#Asia #Popoli – LA CINA VA COLONIZZANDO IL BHUTAN ANCHE CON IL “TURISMO PATRIOTTICO” – di Gianni Sartori

Risaliva a quasi dieci anni fa (ottobre 2015) l’annuncio ufficiale da parte di Pechino della costruzione di un nuovo villaggio, Gyalaphug (in tibetano, Jieluobu in cinese), nella parte meridionale della regione, formalmente autonoma, del Tibet.

Ma in realtà, Gyalaphug era sorto all’interno del Bhutan.

Un altro tassello di un processo di colonizzazione messo in campo da Pechino ai danni dell’antico regno buddista. Una monarchia costituzionale (denominata ufficialmente Druk Yul) in cui per legge almeno il 60% del territorio statale deve rimanere coperto dalle foreste (per lo più conifere autoctone). Una strategia, quella cinese, da interpretare in chiave “anti-indiana”.

Verso la fine dell’anno scorso, grazie alle immagini satellitari, il numero dei villaggi individuati si quantificava in oltre una ventina. Di cui (stando alla denuncia della rete di analisti Turquoise Roof) almeno sette costruiti nel 2024. Abitati, si calcola, da circa settemila coloni, in origine pastori, a cui si sono via via aggiunti soprattutto militari. A ben 4mila metri di quota, in aree impervie, poco adatte all’agricoltura e all’allevamento, ma rilevanti strategicamente. Sempre secondo Turquoise Roof, negli ultimi anni la Cina si sarebbe appropriata di circa 825 km² (più del 2% del territorio bhutanese).

Una dozzina di villaggi sorgono nelle regioni (oltre un secolo fa donate dal Tibet indipendente al Bhutan) di Beyul Khenpajong e di Menchuma. Gli altri sull’altopiano di Doklam.

Strategicamente i più importanti in quanto consentirebbero, in caso di conflitto, un accesso immediato alle frontiere indiane.

Per almeno tre di questi villaggi è già stata avviata la trasformazione in vere città. Così come dai primi posti di controllo sono derivate strutture militari permanenti.

Nonostante gli incentivi statali (chi accetta di trasferirsi qui riceve consistenti sussidi, l’equivalente di circa 3mila dollari all’anno), la colonizzazione procedeva lentamente a causa delle oggettive difficoltà ambientali. Per cui il governo, oltre a costruire strade, va promuovendo campagne di “turismo patriottico” invitando i cittadini cinesi a dare dimostrazione del loro amore per la patria visitando e percorrendo i territori incontaminati di queste “Alpi” bhutanesi occupate manu militari. Confermando la sostanziale natura colonizzatrice del turismo. Sia di quello consumista occidentale che di quello nazional-patriottico (sovranista ?) cinese.

Mettendo il Bhutan di fronte al fatto compiuto, Pechino intende probabilmente proporre uno scambio: restituire le aree della zona nord-orientale (Beyul Khenpajong e Menchuma) in cambio della definitiva rinuncia da parte di Thimphu dell’altopiano occidentale del Doklam, strategicamente il più importante nel caso di ulteriori contenziosi con l’India. Già nel 2017 l’esercito indiano era intervenuto per impedire un tentativo cinese di installarsi nella cresta meridionale del Doklan. Appare evidente che la realizzazione di ulteriori insediamenti, oltre a violare la sovranità nazionale del Bhutan, esaspera le tensioni indo-cinesi. Sovrapponendosi ad altre questioni in sospeso come quella del Ladakh (rivendicato oltre che da Nuova Delhi e Pechino anche da Islamabad).

Alcuni osservatori ipotizzano che – in cambio della definitiva acquisizione dell’altopiano del Doklan – la Cina potrebbe restituire al Bhutan anche la valle di Pagsamlung (di grande rilevanza religiosa e culturale). Annessa da tempo con avamposti militari anche se non ufficialmente (non rientra nell’attuale cartografia cinese).

Gianni Sartori

#Popoli #Kurds – NELLO SPIRITO DI LELIO BASSO, IL TPP SI RIUNIRA’ A BRUXELLES PER I DIRITTI DEL POPOLO CURDO – di Gianni Sartori

In risposta alle petizioni delle organizzazioni per i diritti umani e di alcune entità giuridiche europee e del Rojava, per il 5 e 6 febbraio 2025 è stata convocata una sessione del TPP (Tribunale Permanente dei Popoli) alla Vrije Universiteit Brussel (VUB) di Bruxelles.

Per esaminare le denunce di gravi violazioni dei diritti umani e di crimini di guerra commessi dalla Turchia e dai suoi alleati (mercenari jihadisti) nel nord e nell’est della Siria (Rojava, in curdo l’Ovest). In particolare gli spostamenti forzati della popolazione, l’uso di armi proibite dalle convenzioni internazionali, gli omicidi selettivi (extragiudiziali), le torture e la distruzione del patrimonio culturale.

Quanto avviene – sistematicamente e del tutto impunemente – almeno dal 2018 anche in questa parte del Kurdistan (quella occidentale, l’ovest appunto). Colpendo non solo i curdi, ma ogni altra “minoranza” qui presente. Tutte, se pur in diversa misura, coinvolte nel grande esperimento libertario di autogoverno popolare fondato sull’ecologia sociale, il protagonismo delle donne, la convivenza tra le diverse etnie, credenze religiose etc.

Tra le questioni che verranno affrontate (con testimonianze di prima mano, analisi di esperti e prove materiali di quanto sta avvenendo in questo lembo del Medio oriente), quella degli spostamenti forzati della popolazione. Come è avvenuto in Afrin (Efrin) e Ras al-Ayn (Serekaniye), occupate da Ankara tra il 2018 e il 2019. E dove si registrano innumerevoli casi di sequestri e violenza di genere.

Verrò poi analizzata la questione del (per ora presunto) uso di armi proibite (fosforo bianco e altro) anche contro i civili e strutture pubbliche come scuole e ospedali.

Tra gli episodi di uccisioni selettive (extragiudiziarie) di civili non combattenti, il più noto è quello costato la vita di Hevrin Khalaf nell’ottobre 2020 (dopo brutali violenze da parte di mercenari filo-turchi).

Senza poi trascurare la distruzione, il saccheggio di un ingente patrimonio culturale (v. in particolare i santuari ezidi).

Capitolo a parte (alquanto doloroso), l’utilizzo della tortura. Insieme ai sequestri di persona, un metodo sperimentato per reprimere, soffocare, annichilire l’identità della popolazione. E far naufragare la storica testimonianza di una democrazia diretta di massa (il Confederalismo democratico) sperimentata in Rojava. La convocazione del TPP del febbraio 2025 si pone in continuità non solo ideale con le sessioni precedenti. Sia in difesa dei diritti delle minoranze che in aperta critica ai regimi totalitari e alle politiche finanziarie internazionali. Fondato a Bologna nel 1979, su iniziativa di Lelio Basso, il TPP ha rappresentato in tutti questi anni una “voce delle vittime”, anche di quelle inascoltate (come appunto i curdi).

Possiamo considerarlo una derivazione del precedente Tribunale Russel, della Carta di Algeri e della Lega Internazionale per i Diritti e la Liberazione dei Popoli (fondata sempre da Lelio Basso nel 1976).

In base all’art. 2 dello statuto, l’opera del TPP si fonda sul “promuovere il rispetto universale ed effettivo dei diritti fondamentali dei popoli, determinando se tali diritti sono violati, esaminando le cause di tali violazioni e denunciando all’opinione pubblica mondiale i loro autori”.

Richiamandosi a vari trattati e dichiarazioni internazionale, tra cui la Dichiarazione universale dei diritti umani e la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni.

Gianni Sartori