#Kurds #Syria – NON PERMETTIAMO CHE IL ROJAVA SI TRASFORMI IN UN’ALTRA GAZA!  – “BERXWEDAN JIYAN E” (“LA RESISTENZA È VITA”) – di Gianni Sartori

Non vorrei dirlo (magari porta sfiga), ma il timore c’è, si insinua.

Ossia che nel nord e nell’est della Siria si compia l’ennesimo genocidio (o una serie di efferati crimini di guerra, pulizia etnica…fate voi, muta il concetto, ma rimane la sostanza). Stavolta contro i curdi e le altre “minoranze” invise alla Turchia.

Andiamo con ordine.

Almeno una trentina di combattenti sono stati complessivamente uccisi nel corso dell’ultima (per ora) offensiva sostenuta dalla Turchia (con l’impiego di aerei e droni) di domenica 8 dicembre nella regione di Manbij.

Qualche giorno prima le bande filo-turche avevano già occupato l’enclave curda di Tal Rifaat, in contemporanea con la rapida avanzata su Damasco degli islamisti di Hayat Tahrir al-Sham (HTS, versione edulcorata di Jabhat al-Nusra)

Stando a quanto comunicava l’OSDH (Osservatorio siriano dei diritti dell’Uomo, provvisto di una rete informativa in loco) “fazioni pro-turche hanno occupato diversi quartieri di Manbij dopo violenti scontri con il Consiglio militare di Manbij”. Il Consiglio (MMC), ricordo, è affiliato alle FDS (Forze Democratiche Siriane).

I feroci scontri di domenica avrebbero provocato una decina di morti nei ranghi delle bande filo-turche e una ventina in quelle del Consiglio militare.

Come già riportato, la resistenza arabo-curda avrebbe inflitto “seri colpi” ai proxy di Ankara, sia a Manbij che nella vicina città di al-Bab.

Da parte dei filo-turchi invece si sostiene (su Telegram) di aver già preso il controllo della città di Manbij a est di Aleppo dopo feroci battaglie”.

Diffondendo video di miliziani apparentemente già all’interno della città e altri, forse datati, di presunti combattenti del MMC fatti prigionieri (fake news?). In realtà finora i mercenari turco-jihadisti avrebbero conquistato soltanto il villaggio di Al-Arima (dove i russi avevano costruito una base militare) alle porte di Manbij.

Altre fonti riferiscono della defezione di alcuni ex membri del MMC (arabi) che avrebbero raggiunto le linee degli occupanti turchi. Si tratterebbe di due noti leader della brigata Jund al-Haramayn (“Brigata dei soldati delle due sante moschee”): Abd al-Rahman al-Banawi e Ibrahim al-Banawi (lo stesso che nel 2014, sconfitto dall’Isis, aveva trovato rifugio con i suoi presso le YPG a Kobane, quantomeno un ingrato).

Sia chiaro a tutti: se Manbij dovesse cadere nelle mani delle bande jihadiste filo-turche, si aprirebbe la strada per Kobane, la città martire che aveva sconfitto Daesh (non a sproposito talvolta definita “incubo di Erdogan”).

Questa la situazione che definire “grave” è il minimo.

Quasi che si sia compiuto un passo indietro di 14 anni. Assad è scappato, ma per i curdi non cambia molto. Circondati, attaccati dalla Turchia e dai suoi ascari da nord e da ovest, mentre a Raqqa e a Deir ez-Zor le cellule di Daesh fuoriescono dalle fogne.

Quanto alla “coalizione internazionale” a trazione USA, osserva e lascia fare…

Invece gli islamisti ex (ex?) al-Nusra, ex (ex?) al-Qaida etc. e ora HTC, hanno già fatto sapere che non c’è posto per l’AADNES nella formazione di un nuovo governo siriano (quello teoricamente “inclusivo” e garante dei diritti di tutte le comunità etnico-religiose). Come c’era da aspettarsi visto da chi prendono ordini e finanziamenti.

Nella serata di domenica 8 dicembre, la Turchia ha fatto ampio uso dell’aviazione in appoggio a quelle che ormai i curdi definiscono semplicemente “le bande” (i mercenari filo-turchi).

Bombardando l’edificio dell’Amministrazione Autonoma nel centro di Manbij, mentre le formazioni jihadiste avanzavano – grazie al supporto aereo e ai veicoli blindati forniti dai turchi – in corrispondenza dell’entrata sud della città. La percezione, secondo alcuni amministratori locali, è quella di trovarsi in una “sistematica operazione speciale militare”, propedeutica all’attacco su larga scala al Rojava.

Manbij di fatto rimane l’unico territorio ancora amministrato dall’AADNES a ovest dell’Eufrate. Era stato liberato dall’Isis nel 2016 per mano delle FDS e si considera la prima area autogovernata nel nord e nell’est della Siria. Attualmente tra Manbij e le località circostanti qui convivono circa mezzo milione di persone (curdi, arabi, assiri, armeni e altre “minoranze”).

Sempre l’8 dicembre, un veicolo turco da combattimento senza equipaggio (UCAV) ha bombardato la zona in prossimità del ponte Qereqozaq che unisce le due sonde dell’Eufrate nel sud di Kobanê.

Un inquietante segnale premonitore di quanto potrebbe presto accadere.

E infatti, nella notte di domenica 8 dicembre (verso le ore 23) un nuovo attacco di droni turchi contro il villaggio di El Mustareha, a ovest di Ayn Issa, causava la morte di almeno 12 (dodici !) persone, in maggioranza donne e bambini (notizia diffusa dall’agenzia ANHA).

Un conferma – caso mai ce ne fosse stato bisogno – delle priorità dello Stato turco in Siria. Annichilire l’AADNES intensificando gli attacchi contro tutto il nord della Siria e costringendo migliaia di persone (curdi, ma non solo) e emigrare per salvarsi la vita.

Dato poi che alle disgrazie non c’è limite, anche L’isis, cogliendo il nuovo clima favorevole, sembra voler fuoriescire dalle fogne. A Raqqa i sostenitori di Daesh (o Isis che dir si voglia) hanno imbastito addirittura una manifestazione. Alimentando tra gli abitanti il timore di dover presto ancora assistere ai violenti attacchi (con veri e propri massacri di civili) degli anni passati. D’altra parte questo è ancora il minimo, visto che l’ormai spompata “coalizione internazionale” (sorta per contrastare l’Isis) appare cieca e indifferente di fronte al fatto che la Turchia continua impunemente a colpire i curdi, prima linea nel contrasto ai fanatici islamisti.

Ma la sconfitta eventuale dei curdi rappresenterebbe anche la sconfitta di tutti quei principi di democrazia, diritti, giustizia, libertà, coesistenza pacifica (talvolta sbandierati magari a vanvera dai paesi democratici) di cui il Confederalismo democratico si è fatto carico in Medio oriente. L’alternativa è quella già sperimentata di ripiombare in una guerra di “tutti contro tutti”.

Del resto questo potrebbe essere l’obiettivo della Turchia (e non solo): seminare il caos, approfittare dell’incerta e disordinata situazione (a cui ha ampiamente contribuito) sabotando la ricostruzione di “un’altra Siria possibile”. Pacifica, democratica, inclusiva, rispettosa dei diritti di ogni sua componente. Dove “l’aspro rumore delle armi ceda il posto al dialogo”. Un progetto irrealizzabile senza l’attiva partecipazione dei curdi.

Come ha ribadito il CDK-F (Consiglio democratico curdo in Francia ) “l’esclusione dei curdi dai negoziati e dalle discussioni politiche rappresenterebbe un errore storico”.

Diverso, diametralmente, il punto di vista di Ankara.

Per Erdogan il rovesciamento del suo personale nemico Bachar al-Assad porta al rafforzamento del peso specifico, dell’influenza della Turchia che risulta il vero vincitore di questa rapida operazione bellica. E non solamente a livello regionale, ma per – esempio – anche nei confronti di Mosca.

Oltretutto è l’occasione per rimandare in Siria qualche milione di rifugiati (circa tre), magari insediandoli nei territori attualmente controllati dai curdi. Un piano di “sostituzione etnica” in parte già sperimentato, invasione dopo invasione, da Ankara negli ultimi anni.

Senza dimenticare l’altro invadente soggetto perennemente attivo nell’area, Israele che non è certo rimasta a guardare. Superando il confine nella zona delle Alture del Golan (occupate illegalmente dal 1967) con l’obiettivo di tornare alla linea del 1974. Occupando tutto il governatorato di Quneitra (quello della famosa “città fantasma”) ora lasciato sguarnito dall’esercito siriano allo sbando.

Gianni Sartori

#IncontriSulWeb – LA SUMENZA E OLTER MESTEE – con Marcel Picamei – sui nostri social

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#Kurds #Syria – DAMASCO È CADUTA, MA IL CONFLITTO PROSEGUE ACCANITO A MANBIJ, ASSEDIATA DA TURCHI E ENS – di Gianni Sartori

elaborazione su immagine @ Reuters

Intanto un pensiero caritatevole per quanto stanno vivendo i nostrani “campisti” di fronte alla dissoluzione, all’evaporazione del loro avamposto siriano, quello finora presieduto dal fuggitivo Bashar al-Assad. Immagino come ci si debba sentire se – soltanto due-tre giorni fa – lo si qualificava come potenziale futura “guida del campo antimperialista”.

Peggio ancora per chi aveva appena definito l’astuto e apparentemente ondivago Erdogan un “antimperialista”. O anche un “antifascista” (non invento niente, cercate e troverete…) per il suo sostegno (a mio avviso del tutto strumentale) alla causa dell’autodeterminazione del popolo palestinese. Sebbene nel frattempo fosse ancora impegnato a perseguitare i curdi ovunque: dal Bakur (entro i confini turchi) al Bashur (nord dell’Iraq) al Rojava (dove ora sta scatenando i suoi mercenari del soidisant Esercito Nazionale Siriano).

Penso a quanto sia dura da mandar giù. Con Damasco caduta, dopo Aleppo e Hama, quasi senza colpo ferire in mano ai riciclati di al-Qaida.

Ma, come si dice in questi casi, dovrebbero farsene una ragione.

Assolto il gravoso compito di “consolare gli afflitti” (opera di misericordia spirituale), passo a considerare le legittime speranze (e magari anche qualche piccola incongruenza) emerse nelle dichiarazioni di Mazloum Abdi, comandante delle SDF.

Scrive nel suo recente messaggio che la Siria “sta vivendo momenti storici e siamo di fronte alla caduta dell’autoritario regime di Damasco. Cambiamento che rappresenta una opportunità per costruire una nuova Siria fondata sulla democrazia e la giustizia che garantisca i diritti di tutti i siriani”.

Gli fa eco il copresidente del Dipartimento di Relazioni Estere dell’AADNES: “L’epoca della tirannia è finita. Voltiamo pagina rispetto al passato per unire gli sforzi dei siriani per un futuro migliore basato sulla giustizia e sulla democrazia”.

Dichiarazioni concilianti che potrebbero (condizionale etc.) apparire come una mano tesa agli autoproclamati “ribelli e insorti” entrati a Damasco. Tatticamente comprensibili, ma forse un tantino azzardate. Viste le origini islamiste di tali personaggi (Hayat Tahrir al-Sham alias al-Nusra in primis) e soprattutto ben sapendo che l’offensiva del 27 novembre, condotta da HTS e dal SNA, come minimo ha goduto del sostegno di Ankara. Con l’intento di annullare definitivamente l’esperienza del Confederalismo democratico, espressione del protagonismo politico dei curdi.

Per cui nei territori autogestiti dall’AADNES, mentre la popolazione scendeva in strada per festeggiare comunque la fine del regime, contemporaneamente veniva decretato lo stato di emergenza. In vista delle probabili ulteriori aggressioni al Rojava da parte dei proxy di Ankara (ENS, ma non solo). Ovviamente non credo proprio che i curdi rimpiangeranno Assad. Ma temo che la questione sia ben lontana dall’essere risolta.

Riassumendo.

Con la caduta di Damasco (e la fuga ingloriosa dei Assad) nella notte tra il 7 e l’8 dicembre, si è aperta una nuova fase. Anche per i funzionari di alto livello del regime che ora – temendo di perdere non solo la vita, ma forse anche la “testa”, letteralmente – si dichiarano pronti a collaborare con i vincitori per una “transizione pacifica”. Mentre dilagano le immagini delle statue degli Assad (padre, figlio e qualche altro parente) abbattute, anche in Rojava si festeggiava, dicevo. Ma soprattutto si combatteva per arginare i ripetuti, intensi attacchi dell’ENS sui diversi fronti. In particolare – da est, ovest e sud – su Manbij (governatorato di Aleppo, distretto di Manbij). Comunque finora sempre respinti, nonostante il contributo diretto dell’esercito turco.

Non si tratta – va chiarito – né di “incidenti isolati”, né del protrarsi di tensioni dovute agli eventi convulsi degli ultimi giorni. E non sono destinati a rientrare, esaurirsi in breve tempo con la “normalizzazione” del Paese.

Persisteranno a lungo, tanto quanto la Turchia vorrà proseguire nel suo intervento militare – sostanzialmente anti-curdo – in Siria. Come confermava un precedente comunicato del Consiglio militare di Manbij, secondo cui le ripetute aggressioni fanno parte di un vasto piano, di una vera e propria “strategia di occupazione e destabilizzazione” del territorio siriano.

Anche gli ultimi attacchi sono avvenuti utilizzando droni (UAV) e colpi di artiglieria pesante. A cui si sono aggiunte offensive sul terreno contro i villaggi di Jabb Makhzoum, Jableh Al-Hamra, Tal Aswad, Al-Hota e Tal Taurine. Attacchi pianificati (come avrebbe appurato l’intelligence curda) da un centro operativo congiunto, composto sia da capi dei gruppi jihadisti e mercenari, sia da ufficiali dell’esercito turco.

Riuniti nelle SDF (Forze Democratiche Siriane), i consigli militari di Manbij e di Al-Bab finora hanno respinto il nemico che ha lasciato sul terreno molti suoi combattenti.

Vediamo la cosa in dettaglio.

Risale a mezzogiorno (circa) di domenica 8 dicembre l’ultima dichiarazione del Centro Stampa del Consiglio Militare di Manbij. Ricorda che negli ultimi dieci-dodici giorni le aggressioni opera dell’esercito occupante turco (con l’aviazione, ma non solo) e dei suoi accoliti si contano a decine. Anche se “tutti questi attacchi sono stati sventati”, il comunicato riconosce che “le bande (ENS e jihadisti vari nda) hanno intensificato le aggressioni su tutti i fronti”. Oltre a quello di Manbij “da Toğar fino a quelli di Ewn Dadat, Arab Hasan (come Manbij, nel governatorato di Aleppo nda), Erima (ugualmente nel governatorato di Aleppo, distretto di al-Bab nda)”.

In questi ultimi giorni, alcuni gruppi con veicoli blindati – e con l’appoggio aereo dello Stato turco – avevano tentato di entrare nella città da sud. Ma presto cadevano in un’imboscate delle milizie curde. Intanto alcune cellule, in precedenza già infiltrate in città, si attivavano per “seminare paura e caos tra la popolazione”. Poi gli scontri, definiti “molto violenti”, proseguivano anche nella giornata dell’8 dicembre. Con maggiore intensità in corrispondenza dei punti di accesso alla città.

Altri attacchi delle bande ausiliarie di Ankara vengono segnalati nel distretto di al-Bab contro il villaggio di Erima. Incontrando tuttavia la resistenza del Consiglio militare di Bab e delle milizie di Jabhat Al Akrad (in curdo Eniya Kurdan).

Il messaggio si conclude ricordando le migliaia di membri del Consiglio militare di Manbij caduti in difesa della città combattendo contro i terroristi di vario genere, ordine e grado che infestavano e infestano i territori a ovest dell’Eufrate: “Sempre spalla a spalla con il popolo di Manbij, ieri contro l’Isis, oggi contro le bande”.

Gianni Sartori