebbero dimettere il ragazzo (per togliere la vicenda dai riflettori, dato che fuori dall’ospedale stazionano in permanenza i giornalisti) proseguendo la terapia intensiva a casa.

Ma almeno questa ulteriore infamia viene impedita dalla mobilitazione dei cittadini.

Intanto il corpo di Berkin si va letteralmente consumando, arrivando a pesare solo venti chili.

Continuano comunque le manifestazioni e il presidio fuori dall’ospedale. Il 5 gennaio 2014 il comune di Smirne gli dedica un parco giochi.

Il 24 gennaio 2014 si arriva al processo, ma i poliziotti portati sul banco degli imputati risultano non in servizio per quel giorno (evidentemente chi di dovere – presumibilmente il ministero – aveva fornito nomi falsi al tribunale). Aggiornato al 30 gennaio 2014, il processo degenera in farsa con i nuovi poliziotti incriminati che dichiarano di non ricordarsi di nulla e comunque di non aver sparato lacrimogeni.

Con la morte di Berkin la gente torna in strada: da Istanbul a Smirne, da Eskişehir a Dersim, da Antalya a Kayseri, da Ankara a Kocaeli…

Intervistata da una televisione, la mamma accusa pubblicamente: non è stato Allah a portare via mio figlio, è stato Recep Tayyip Erdogan”.

Ma evidentemente aver privato i due genitori dell’unico figlio non bastava. Oggi arriva la notizia che entrambi sono stati condannati al carcere per “insulti al presidente Erdogan”.

Questo il cinico verdetto del processo intentato contro Gülsüm Elvan (la mamma di Berkin Elvan) e Sami Elvan (il padre).

Condannati rispettivamente a 11 mesi e venti giorni e un anno e due mesi.

Per il padre, la sua vita è “definitivamente cambiata 11 anni fa, il mio bambino mi manca ogni giorno. Non ho altri figli, lascio decidere alla vostra coscienza”.

Mentre la madre uscendo dal tribunale ha semplicemente detto che “io sono là fuori, mandate pure la vostra polizia a mettermi la manette, vi aspetto”.

Mi sono tornate in mente altre madri coraggio che ho conosciuto: Peggy O’Hara, mamma del militante dell’INLA Patsy O’ Hara, morto in sciopero della fame nel 1981) e Haidi Giuliani, la mamma di Carlo (ucciso a Genova nel 2001).

Casualmente, o forse no, a chi aveva domandato a entrambe (in situazioni diverse ovviamente) se non avessero paura di continuare a lottare, denunciare, protestare…avevano dato la stessa risposta: “E di che cosa? Cos’altro potrebbero farmi ancora?”.

Appunto.

Gianni Sartori

#Memoria #GraphicNovel – IN MEMORIA DI DUE RIVOLUZIONARI DEL FUMETTO: MAX CAPA E ALESSANDRO STAFFA – di Gianni Sartori

Max Capa e Alessandro Staffa

Contravvenendo al sano proposito di non scrivere più necrologi, ci ricasco. D’altra parte la coincidenza è singolare. Ho saputo – molto tardivamente – della dipartita di Max Capa (al secolo Nino Armando Ceretti, 1944-2023, di origine friulana) quasi contemporaneamente a quella più recente del fumettista (nato a Verona, ma vicentino d’adozione) Alessandro Staffa. Forse non per caso. Entrambi in qualche modo li avevo incrociati, complice la mia giovanile propensione al fumetto (presto trascurata sul piano operativo, ma comunque saltuariamente coltivata).

Con Max Capa ero entrato in contatto nel 1974 spedendogli alcuni miei disegni (a matita e usati poi, mi pare, per un paio di volantini) e testi di ispirazione vagamente “situazionista” per la sua fanzine a distribuzione militante “Puzz” . Mi aveva anche risposto (per lettera, all’epoca si usava così) incoraggiando ulteriori collaborazioni (“fatti vivo”), ma precisando che Puzz si stampava in xerigrafia. Per cui avrei dovuto inviare disegni a china (o anche a penna biro).

Non so come, ma lasciai perdere. Forse perché la matita mi era (ed è) sempre stata più congeniale o forse – più probabilmente – perché tra la fine del ’74 e l’inizio del ’75 entrai in una fase di “disimpegno” (tra lavoro e vicende personali). Interrotto soltanto da qualche manifestazione. Come nell’aprile 1975 per Varalli, Zibecchi, Micciché e in settembre per il Txiki e gli altri quattro antifascisti fucilati da franchismo ormai morente.

Mi era poi capitato nel tempo di averne vaghe notizie sia nella redazione di Frigidaire (da Sparagna e da Scozzari), sia da qualche compagno che lo aveva incontrato a Parigi dove frequentava l’ambiente dei fuoriusciti. Di Puzz ci fu anche una riedizione in anni successivi (un numero unico mi pare) dove si leggeva una lapidaria, disperata e definitiva sentenza: “Per questa umanità non val la pena di combattere; né a favore, né contro”. E poi più nulla. Se n’era andato senza clamore il 20 novembre 2023 (lo stesso giorno della morte di Buenaventura Durruti nel 1936…mah?!).

Nei primissimi anni settanta aveva frequentato una Comune di Milano (il Guado) e qui aveva realizzato appunto la fanzine di ispirazione anarco-situazionista Puzz (“la sua gloria e la sua condanna”). Dove imperversava un personaggio chiamato Folaga (ma l’aspetto era quello di un corvo antropizzato) a cui si ispirerà, dichiarandolo e rivendicandolo, nei tardi anni ottanta Staffa per un suo personaggio dichiaratamente ostile alla società dello merce e dello spettacolo.

A Puzz (negli anni settanta in tutto 21 numeri, seguiti in anni successivi da un numero unico, forse apocrifo?) collaborarono direttamente Renzo Angolani, Claudio Mellana, Matteo Guarnaccia, Graziano Origa, Vincenzo Jannuzzi, Giorgio Cesarano, Gianni-Emilio Simonetti, Riccardo d’Este, Poppi Ranchetti, il Collettivo Situazione Creativa, il Gruppo Art beton…

Oltre a Puzz (e svariate collaborazioni, v. un numero-raccolta di Eureka) va ricordato per l’avventuristica, provocatoria pubblicazione “Il morto in tavola” (ed. La Salamandra) del 1977. Firmata con uno pseudonimo, Luca Catilina.

Nella presentazione veniva deturnata la nota immagine di Cicerone che apostrofa Catilina con “Quo usque tandem abutēre, Catilina, patientia nostra?”. A cui l’interpellato qui risponde con “Usque tandem, Cicero?” (forse non filologicamente corretto)

Mentre non ci sono dubbi sull’identità del disegnatore (a un certo punto in mano a uno dei soggetti appare anche Puzz), all’epoca si ipotizzava che la sceneggiatura, i testi fossero di Gianni-Emilio Simonetti.

Nel fumetto si suggerisce che la nascente lotta armata di sinistra venisse in qualche modo telediretta, manipolata da vari servizi segreti stranieri e non. Non solo dalla solita Stasi, ma anche da quelli della Germania occidentale. Una tesi relativamente simile a quella formulata da un altro situazionista-enologo Gianfranco Sanguinetti* in “Del terrorismo e dello Stato” (1979). Un testo rifiutato da Mondadori a contratto già firmato per le tesi qui espresse; sostanzialmente sul coinvolgimento della lotta armata di sinistra nella “strategia della tensione” (per infiltrazione e strumentalizzazione da parte dei servizi segreti).

Sempre negli anni settanta fonda le Edizioni Iguana (Flashback, Apocalisse, Provocazione, Il Passator Cortese…) collaborando contemporaneamente con numerose riviste (politiche e non): Re Nudo, Fallo (un richiamo al Do IT ! di Jerry Rubin), Contro,Comics & Quiz, Ploff, Humor, Horror, Urania, Pianeta, le Edizioni Ottaviano e Pi Kappa (il mensile di Peter Kolosimo).

Finché nel 1980 si era trasferito in Francia, dedicandosi prevalentemente alla pittura e ai murales (oltre che, sulla scia di Debord e Sanguinetti, al vino), dove è deceduto all’ospedale di Parigi.

A darne la notizia (ma solo nel marzo 2023) un altro del “giro” di Frigidaire, il fumettista Hurricane Ivan. In genere gli viene riconosciuto il ruolo di padre nobile del fumetto underground italico (diciamo pure il nostro Robert Crumb), ma per Hurricane si tratta di una definizione riduttiva: “Max Capa era un situazionista, un “negazionista” dadaista, un provocatore, uno scrittore visionario di Favole Grottesche, e soprattutto un creatore di riviste improbabili e tutte geniali…”.

E intanto nel febbraio 2025 se n’è andato (assai prematuramente, a 65 anni) anche Alessandro Staffa, conosciuto nell’ambiente come AlePOP. Vicentino d’adozione, da molti anni si era trasferito a Bassano. Trovandovi evidentemente un ambiente più “aperto”, meno asfittico della bigotta sacrestia d’Italia. Dove i suoi prestigiosi corsi creativi per giovani aspiranti fumettisti e illustratori (il Garage Visivo) avevano talvolta suscitato polemiche. Troppo all’avanguardia, evidentemente.

Degno erede con la sua Sgorbio Art (“idee zeero, conteenuti meeno” ironizzava) della dissacrante matita di Max Capa (un suo “papero” anarcoide era ispirato dalla “Folaga”). Tra l’altro a Bassano aveva potuto incrociare uno storico collaboratore di Puzz, Riccardo d’Este che negli ultimi anni della sua vita frenetica frequentava assiduamente (come avevo verificato di persona in occasione di un incontro con esponenti del Move su Abu Jamal) il Centro sociale “Stella Rossa”, poi demolito dalle ruspe.

Oltre che con l’immancabile Frigidaire (sulle cui pagine ci eravamo ritrovati, aveva apprezzato molto un mio articolo su Salvador Puig Antich), aveva collaborato con AlterAlter, Il Manifesto, La Repubblica XL, Il Male (quello di seconda generazione, di Vauro e Vincino), Katzyvari, TuttoMusica, Rumore, Schizzo (pubblicazione del Centro Fumetto Pazienza), con il collettivo Valvoline (Igort, Brolli,Jori, Kramsky…), Interzona, MondoMongo (con Palumbo)…

Per non parlare delle produzioni locali (come gli ormai introvabili inserti del Corriere vicentino) e delle autoproduzioni. Nel contempo aveva curato l’organizzazione di mostre e rassegne dedicate all’arte newpop, collaborando sia con le istituzioni che con i “movimenti”. In particolare per l’organizzazione di HIU (Happening Internazionale Underground), il festival di controcultura del Leoncavallo.

Tristemente non ha potuto, solo per pochi giorni, essere presente all’ultima mostra da lui organizzata: “3 Ex Ragazzi Visionari”. Una collettiva nella Chiesa di S. Giovanni a Bassano inaugurata il 21 febbraio dove, oltre alle sue opere, venivano esposte quelle realizzate da Enrico Minato e Joseph Rossi.

Gianni Sartori

Nota 1: il ben noto Censor di “Rapporto veridico sulle ultime opportunità di salvare il capitalismo in Italia” (ed Mursia), figlio di Teresa Mattei (partigiana combattente) e nipote del gappista Gianfranco Mattei che si tolse la vita in via Tasso per non rivelare i nomi dei compagni sotto tortura.