#Americhe #Matinik – MARTINICA: CONDANNATO A UN ANNO DI PRIGIONE (MA CON LA CONDIZIONALE) IL LEADER DEL RPPRAC – di Gianni Sartori

elaborazione su immagine @ AFP

L’arresto di Rodrigue Petitot, avvenuto il 12 novembre 2024 a Fort-de-France (Martinica), era stato quantomeno concitato. Il presidente del RPPRAC (Rassemblement populaire pour la protection des populations et des ressources afro-caribéennes) veniva fermato per essere penetrato abusivamente, con altri militanti, nella residenza di Francois-Noël Buffet (prefetto di questa isola delle Antille, dipartimento d’oltre mare francese). La sera stessa centinaia di persone si radunavano davanti al commissariato del capoluogo esigendone la liberazione. I numerosi gendarmi qui schierati venivano assaliti con colpi di armi da fuoco (alcune fonti parlavano anche di “tirs de grenade et de mortiers”) che provocavano almeno tre feriti tra le forze dell’ordine. Durante la notte nel quartiere di Sainte-Thérèse venivano innalzate barricate e – purtroppo – a diversi alberi veniva appiccato il fuoco. Niente di nuovo naturalmente. Come in altri territori d’oltre mare francofoni, periodicamente si sviluppano movimenti e contestazioni per l’aumento del costo della vita. In particolare il RPPRAC è stato in grado di coagulare in breve tempo alcuni segmenti sociali tra i più vulnerabili e trascurati.

Una mobilitazione che talvolta è tracimata in violenze incontrollate (soprattutto nelle ore notturne) causando rilevanti danni economici. Si calcola che circa duecento imprese commerciali siano state saccheggiate o incendiate, mettendo a rischio oltre un migliaio di posti di lavoro. Rilevanti anche i danni subiti da infrastrutture pubbliche.

Facendo buon uso delle reti sociali – e coniugando sapientemente slogan in francese e creolo – Petitot ha saputo riunire migliaia di aderenti. Insieme all’altro leader del RPPRAC, Aude Goussard (talvolta definito “l’eminenza grigia” del movimento) che – diversamente da Petitot – può rivendicare un passato militante nella sinistra radicale (e anche una candidatura alle legislative del 2024 dove ha ottenuto un 5,31% di voti). Né sindacato, né partito, il RPPRAC si presenta come un movimento auto-organizzato contro l’aumento del costo della vita. Sorto nel settembre 2024, sostanzialmente chiede l’allineamento dei prezzi a quelli dell’Hexagon.

Anche se, va detto, talvolta richieste e slogan appaiono vagamente contraddittori: per esempio nelle manifestazioni si rivendica “La Martinique aux Martiniquais” e contemporaneamente “Nous sommes des citoyens français, nous devons payer les mêmes prix qu’en France”.

La maggior parte dei dirigenti non sono politici o sindacalisti, ma piuttosto dei disoccupati (socialmente declassati) rimasti finora anonimi e inascoltati. Movimento “non strutturato”, senza organi direttivi, si differenzia quindi sia dalla LKP della Guadalupa, sia dal K5F (Comité du 5 février) della Martinica, protagonisti del movimento contro la “vie chère” del 2009.

Nel frattempo, il 24 gennaio 2025, il Tribunale correzionale di Fort-de-France (dopo due giorni ininterrotti di udienze e manifestazioni di sostegno all’imputato) ha condannato Rodrigue Petitot, a un anno di carcere con la condizionale e 550 euro di multa per “menaces et actes d’intimidation” nei confronti di Francois-Noël Buffet (con la leggera aggravante di una violenta discussione con il rappresentante dello Stato, Jean-Christophe Bouvier). I suoi tre coimputati dovrebbero venir giudicati il 31 marzo.

Gianni Sartori

#Kurds #StopBombing – MENTRE ALIMENTA AMBIGUE SPERANZE PER UNA SOLUZIONE POLITICA DEL CONFLITTO, ANKARA NON SMETTE DI COLPIRE LA POPOLAZIONE CIVILE NEL NORD-EST DELLA SIRIA – di Gianni Sartori

(e intanto la polveriera di al-Hol rischia di deflagrare)

Significativo che anche l’ONG Médecins sans frontières (MSF) vada denunciando le operazioni militari turche nei pressi della diga di Tishrīn (difesa dalle forze arabo-turche delle FDS e in particolare dalle YPJ). Attacchi che infieriscono sulla popolazione civile, colpendo anche operatori sanitari e ambulanze presenti in zona. Dal comunicato si apprende che i portavoce di MSF si dicono “profondamente preoccupati per l’incremento di violenza nel nord della Siria, nella regione di Manbij e della diga di Tishrīn, in particolare per gli attacchi alle ambulanze che hanno causato ferite mortali agli operatori sanitari. Questi atti ostili rischiano di impedire l’aiuto umanitario e l’assistenza indispensabile per le popolazioni del nord-est della Siria. Ci appelliamo a tutte le forze belligeranti affinché vengano prese misure adeguate a proteggere i civili, il personale sanitario e le strutture mediche, in conformità al diritto internazionale”.

Ulteriori prove della brutalità con cui agiscono l’aviazione turca e i suoi alleati jihadisti provengono dalle immagini estratte da un drone turco abbattuto dalle Forze democratiche siriane (FDS) nei pressi della diga contesa. Vi si riconoscono chiaramente un insediamento militare con molti soldati turchi, veicoli blindati e altri mezzi di trasporto, un campo di addestramento e basi di lancio per droni Bayraktar-Akanci da inviare su Tishrīn. Dove, ricordiamo, dall’8 gennaio i droni armati hanno già ucciso oltre una ventina di civili (più di 120 i feriti, molti in maniera grave).

Ulteriore conferma, caso mai ce ne fosse stato bisogno, della diretta responsabilità turca nei crimini di guerra qui perpetrati. In particolare con il bombardamento del 15 gennaio contro i civili che protestavano pacificamente in difesa della diga. Attacco in cui hanno perso la vita gli operatori sanitari Omer Hesen, Hêza Mihemed e Edhem Elî. Così come Osman Îbrahîm, membro del Consiglio dell’Amministrazione Autonoma del Cantone dell’Eufrate (oltre a una ventina di civili rimasti feriti nella medesima circostanza).

Successivamente era deceduta anche Ronîz Mihemed Elî, rimasta gravemente ferita.

Altre vittime civili, tra cui altri due giornalisti, nella giornata del 21 gennaio.

Quello della diga è diventato un autentico “punto critico” (come denunciano le FDS) in quanto, in caso di crollo, si potrebbe dover assistere a un vero disastro ambientale e umanitario. In un comunicato del 22 gennaio, l’AANES si è rivolta alla Comunità internazionale e alle organizzazioni giuridiche e umanitarie affinché prendano posizione e intervengano con misure adeguate per impedire ulteriori attacchi volti alla distruzione dell’infrastruttura (definita di “importanza vitale sia come fonte di acqua che di energia”) in aperta violazione del diritto internazionale e umanitario.

In risposta agli attacchi di Ankara e delle bande filo-turche, la popolazione del nord e dell’est della Siria non è rimasta a subire passivamente. Aderendo alla dichiarazione di mobilitazione generale dell’AANES. Tra le tante organizzazioni impegnate nella resistenza, va segnalata quella di TEV-ÇAND, un’organizzazione culturale che ha scelto di parteciparvi direttamente.

Come ha dichiarato in una intervista con l’agenzia ANF la co-presidente Sumeya Mihemed “ TEV-ÇAND ha costituito dei comitati mettendo in campo iniziative per sostenere la nostra gente che si vede ormai costretta a emigrare a causa dei continui attacchi (…). Denunciando con forza quanto sta avvenendo da tempo nel nord-est della Siria: “Abbiamo potuto vedere come il popolo di Afrin sia stato oggetto di una migrazione forzata. E più recentemente la stessa situazione si è registrata a Shehba”.

Ma la situazione potrebbe degradarsi ulteriormente a causa del campo di al-Hol (posto a circa 40 km. a sud della città di al-Hasakah) dove la situazione, con decine di migliaia di famiglie di esponenti di Daesh qui presenti (per un totale di circa 40mila persone, donne e bambini compresi, sia iracheni che siriani e di altre nazionalità) sta precipitando nel caos. Sia per gli intensi attacchi turchi che per l’insorgenza delle cellule dello Stato islamico (ormai non più “dormienti”) presenti anche all’interno del campo. Finora la situazione era rimasta relativamente sotto controllo, grazie anche all’operazione “Sicurezza permanente” avviata dalle Forze di sicurezza interna (Asayish), dalle FDS e dalle Unità di protezione delle donne (YPJ) nel 2024. Ma ora è andata aggravandosi sia sul piano della sicurezza che umanitario.

Si registrano infatti tentativi quotidiani di uscire clandestinamente approfittando delle incerte condizioni atmosferiche (pioggia, nebbia, preferibilmente di notte) e delle inevitabili “falle” nella gestione del campo molto esteso. E non è certo impensabile che molti ex miliziani, approfittando del caos ingenerato dagli attacchi turchi, stiano tentando di raggiungere le linee turco-jihadiste per integrarsi nelle milizie mercenarie di Ankara. Nella prospettiva di lunga durata della ricostituzione del califfato. Una vera e propria potenziale “bomba a scoppio ritardato”.

Va poi messa in evidenza quella che appare sempre più come una palese contraddizione, difficilmente risolvibile.

Come segnalato anche da Kawa Fatemi (difensore dei diritti umani) e dallo scrittore Azhar Ahmed. Ossia tra i tentativi dello Stato turco di arrivare a una negoziazione con il prigioniero politico Abdullah Öcalan (disponibile, stando alle ultime su dichiarazioni a “passare dalla guerra al dialogo”) e la dura repressione a cui nel contempo Ankara sottopone la popolazione curda.

Come si può conciliare la prospettiva di una “soluzione politica del conflitto” con i bombardamenti degli insediamenti civili nel Rojava (per estirpare l’esperienza del Confederalismo democratico) e l’arresto di giornalisti e dissidenti in Bakur?

Lecito sospettare di una intenzionale operazione per alimentare la confusione e seminare terrore e caos. O almeno guadagnare tempo, distrarre l’opinione pubblica dall’evidente crisi interna in cui versa la Turchia e tentare di mettere il movimento curdo con le spalle al muro, costringerlo alla resa.

Difficile che ci riesca comunque.

Gianni Sartori

#Popoli #NativeAmericans – LEONARD PELTIER ESCE DAL CARCERE (AGLI ARRESTI DOMICILIARI) DOPO 49 ANNI – di Gianni Sartori

Questione di pochi minuti e Leonard sarebbe rimasto a crepare in carcere. Poco prima dell’investitura di Donald Trump, Joe Biden ha compiuto una scelta se non esemplare per lo meno dignitosa.

Commutando la pena all’ergastolo per l’ottantenne ex dirigente dell’AIM (American Indian Movement) e consentendogli gli arresti domiciliari.

Afflitto da seri problemi di salute, per quanto non graziato, dopo 49 anni di carcere almeno potrà trascorrere il tempo che gli resta fuori dalle mura del carcere. Da Trump non avrebbe potuto aspettarsi nemmeno questo gesto minimo di compassione (se non di giustizia).

Tra i principali esponenti del lungo assedio di Wounded Knee da parte dei nativi (1973), era stato accusato di aver preso parte all’uccisione di due agenti del FBI nella riserva di Pine Ridge nel 1975.

Era il 27 febbraio del 1973 quando circa 200 militanti armati dell’AIM occupavano l’insediamento di Wounded Knee (luogo di un efferato massacro contro i Lakota Minneconjou nel 1890). Prendendo in un primo momento in ostaggio alcune persone (prontamente rilasciate) e chiedendo un’inchiesta sia sulla corrotta amministrazione della riserva di Pine Ridge che sulla sistematica violazione dei trattati firmati dal governo statunitense con le popolazione native. Sul posto intervennero centinaia di poliziotti e circa duemila agenti del FBI, oltre a blindati ed elicotteri che posero il villaggio sotto assedio.

Un po’ di Storia per comprendere la scelta del luogo, non certo casuale.

Nel 1868 era stato firmato un accordo che “concedeva” ai Teton Sioux (termine di origine francese non gradito agli interessati, noti anche come Očhéthi Šakówiŋ o Lakota) una vasta riserva nelle Colline Nere (Pahá Sápa). Trattato infranto quanto prima, dopo la scoperta (forse solo un pretesto per occuparne ulteriormente le terre) di presunti giacimenti auriferi nella zona interessata. Nella disperata disgregazione culturale e sociale in cui versavano a causa delle innumerevoli sconfitte, i nativi si erano affidati a Wovoka, un “profeta” che annunciava, attraverso la “danza degli spiriti”, la resurrezione dei guerrieri morti in battaglia e il ritorno delle mandrie dei bisonti. Ne seguì una crudele repressione in cui venne assassinato anche il capo tradizionale dei Lakota Hunkpapa Toro Seduto (Tatanka Yotanka, con Tȟašúŋke Witkó uno dei vincitori nella battaglia del Little Bighorn).

Temendo di venir rinchiusi o uccisi, circa 400 indiani si rifugiarono nell’accampamento di Big Foot (Heȟáka Glešká) in un’altra riserva. Il 29 dicembre 1890 intervennero i vendicativi soldati del 7° cavalleria (quello di Custer, sconfitto e ucciso al Little Bighorn) e mentre si procedeva al disarmo dei fuggitivi un colpo partito forse casualmente (o forse no) scatenò il massacro. Ai fucili si aggiunsero le cannonate che bombardarono il villaggio massacrando donne e bambini. Le vittime accertate (indiani) furono circa 350.
A questo episodio che segnava irrimediabilmente la fine della resistenza indiana (nel 1886 si erano arresi anche gli apache Geronimo e Mangus, il figlio di Mangas Coloradas) si vollero richiamare gli aderenti all’AIM quando occuparono Wounded Knee. Un’azione eclatante che veniva dopo l’occupazione di Alcatraz nel 1969, del monte Rushmore nel 1970 e dell’Ufficio degli affari indiani a Washington nel 1972.

Nei giorni successivi, ai primi di marzo, molte persone raggiunsero gli occupanti (portando viveri e altri beni di prima necessità) e Wounded Knee venne dichiarato territorio indipendente. Vennero organizzate mense comunitarie, servizi sanitari e un piccolo ospedale. Nei settanta giorni dell’assedio si registrarono isolati colpi di fucile e almeno due militanti indigeni persero la vita. Tra la polizia alcuni feriti, di cui uno soltanto gravemente.

Alla fine agli occupanti venne garantito che il governo avrebbe esaminato le loro richieste (in merito alla violazione dei trattati, alla corruzione del Consiglio tribale collaborazionista…), ma dovevano deporre le armi ed evacuare dal luogo. L’occupazione si concluse l’8 maggio 1973 quando, col favore delle tenebre, i militanti si dispersero senza farsi arrestare.

In realtà le condizioni a Pine Ridge non cambiarono nei mesi e anni successivi e l’inchiesta stessa finì nel dimenticatoio. E naturalmente i trattati del 1868 non vennero mai rinegoziati come richiesto.

Si scatenò invece una vera “guerra sporca” contro i militanti dell’AIM, molti dei quali vennero arrestati, assassinati (almeno sette in due anni) o morirono in incidenti sospetti (inevitabile l’analogia con quanto accadde alle Black Panthers). Tanto che alcuni preferirono fuggire altrove, per esempio in Canada.
In questo clima di generale repressione, Peltier venne arrestato e condannato per l’omicidio di due agenti del FBI il 25 giugno 1975 nella riserva di Pine Ridge. Al processo i suoi avvocati subirono pesanti limitazioni e venne impedita la presentazione di testimoni a sua difesa. Ancora oggi oltre 140mila pagine del “dossier Peltier” rimangono inaccessibili (anche agli avvocati) per ragioni di “sicurezza nazionale”.

Gianni Sartori