Mese: dicembre 2024
#Kurds #Syria – KOBANE SOTTO ATTACCO E’ LA STALINGRADO DELL’UMANITA’ – di Gianni Sartori

Non è dato di sapere se quando queste righe verranno (forse, ormai vedo censure e rimozioni ovunque) pubblicate sarà ancora in piedi la statua in memoria di Arin Mirkan (caduta nel 2014 combattento contro l’Isis) nella piazza centrale di Kobanê.
Me lo auguro, ma intanto incrocio le dita.
Vediamo intanto di aggiornarci sulla situazione. In base a uno degli ultimi comunicati (risalente alla serata del 17 dicembre) del Comando generale delle Forze Democratiche Siriane (SDF, dalla sigla in inglese).
Dopo aver brevemente analizzato la nuova fase sopraggiunta con il “collasso del regime Baas e i significativi cambiamenti che rendono incerto il futuro della Siria””, il comunicato denunciava gli attacchi dello “Stato di occupazione turco che da anni va attaccando le nostre regioni del nord e dell’est della Siria con i suoi mercenari”.
Dopo Manbij toccherà a Kobanê? Considerando la grande mobilitazione sulla frontiera di soldati e mercenari dotati di armamenti pesanti e i persistenti, quotidiani attacchi (supportati dall’aviazione) alla diga Tishreen e al ponte di Qara Qwzaq, pare proprio che questa sia l’intenzione di Ankara. Sottolinenado comunque che dopo “cinque giorni di feroci scontri e di intensa resistenza, i nostri combattenti hanno respinto tutti questi attacchi”.
La caduta di Kobanê nelle mani degli ascari di Ankara (il cosiddetto Esercito Nazionale Siriano) consentirebbe alla Turchia di annettere l’intera regione.
Al prezzo di durissime battaglie contro l’Isis, le SDF avevano ottenuto il riconoscimento di gran parte della comunità internazionale come “forza legittima”. Appare quindi scandaloso che lo Stato turco stia – di fatto – vendicando l’Isis attaccando proprio le medesime aree dove venne sconfitto. Quando Kobanê assurse nell’immaginario collettivo a simbolo della resistenza al fascismo islamico.
Già all’epoca da Ankara si declamava che “Kobanê è sul punto di cadere” (non senza compiacimento). Ora il compito, all’epoca delegato agli islamisti, verrebbe portato a compimento (per ora solo a livello di intenzioni) direttamente dallo Stato turco. Nell’ingrata indifferenza di quelle nazioni (europee in primis) che trassero gran beneficio dalla sconfitta di Daesh.
Ovviamente le SDF auspicano che “così come Kobanê segnò l’inizio della sconfitta dell’Isis, possa ugualmente segnare l’inizio della caduta di Erdogan e dei suoi mercenari”.
Chiamando quindi a raccolta “i giovani curdi e arabi e tutto il nostro popolo” per integrarsi in massa nella Resistenza. Dato che “se aspiriamo a un futuro in cui le nostre famiglie e il nostro popolo possano vivere in sicurezza e onore nella propria terra, dobbiamo arruolarci urgentemente nelle SDF”.
Rivolgendosi anche a “tutti i popoli del Medio Oriente, al mondo, agli alleati rivoluzionari, agli amici, ai democratici e chi cerca la libertà affinché sostengano il popolo di Kobanê”.
Sempre nella giornata del 17 dicembre, Mazlum Abdi (comandante delle SDF) ha diffuso una dichiarazione in cui afferma di “proseguire nella ricerca di un accordo di cessate-il-fuoco generale in Siria” e di essere disponibili al “consolidamento di una zona smilitarizzata nella città di Kobanê”.
Anche sotto la supervisione statunitense. Ben sapendo che non è possibile fare troppo affidamento su Washington. Del resto (nonostante le feroci critiche e condanne da parte di “campisti” e rosso-bruni) su questo la posizione dei curdi è sempre stata netta (per chi volesse intendere ovviamente).
In sostanza, la collaborazione tra FDS e i militari statunitensi incentrata sulla sconfitta dell’Isis, non ha mai assunto valenza strategica. Per questo le FDS hanno sempre insistito sullo statuto di autonomia come una garanzia nei confronti dalla dipendenza militare rispetto agli USA. Con tutte le complicazioni e talvolta contraddizioni che fatalmente si sono via via generate. Per esempio nel 2019 quando (su “suggerimento” o richiesta statunitense) i curdi ritirarono le armi pesanti da Ras al-Ayn (Serêkaniyê) e da Tel Abyad (Girê Spî). Per “rassicurare” la Turchia che sosteneva di sentirsi “minacciata” (?!?).
In cambio gli Stati Uniti avevano promesso protezione ai curdi.
Sappiamo poi come è andata. Ankara aveva invaso, occupato e “ripulito” (nel senso di “pulizia etnica”) Serêkaniyê e Tel Abyad. Applicando gli stessi metodi (saccheggi, furti, torture, sequestri di persona…) sperimentati nella città di Afrin.
Dovremo assistere allo stesso indegno spettacolo anche a Kobanê?
Significative (propedeutiche ?) le dichiarazioni rese alla televisione del ministro degli Esteri e del capo dello spionaggio turchi. Secondo cui “i leader stranieri delle YPG devono lasciare la Siria entro il 21 dicembre mentre i siriani nelle YPG devono deporre le armi”. Certo che definire “stranieri” i curdi delle YPG e YPJ (il Rojava è comunque parte del Kurdistan, non dimentichiamolo) da parte di un esercito invasore in cui combattono uzbeki, tagiki, uiguri, azeri, turchi e presumibilmente anche ceceni, suona perlomeno fuori luogo. Una conferma che per Erdogan questa parte della Siria rientra nei suoi progetti di un nuovo impero ottomano. Ma soprattutto il pretesto per sradicare definitivamente il Confederalismo democratico (potenzialmente pericoloso per il regime turco in quanto “contagioso”).
Gianni Sartori
#7NotePerUnaNuovaEuropa #Tirol
#Popoli #Ambiente – SARAWAK, ANCHE IL TURISMO SOTTERRANEO CONTRIBUISCE ALLA COLONIZZAZIONE DELL’ESISTENTE – di Gianni Sartori

Non vorrei tornare su questioni già dibattute (v.https://rivistaetnie.com/speleologia-incidenti-la-pisatela-138222/ -v. https://rivistaetnie.com/alpinismo-troppi-incivili-116678/ ) scatenando le ire delle comunità (anzi: lobby) di alpinisti e speleisti.
Ma le due notizie arrivano sincroniche e diventa inevitabile collegarle. Quella della speleologa rimasta bloccata per un incidente nella stessa grotta da dove qualche tempo fa venne estratta con ampio spiegamento di mezzi (magari allargando qualche cunicolo con l’esplosivo con tutte le conseguenze immaginabili per l’ecosistema) e la prossima costruzione di una autostrada lunga 200 chilometri per raggiungere il parco nazionale di Gunung Mulu (patrimonio dell’Umanità Unesco) nella regione interna del Sarawak (Borneo malese).
A resistere, opporsi (come capita sovente) le popolazioni indigene. In questo caso le tribù Kaum Tering e Kaum Penan decise a impedirlo “protestando con le unghie e con i denti” (come dichiarato da un attivista, Willie Kajan, peraltro un “dialogante”). Del resto ne hanno già avuto esperienza, subendo in passato la realizzazione di altre strade (e di alcune dighe) con effetti deleteri per l’ambiente e le comunità autoctone.
Così come risulteranno devastanti gli ampi disboscamenti previsti per la realizzazione della nuova infrastruttura. Ferendo irreparabilmente il delicato ecosistema della foresta (particolarmente ricca di biodiversità e- almeno in teoria – area protetta). Sia direttamente, sia alimentando il bracconaggio e il commercio illegale della fauna.
Ma la speleologia… ”che c’azzecca”?
E cosa c’entrano le grotte?
Oltre che per la già citata biodiversità (tipica di una foresta tropicale montagnosa) e per un pinnacolo di arenaria alto 2376 metri, il parco è noto per le numerose, immense cavità sotterranee.
Oggetto, loro malgrado, dell’interesse famelico di turisti smaniosi di autenticità, wilderness e adrenalina. Dotato anche di strutture alberghiere a cinque stelle (ormai la Natura è privilegio dei benestanti, magari proprio di quelli che la sfruttano e distruggono), perlomeno finora restava non di facile accesso.
Raggiungibile da Miri solo con piccoli aerei o con circa dodici ore di trasporto fluviale (e a mio avviso andava già fin troppo bene così). L’inopportuna autostrada dovrebbe appunto facilitare gli spostamenti dei turisti-speleisti che intendono visitare questo immenso universo carsico. Approvato dall’Assemblea legislativa dello Stato, il progetto (ideato per incrementare il turismo in generale e quello sotterraneo in particolare) prevede un costo di 3,6 miliardi di ringgit (770 milioni di euro).
Concludo. Proprio recentemente, oltre che per la mia garbata polemica sui fatti incresciosi della “Pisatela” di Monte di Malo, mi ero ritrovato a discutere animatamente con qualche speleologo vicentino in merito alle sue spedizioni (ufficialmente di “ricerca”) nelle grotte dell’Albania. Rimaste finora inesplorate e quindi integre, ma fatalmente destinate a subire il futuro impatto di turisti sia di superficie che di profondità.
Roba da far rimpiangere il socialismo reale, anzi quello duro e puro del compagno Enver.
Mi veniva rinfacciato che solo dallo studio (approfondito ovviamente, dato l’argomento), dalla raccolta dati etc si poteva “valorizzare” (e te pareva…) quel territorio. Stessa logica per cui da qualche anno l’Albania è preda di orde di turisti in cerca di “natura incontaminata” a buon mercato. Rendendola un prodotto di consumo e – fatalmente – degradandola.
Ulteriore conferma di quello che inizialmente era solo un timore. Turisti, alpinisti e ora anche praticanti della speleologia, dietro lo sbandierato “amore” per la Natura, agiscono in realtà (consapevolmente o meno) come tanti “pionieri” (o missionari, coloni, apripista…fate voi) che completano con altri mezzi l’opera di colonizzazione-mercificazione-spettacolarizzazione dell’esistente. Rivendicando magari di operare “per la scienza, studiare le acque, l’inquinamento…” senza rendersi conto che in fondo la prima fonte di inquinamento è la loro stessa presenza.
Gianni Sartori
#7NotePerUnNuovoMondo #Americhe
#Kurds #Syria – AGGIORNAMENTI DAL FRONTE (16 Dicembre 2024) – di Gianni Sartori

Nonostante lo sbandierato cessate-il-fuoco mediato dalla Coalizione internazionale (sostanzialmente dagli USA) tra FDS e compagine turco-jihadista (v. SNA), il 15 dicembre l’esercito turco ha bombardato la centrale elettrica di Til Temir (Cantone di Cizîr, nordest della Siria) lasciando l’intera zona senza elettricità.
Continua intanto la veglia sulla frontiera tra Nusaybin (provincia di Mardin, Turchia) e Qamishlo (nel distretto omonimo, in Siria).
Risposta pacifica alle brutali operazioni militari di Ankara e bande affiliate (SNA) contro il Rojava. Tra i manifestanti che chiedevano sia la fine della guerra contro i curdi che la liberazione di Ocalan, alcune “Madri per la Pace” (tra cui Gurbet Tekin), esponenti politici, familiari dei prigionieri politici. Lanciando slogan come “Bijî berxwedana Rojava“, ”Bedengî mirinê berxwedana jiyanê“, ”Rojava halkı yalnız değildir”. Oltre a quello, immancabile e ormai storico “Jin Jiyan Azadî”.
Evidentemente di diverso avviso le bande del cosiddetto Esercito Nazionale Siriano (SNA, proxy di Ankara) che in contemporanea bloccavano al ponte di Qereqozaq un convoglio formato da dieci autobus e sei ambulanze inviati per l’evacuazione umanitaria dei civili da Manbij (sempre nel quadro degli accordi di cessate-il-fuoco).
Nel frattempo l’opinione pubblica si interrogava se il nuovo potere insediato a Damasco introdurrà o meno l’obbligo del velo. Anche se non è il caso di fare dell’ironia (il valore simbolico delle norme non va sottovalutato), forse sarebbe il caso di occuparsi della liberazione delle donne ezide ancora segregate, imprigionate, schiavizzate (con o senza velo) a Idlib nella Siria nord-occidentale. Lì dove al-Jolani governava fino a pochi giorni fa. Oltre naturalmente della incombente, possibile pulizia etnica pianificata da Ankara in Rojava.
Tra amenità sul nuovo look di al-Jolani (in effetti ricorda il giovane Fidel Castro, sarà un caso ?) e nuove occupazioni israeliane nel Golan, c’è anche chi si interroga, mette in guardia sulla concreta possibilità di una ripresa generalizzata degli scontri armati su tutto il territorio siriano (e non solo nel nord-est dove non si sono mai spenti).
POSSIBILE RIPRESA DELLA GUERRA CIVILE SU LARGA SCALA E TIMORI PER LE “MINORANZE”
E’ quanto paventa una ONG siriaca (European Syriac Union, fondata nel 2004) analizzando la situazione politico-militare (definita “molto critica”) creatasi nella Siria del dopo-Assad. Invitando la comunità internazionale a “esercitare una pressione sui gruppi salafiti impedendo una nuova ondata migratoria e la ripresa della guerra civile”. Constatando che la vittoria dei gruppi jihadisti è il risultato “sia del vuoto di potere che degli errori dell’opposizione”, esprime il fondato timore che la Siria potrebbe semplicemente “regredire di oltre 50 anni”.
Parlando anche pro domo sua, l’Ong denuncia i rischi che corre non solo la comunità siriaca (in quanto cristiana), ma anche quelle di curdi, ezidi, drusi, musulmani laici… Senza dimenticare la più esposta, quella delle donne. Auspicando la costituzione di un “governo inclusivo” che possa soddisfare le esigenze di tutta la composita, multietnica società siriana.
E LA RUSSIA COSA FA?
Non è chiaro al momento. Stando a quanto diffuso da un sito curdo (Lekolin org), Mosca avrebbe assunto un ruolo ambiguo. Quello del “guasta-feste”, in sintonia con l’alleato-concorrente di Ankara. Con cui avrebbe concordato azioni congiunte nelle riunioni tenute alla base aereo-spaziale di Khmeimim (dove entrambe addestrano le proprie truppe).
Allo scopo di impedire un possibile avvicinamento, un riconoscimento reciproco tra l’AADNES e il nuovo governo di Damasco.
In un comunicato Lekolin org sostiene che a Khmeimim “Russia e Turchia hanno creato una camera di riunioni dell’intelligence comune. I servizi segreti turchi (MIT) condividono tutte le informazioni su HTS in loro possesso con la Russia, mentre la Russia in cambio condivide con la Turchia le sue informazioni sull’Amministrazione autonoma del nord e dell’est della Siria e sulle FDS”.
Ovviamente alla Turchia interessavano e interessano soprattutto notizie in merito alla dislocazione delle forze FDS a Manbij, Kobanê, Raqqa et Deir ez-Zor (in vista dell’assalto finale al Rojava). Fornendo in cambio a Mosca informazioni sulle strutture di HDS a Idlib e Aleppo.
Inoltre Ankara avrebbe chiesto a Mosca di riesumare le “cellule dormienti” del regime Baas e – grazie all’addestramento dei servizi segreti russi – rimetterle in campo per alimentare le ostilità tra tribù arabe e curde nelle regioni di Hassakê e Raqqa. Vedi i recenti disordini a Raqqa del 12 dicembre quando uomini armati hanno aperto il fuoco tra la folla in piazza al-Naim (anche se non si esclude l’intervento di altre “cellule dormienti” finora relegate nel deserto e ora risvegliate per l’occasione, quelle dell’Isis).
Un ottimo pretesto per giustificare l’invasione del Rojava direttamente da parte della Turchia. Tra l’altro in questi giorni viene confermata la presenza alla frontiera con Kobanê di centinaia di altri mercenari (ex membri di Daesh guidati da Abu Fetih e addestrati per un anno in Turchia). Presumibilmente con il compito di infiltrarsi nella regione di Kobanê, Raqqa et Deir ez-Zor per operare contro le FDS. Come ha più volte denunciato il comandante delle SDF Mazloum Abdi.
SEGNALI DI APERTURA DA PARTE DI AL-JOLANI?
Volendo poi a tutti i costi essere anche un po’ ottimisti, (vedere il “bicchiere mezzo pieno”) andrebbero riportate le ultime dichiarazioni di Abu Muhammad al Jolani (in un video diffuso da Sky News Arabia) sui curdi, i quali farebbero “parte della patria”.
Per il capo finora indiscusso di Hayat Tahrir al Sham nella Siria di domani a tutti sarà consentito “vivere insieme secondo la legge”. Ha inoltre riconosciuto che “la popolazione curda è stata sottoposta a grandi ingiustizie”.
Per cui “se Dio vuole, nella prossima Siria, i curdi saranno fondamentali. Vivremo insieme e tutti otterranno i loro diritti per legge. Non ci saranno più ingiustizie contro il popolo curdo”. Inoltre “cercheremo di riportare i curdi, parte integrante del tessuto sociale siriano, nelle loro zone e nei loro villaggi”.
Per rassicurare il suo sponsor turco, ha poi insistito su quella che a suo avviso sarebbe una “grande differenza tra la comunità curda in Siria e il Partito dei lavoratori del Kurdistan”.
Quanto al futuro politico complessivo della Siria, per il leader di Hts “la forma dell’autorità sarà lasciata alle decisioni di esperti, giuristi e del popolo siriano”.
“In Siria – aveva proseguito “saranno organizzate elezioni libere ed eque. Lavoriamo per formare comitati specializzati per riesaminare la costituzione, in modo da garantire giustizia e trasparenza”. In vista di una “soluzione globale per tutte le fazioni armate e nessuna arma sarà consentita al di fuori del quadro dell’autorità dello Stato siriano. Questo approccio riflette il nostro impegno a ripristinare la stabilità e ad estendere la sovranità dello Stato sull’intero territorio”.
Che poi ci sia da fidarsi, questo è un altro paio di maniche.
Per concludere, sarebbe in gran parte completata l’entrata in Iraq attraverso il valico di frontiera di al-Qaim di centinaia di soldati siriani in fuga. Avvenuta con il consenso delle autorità irachene e con la collaborazione delle FDS.
Gianni Sartori
#7NotePerUnaNuovaEuropa #Salento
#Popoli #NativeAustralians – QUEENSLAND: UNA NUOVA LEGGE CONSENTE DI INCARCERARE ANCHE I BAMBINI DI DIECI ANNI (soprattutto quelli aborigeni) – di Gianni Sartori

Cosa nota, ma da ribadire. Per gli aborigeni australiani l’arrivo dei coloni europei fu un evento non solo devastante, ma apocalittico.
Da fine del Mondo. O almeno del loro mondo. Ai nostri giorni, come denunciava un rapporto di Survival International “gli aborigeni hanno 6 volte più probabilità di morire in età infantile rispetto agli altri cittadini australiani e 22 volte più probabilità di morire di diabete. La loro aspettativa di vita alla nascita è di 17-20 anni inferiore a quella degli altri australiani” (v. “Il progresso può uccidere”). Un inciso sul diabete. Effetto collaterale (ma poi neanche tanto “collaterale”) della perdita, insieme alla terra, delle fonti tradizionali di nutrimento.
E del conseguente impatto con altri cibi (zucchero, farina raffinata junk food…) oltre che della diffusione dell’alcol (“anestetico” dei poveri e dei colonizzati).
Forse se la passano leggermente meglio quanti hanno potuto rimanere nelle terre ancestrali (anche se le meno fertili e salubri) che in media vivono ”dieci anni di più”.
Difficile stabilire quanti fossero prima della colonizzazione (tra i 300 e i 700mila, si presume). Centinaia di gruppi autonomi di raccoglitori-cacciatori parlanti un insieme di 400 lingue diverse.
L’arrivo dei bianchi inglesi (1788) coincise con il diffondersi di nuove malattie (varicella, influenza, morbillo, vaiolo…) che contribuirono a trascinarli in un rapido declino: una riduzione del 90% tra il XIX e il XX secolo.
Fino alla “soluzione finale” condotta con centinaia di massacri pianificati. In buona parte per mano delle forze governative, il resto opera dei coloni (ma con la tacita approvazione delle autorità).
L’ultima “spedizione punitiva” conosciuta (quella di Coniston) si svolse tra il 14 agosto e il 18 ottobre 1928 (NB: in pieno XX secolo).
In base ai dati forniti dal progetto Colonial Frontier Massacres Digital Map, si apprende che “le morti di aborigeni furono da 27 a 33 volte più numerose di quelle dei colonizzatori: furono uccisi tra 11 mila e 14 mila aborigeni, e fra 399 e 440 soltanto colonizzatori”.
Talvolta si trattava di rappresaglie sproporzionate (degne dei nazisti) per l’uccisione di un colono o per un furto di bestiame. Altre semplicemente per “dar loro una lezione” o comunque toglierli di mezzo, costringendo i superstiti ad andarsene altrove.
Ricorrendo persino all’avvelenamento dell’acqua e del cibo.
Con la diffusione dei grandi allevamenti (antica piaga della “civilizzazione”) bambini e giovani aborigeni divennero potenziale forza-lavoro a buon mercato come mandriani (anche riducendoli in schiavitù).
Da cui la separazione forzata dalle famiglie, veri e propri sequestri di persona.
Attualmente la situazione dei minori di origine indigena non è poi di tanto migliorata. Se si considerano i dati del Cleveland Youth Detention Centre di Townsville, i bambini aborigeni costituiscono il 95% dei detenuti. Conseguenza delle condizioni di indigenza, emarginazione, subalternità in cui versano le loro comunità.
In questi giorni molte organizzazioni di difesa dei diritti umani e del Diritto dei popoli (v. il Centro giuridico indipendente dei diritti dell’uomo d’Australia) protestano per la nuova legge (approvata il 12 dicembre nel Queensland) che consente, “per sradicare la criminalità infantile e ristabilire la sicurezza”, la carcerazione di bambini di dieci anni.
La nuova legislazione riguarderà tredici gravi violazioni del codice penale (dalla guida pericolosa all’omicidio) e comporterà le stesse pene (per un identico numero di anni) inflitte agli adulti condannati.
Anche se, bontà loro, l’amministrazione del primo ministro conservatore David Crisafulli (oibò! Un altro di origine italiana, come Milei e Bolsonaro… tutta da rivedere la bella favola dei migranti italiani “brava gente”) ha ammesso che tale norma era “incompatibile con i diritti umani”. Inoltre costituisce una “violazione di numerose disposizioni internazionali” e consente di aggirare una legge australiana del 2019 sui diritti umani.
Decidendo comunque di procedere, considerando di avere il sostegno anche dell’opposizione (centro-sinistra).
Stando ai dati ufficiali, il numero dei bambini-ragazzi delinquenti (dai 10 ai 17 anni) era cresciuto in un anno del 6% (giugno 2022- giugno 2013).
Facile previsione: a venir rinchiusi nelle case di sorveglianza e nei riformatori saranno soprattutto i giovanissimi aborigeni (provenienti da una popolazione il cui tasso di carcerazione è alquanto superiore a quello dei discendenti dei colonizzatori).
Il portavoce del Centro giuridico indipendente dei diritti dell’uomo d’Australia si dice convinto che non è questo il modo di “risolvere le cause profonde della criminalità giovanile: povertà, razzismo, traumatismi intergenerazionali, scarso accesso ai servizi sanitari e di sostegno…”
Per la presidente del Comitato dei diritti per l’infanzia onusiano, Ann Skelton, le “circostanze eccezionali” evocate dal governo non giustificano una “evidente violazione dei diritti dell’infanzia”: Aggiungendo che “non è così che si renderà più sicuro il Queensland”.
Gianni Sartori
