Mese: marzo 2025
#IncontriSulWeb – DIALOGO EUROREGIONALISTA – anno 9 numero 1 – la presentazione
Appuntamento per venerdì 4 aprile alle ore 18 con la presentazione del nuovo numero di Dialogo Euroregionalista che sarà disponibile in versione digitale e download gratuito a partire dal 5 aprile 2025 alle ore 8.
In contemporanea sui nostri social e sul nostro Blog.

#7NotePerUnaNuovaEuropa #Sicilia
#Asia #Beluchistan – TRA REPRESSIONE E TERRORISMO, SEMPRE DRAMMATICA LA SITUAZIONE NEL PAKISTAN – di Gianni Sartori

Pakistan. “Terzo Polo” per ora più economico del Nepal, frequentato da vacanzieri d’alta quota che talvolta mascherandosi con paternalistiche iniziative umanitarie – due-tre scatole di medicinali tra un’ascensione e un trekking non si negano a nessuno – alimentano una sorta di neocolonialismo. Ma anche terra tormentata da conflitti etnici e sociali. Con drammatiche derive sia repressive che terroristiche.
Tra le minoranze costantemente sotto tiro (in realtà si dovrebbe parlare di “popoli minorizzati”, come per i curdi), vi sono sicuramente i Beluci.
Infatti – anche se gli scanzonati turisti occidentali sembrano ignorarlo – in Pakistan (e nella regione sottosviluppata del Belucistan in particolare) da decenni è in atto una rivolta con istanze indipendentiste. Contro quello che viene considerato lo sfruttamento delle risorse naturali (soprattutto minerale) della regione da parte di Islamabad (coadiuvata da Pechino) e contro le ripetute violazioni dei diritti della popolazione autoctona.
Dal 22 marzo la militante Mahrang Beloch (attivista per i diritti umani, fondatrice del Baloch Yakjehti Committee e candidata al premio Nobel per la Pace) si trova in isolamento dietro le sbarre nella prigione distrettuale di Hudda (Quetta). Stando alle ultime notizie (filtrate dal carcere con difficoltà dato che le viene impedito di parlare con il suo avvocato) versa in pessime condizioni. A causa della situazione igienica si sarebbe ammalata (così come un’altra attivista, Beebow) senza però venir curata.
L’antecedente.
Il 20 marzo alcune famiglie avevano tentato di riprendersi i corpi dei propri cari (23 desaparecidos di cui solo cinque recuperati) conservati all’ospedale di Quetta. Nonostante il rifiuto delle autorità di Islamabad che li ritengono i cadaveri dei terroristi beluci (presunti membri del Balochistan Liberation Army) responsabili dell’attacco al treno Jaffar Express. Alle proteste delle famiglie la polizia rispondeva a manganellate e colpi di arma da fuoco con almeno tre vittime (tra cui un dodicenne). Decine i feriti mentre si impediva alle ambulanze di soccorrerli.
Contemporaneamente andavano allargandosi le proteste, gli scioperi, le serrate e gli scontri. Il 22 marzo i manifestanti esponevano sulla pubblica via i corpi delle persone uccise. Da parte sua la polizia procedeva a nuovi arresti di massa (almeno 150 persone accusate come da manuale di “terrorismo”).
Nonostante i numerosi arresti preventivi, il Baloch Yakjehti Committee (organizzazione indipendentista rigorosamente politica e non violenta) si mobilitava in diverse città con sit-in di denuncia per i sempre più numerosi casi di giovani beluci sequestrati dalle forze dell’ordine e di cui poi si perdono le tracce. Secondo alcune Ong dal 2009 sarebbero oltre seimila le persone di cui non si è saputo più nulla mentre oltre 1500 cadaveri di desaparecidos sono stati ritrovati abbandonati lungo le strade.
Una pericolosa deriva che potrebbe amareggiare e disilludere i giovani beluci attivi nei movimenti non-violenti per l’autodeterminazione (come appunto il Baloch Yakjehti Committee) alimentando l’afflusso nei ranghi dei gruppi armati.
Principalmente il Balochistan Liberation Army che solo l’anno scorso ha rivendicato oltre trecento attentati (con evidenti derive di stampo terroristico).
Se in passato il BLA aveva colpito soprattutto le attività economiche (sia pakistane che cinesi), negli ultimi tempi tra gli obiettivi sembra aver individuato le infrastrutture ferroviarie. Al momento non si hanno ancora dati certi, definitivi sul numero delle vittime causate dall’assalto del BLA al Jaffar Express (l’11 marzo nella valle di Bolan, distretto di Kachhi) e dal successivo intervento dell’esercito. Dati ufficiali: 31 persone uccise dal BLA e 33 terroristi uccisi dai militari. Da parte sua il BLA rivendicava l’uccisione di 214 ostaggi definendoli “personale militare”. Il treno con circa 450 passeggeri era partito da Quetta (capoluogo del Belucistan) ed era diretto a Peshawar.
Sulla drammatica vicenda è stato anche diffuso un video di Hakkal Media, succursale mediatica del BLA e ritenuto autentico da Reuter.
Oltre a far saltare i binari, i miliziani beluci avevano scagliato decine di razzi contro il treno. Successivamente, il 16 marzo, il BLA colpiva (con attentatori suicidi) un altro treno a Noshki sostenendo di aver ucciso un centinaio di soldati. Mentre per l’esercito le vittime sarebbero state cinque (cifre entrambe improbabili, propagandistiche secondo alcuni osservatori)
Gianni Sartori
#7NotePerUnaNuovaEuropa #Vikings
#Turkey #Syria – PARE PROPRIO CHE LA TURCHIA INTENDA RESTARCI A LUNGO – di Gianni Sartori

Stando a quanto si sa, finora le forze turche acquartierate nel nord-est della Siria per lo più eviterebbero di ostentare bandiere, insegne o altri simboli turchi. Mantenendo per così dire un “profilo basso”.
Tuttavia, non sembrano invece voler rinunciare a bombardare obiettivi d’ogni genere, spesso civili. Nonostante da più parti si stia operando per un “cessate-il-fuoco” stabile.
Ma soprattutto – denunciano le FDS – starebbero lavorando alacremente per rafforzare l’occupazione, espandendo le basi militari già presenti e costruendone di nuove.
Approfittando della debolezza (o della complicità ?) del nuovo regime insediatosi a Damasco. Lavorando di nascosto soprattutto nelle ore notturne (così come per i trasferimenti di truppe) e puntando in particolare sulle zone a sud e a est di Manbij e sui dintorni di Kobane. L’esercito turco di occupazione starebbe costruendo nuove basi sia sulla collina di Qereqozaqê che sulla sponda occidentale dell’Eufrate (a sud-est di Manbij).
Stando alle cifre fornite dalle FDS sarebbero circa duecento le basi e i presidi militari qui insediati. Con una presenza stabile di decine di migliaia di soldati. Oltre a servizi di intelligence, radar, blindati e dispositivi militari di ogni ordine e grado.
Ma, appunto, senza troppa ostentazione; evitando in genere di innalzare i vessilli rossi con stella e mezzaluna.
A tradirne l’opera di ulteriore insediamento militare, le immagini catturate dai droni che mostrano l’ampliamento dei lavori. Con sempre nuove torri di osservazione, fortificazioni, caserme, blindati, artiglieria…
Ora come ora l’ulteriore penetrazione turca nel territorio siriano non sembra impensierire più di tanto l’opinione pubblica internazionale.
Eppure si tratta di una vera e propria invasione-occupazione presumibilmente destinata a durare nel tempo.
Già nel 2018, con l’occupazione di Afrin, la Turchia stabiliva una testa di ponte da cui successivamente si sarebbe scagliata su Serekaniye, Al Bab e Gire Spi.
Finché l’anno scorso delegava al soidisant Esercito Nazionale Siriano (sul libro paga di Ankara e supportato dall’aviazione turca) l’attacco a Manbij da cui partire per conquistare Kobane.
Colpendo indiscriminatamente obiettivi civili e la popolazione inerme. A Erdogan & C. andrebbe forse ricordato che la costruzione di infrastrutture militari in territori occupati illegalmente è vietata dalla legislazione internazionale e dallo statuto delle Nazioni Unite.
Tra gli ultimi attacchi turchi contro obiettivi civili in territorio siriano, va registrato l’ennesimo intenso bombardamento del 24 marzo intorno alla diga di Tishreen (anche se in questo caso, fortunatamente, avrebbe causato solo danni materiali). Ricordando che da questa diga (ancora sotto il controllo dell’Amministrazione autonoma) dipende il rifornimento idrico per milioni di persone.
Contemporaneamente i mercenari filo-turchi attaccavano con droni le posizioni delle FDSa nord della diga, ma venivano intercettati dalle Unità Haroun (organiche alle FDS). Intensa e quasi quotidiana anche l’attività di sorvolo degli UCAV TB3 (prodotti da Baykar Technologies) su Deir Hafer.
Gianni Sartori
#Palestina #PrigionieriPolitici – LA MORTE INGIUSTA DI WALID JALED ABDULA’ AHAMAD – di Gianni Sartori

ALMENO 63 PRIGIONIERI PALESTINESI SONO DECEDUTI NELLE CARCERI ISRAELIANE DOPO IL IL 7 OTTOBRE 2023
Risaliva al 24 marzo la notizia della morte (avvenuta presumibilmente nella giornata di domenica 23 marzo) di un adolescente palestinese rinchiuso nel famigerato carcere israeliano di Megiddo.
Proveniva da un comunicato di Palestinian prisoners club, una Ong di Ramalla. Poi era stata ripresa e diffusa da AFP (Agence France-Presse).
Buio per ora (ufficialmente vige il “segreto medico”) sulle cause del decesso del diciassettenne, Walid Jaled Abdulá Ahmad, arrestato il 30 settembre 2024 e originario di Silwad.
Si tratterebbe del 63° prigioniero palestinese la cui morte è stata accertata in una prigione israeliana dal 7 ottobre 2023. Data dell’attacco di Hamas e inizio della guerra con l’esercito israeliano.
Per la Ong sarebbero “migliaia” i palestinesi detenuti da Israele e dal 7 ottobre sarebbe aumentato il numero di quelli deceduti dietro le sbarre. Secondo la Ong soprattutto a causa degli “abusi sistematici” a cui vengono sottoposti.
Per cui quello odierno è considerato “il periodo più nefasto nella storia del movimento dei prigionieri palestinese dal 1967”.
Come confermerebbero anche i dati diffusi da altre organizzazioni non governative.
Come l’israeliana B’Tselem che ha espresso preoccupazione per l’evidente deterioramento delle condizioni detentive e per i casi segnalati di “maltrattamenti sistematici e tortura”.
Accuse sempre rigettate dalle autorità israeliane.
Inoltre il Palestinian prisoners club denunciava che almeno 250 minorenni palestinesi sono attualmente detenuti.
Come confermerebbe un comunicato del giugno 2014 di Defense for Children Palestine (DCI-Palestine): “Ogni anno dai 500 ai 700 bambini palestinesi, compresi alcuni dodicenni, vengono arrestati e processati dalla giustizia militare israeliana”. In genere con l’accusa di aver “lanciato pietre”.
Complessivamente, si era detto, i prigionieri palestinesi morti in carcere dall’ottobre 2023 (quelli dichiarati e accertati, beninteso) sono almeno 63.
Ventuno di questi provenivano dalla Cisgiordania e da Gerusalemme-Est. Gli altri dalla Striscia di Gaza.
Dal 1967 i prigionieri palestinesi morti in prigione sarebbero circa trecento (298 quelli accertati).
Senza dimenticare che decine di detenuti provenienti da Gaza e morti in carcere sono rimasti senza un nome.
In genere le famiglie vengono informate molti giorni (o anche molti mesi) dopo il decesso del loro parente.
Per esempio, Zuhair Omar Sharif (58 anni) dopo il 7 ottobre era stato arrestato in Israele dove lavorava ed era morto il 18 ottobre 2023. Ma la notizia veniva data un anno dopo, il 30 dicembre 2024.
Sarebbero poi una settantina i cadaveri di prigionieri deceduti non ancora restituiti alla famiglia, ma conservati negli obitori o in fosse comuni.
Tra loro quello di un quindicenne, Mohammad Tariq Salim Abou Sneneh originario di Abu-Dis. O anche di Anis Dawla, deceduto nella prigione di Nafha nel 1980 in sciopero della fame.
Gianni Sartori
#7NotePerUnaNuovaEuropa #Galiza
#ViviLaStoria #Geronimo

#Turkey #Proteste – RISCHIO DI DEGENERAZIONE DELLE MANIFESTAZIONI IN CHIAVE ANTI-CURDA – di Gianni Sartori

Inquietanti tentativi di fuorviare le manifestazioni in Turchia spingendole in una direzione anti-curda. Mentre restano in carcere decine di prigionieri curdi che hanno scontato l’intera pena.
Sinceramente – ne avevo anche accennato – non ero rimasto del tutto convinto della natura “intrinsecamente democratica” delle proteste in Turchia per il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu.
Pur pensando “meglio tardi che mai”, avevo ricordato la sostanziale indifferenza (se non partecipazione) con cui l’opinione pubblica turca (CHP compreso) aveva accolto gli arresti di decine di sindaci ed eletti curdi.
Così come non dimenticavo che quando si tratta della questione curda – sotto, sotto – non ci sono grandi differenze tra i laici kemalisti (presunti socialdemocratici) del CHP (Cumhuriyet Halk Partisi) e i conservatori islamisti di AKP (Adalet ve Kalkınma Partisi, il partito di Erdogan).
Per cui verrebbe la tentazione di sbottare con “l’avevo detto, c’era da aspettarselo”.
Comunque sia, pare che le ultime manifestazioni antigovernative siano, almeno in parte, degenerate in proteste anti-curde (in base allo sperimentato metodo del capro espiatorio). Brutalmente espliciti gli striscioni inalberati da alcuni manifestanti (infiltrati…?) che contemporaneamente facevano il simbolo dei Lupi Grigi (come confermano numerosi video).
Tra le scritte più inquietanti “Imrali basilsin Apo piçi asılsın” spronando in sostanza ad assaltare il carcere di Imrali per impiccare Ocalan (“Apo”).
Oppure le corde a cui era appesa la fotografia di Cheikh Said (Şêx Seîd), a capo della rivolta che porta il suo nome. Ricordando che venne appunto impiccato a Diyarbakır (Amed), con una cinquantina di seguaci nel 1925.
Da segnalare che ai militanti di CHP (anche se vorrei dare per scontata la buona fede democratica dei più giovani, eredi in fondo della lotta di Gezi Parkı e piazza Taksim), non certo teneri con i curdi, si sono presto aggiunti quelli del Partito Zafer (Partito della Vittoria, ultranazionalista e xenofobo) il cui leader, Umit Özdag, è in carcere da qualche mese.
Da manuale il modo in cui i Lupi Grigi e le altre organizzazioni fascistoidi turche (islamisti o seguaci del turanismo panturchista che siano) tentano di scaricare sui curdi la responsabilità dell’attuale situazione.
L’ideologia dei Lupi Grigi del Movimento Ülkü Ocaklari si basa sull’esaltazione della “razza”, della lingua, della cultura e della nazione turca. Tutti gli altri popoli (curdi, armeni, greci, ebrei…) costituiscono un potenziale pericolo, una fonte di divisione. Da combattere in quanto “nemici interni”.
“Pericolosi” anche dopo 30 anni di galera, a quanto sembra.
E’ di questi giorni la notizia che per altri 33 prigionieri politici curdi (o dovremmo definirli semplicemente: ostaggi?) le porte della prigione (nel caso specifico quella di Bolu) non si vogliono aprire nonostante abbiano scontato la pena (magari con un piccolo sovrappiù). Senza dimenticare che sono decine di migliaia i prigionieri politici dietro le sbarre, molti anche senza accuse specifiche o dopo aver espiato la condanna (una sorta di detenzione amministrativa). La decisione presa dal Consiglio di amministrazione e sorveglianza penitenziarie appare del tutto infondata in quanto fa uso di pretesti incoerenti, surreali.
Come “aver fatto cattivo uso dell’acqua”; “non aver voluto incontrare l’iman”; “aver letto pochi libri della biblioteca”….
Gianni Sartori
