#Asia #Ambiente – NON SERVE UN GLACIOLOGO PER CAPIRE CHE L’HINDU KUSH E’ – letteralmente – AGLI SGOCCIOLI – di Gianni Sartori

Dai versi di Subterranean Homesick Blues (Bob Dylan. 1965) “You don’t need a weatherman to know which way the wind blows” (non serve un meteorologo per sapere da che parte soffia il vento) avevano preso ispirazione i militanti della sinistra statunitense rivoluzionaria (almeno a livello di intenzioni…) conosciuti come Weatherman, the Weathermen o anche Weather Underground.

Il verso era stato ripreso pari pari come titolo per un documento distribuito al nono congresso dell’SDS (Students for a Democratic Society) dalla componente più radicale (Revolutionary Youth Movement) a Chicago il 18 giugno 1969.
Annunciando la nascita di una “forza combattente bianca” che insieme a quelle dei Neri (Black Panthers), Portoricani (Young Lords), Nativi (American Indian Movement) e Chicanos (Brown Berets, di origine messicana) avrebbe portato – nientemeno – alla “distruzione dell’imperialismo statunitense e alla creazione di un mondo privo di classi: un mondo comunista”. Sappiamo poi come è andata a finire.

Comunque, per analogia, oggi possiamo affermare che non c’è bisogno di un esperto in glaciologia per sapere come i ghiacciai del pianeta stanno semplicemente fondendo.

Scrivo “fondendo” in quanto, come ha fatto osservare qualche addetto ai lavori “I ghiacciai non si sciolgono, ma fondono. Il motivo è tutto nella spiegazione scientifica del fenomeno che porta al passaggio da stato solido (ghiaccio) a liquido (acqua)”.

Per cui definire la sostanziosa, evidente riduzione della massa ghiacciata, sia sulle montagne che ai poli, come “scioglimento” non sarebbe corretto. Risparmio al lettore eccessive spiegazioni chimico-scientifiche In soldoni, “soluzione” sarebbe quella dello zucchero (il “soluto”) nel caffé (il “solvente”).

Nel caso dei ghiacciai si dovrebbe parlare di “fusione”, ossia di un cambiamento di stato: appunto da quello solido a quello liquido.

E’ questo l’odierno dramma vissuto in particolare dalle alte montagne dell’Asia (HMA, High-Mountain Asia), dall’Himalaya a sud e a est all’Hindu Kush a ovest e al Tien Shan a nord. Comprendendo , oltre all’altopiano del Tibet, anche le sub-catene del Karakorum, del Pamir-Alay e del Kunlun.

Nel loro insieme costituiscono quello che viene definito il “terzo polo” (o anche “water towers”). Fonte di alimentazione per gran parte del sistema fluviale asiatico (Indo, Brahmaputra, Gange, Yangtze, Fiume Giallo, Mekong, Salween…).

A causa del cambiamento climatico, l’Asia meridionale sta rischiando di perdere almeno il 75% del volume dei suoi ghiacciai entro questo secolo.

Un processo apparentemente irreversibile e forse ancora più accelerato nell’Hindu Kush. Stando almeno all’accorato appello lanciato in questi giorni da Shehbaz Sharif, primo ministro del Pakistan, al summit – deludente e inconcludente – di Baku. Ricordando che i cambiamenti climatici estremi hanno colpito ripetutamente il suo Paese, in maniera sproporzionata rispetto alle responsabilità in materia di emissioni. Citando a titolo di esempio le inondazioni monsoniche del 2022 che hanno causato migliaia di vittime, milioni di sfollati e danni economici (raccolti e abitazioni distrutti) per circa 30 miliardi di dollari. Eventi che in qualche modo sono in sintonia con un fatto incontestabile: negli ultimi dieci anni il ghiaccio dell’Hindu Kush si è ridotto del 65% rispetto al decennio precedente.

Quanto al Green Pakistan Project con cui il Pakistan sta tentando di affrontare la crisi climatica (produrre il 60% dell’energia con le rinnovabili, converire all’elettrico il 30% dei veicoli…) al momento appare piuttosto velleitario, difficilmente praticabile (anche per mancanza di fondi).

Un ultimo pensiero anche ai nostrani “turisti d’alta quota”, quelli che – tra un trekking, una “prima ascensione” e un giro in elicottero – in Pakistan costruiscono strade, centri turistici e villaggi-vacanza (alimentando lo stile di vita occidentale, il consumismo etc).

Beh, così a spanne, ci vorrà ben altro che qualche pannello solare sul tetto del rifugio. Suggerisco: magari qualche aereo e qualche elicottero in meno?

Gianni Sartori

#Kurds #Donne – IL 25 NOVEMBRE, DA PIAZZA TAKSIM A LIVORNO, LO SLOGAN “JIN, JIYAN, AZADΔ RISUONA ANCORA, FORTE E CHIARO – di Gianni Sartori

In occasione della Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro la Donna la KJK (Komalên Jinên Kurdistan, Coordinamento dell’Unione delle Donne del Kurdistan) ha diffuso un appello a tutte le donne per condurre una lotta comune.

Dove si legge che “il 25 novembre è un giorno in cui le donne incrementano il loro potere e dobbiamo considerarlo un giorno in cui cresce la lotta contro la violenza”.

L’appello continua ricordando le origini della Giornata del 25 novembre: “ Dalle sorelle Mirabal che contribuirono ampiamente al Giorno dell’Eliminazione della Violenza contro la Donna, ricordando Rosa Luxemburg, Sakine Cansiz, Şilan Kobanê, Asya, Sêvê, Pakîze, Fatma, Evîn Goyî, Jîyan, Reyhan, Yusra, Nagehan, Zelal Haseki, Gulistan e Hêro Bahadin, condanniamo energicamente le uccisioni delle donne in resistenza e promettiamo di portare il lascito di lotta che ci hanno donato al tempo della libertà”.

Per gran parte del movimento di liberazione curdo è ormai un fatto acquisito che “la violenza contro le donne rappresenta la forma più antica e istituzionalizzata di violenza”.

Una violenza le cui radici andrebbero individuate nella “rottura della connessione tra donne e uomini”.

Per cui ai tempi odierni ogni forma di violenza – dal saccheggio della Natura alle guerre planetarie – si nutre e alimenta di questa rottura ancestrale. Risalente presumibilmente almeno a diecimila anni or sono e coeva di altre “rotture” ugualmente propedeutiche allo stato di cose presente (fondato su oppressione, prevaricazione, discriminazione, sfruttamento etc.). Come, per dirne un paio, l’allevamento e la schiavitù.

Ricordando inoltre che “la violenza contro le donne non si rivolge esclusivamente contro le donne, ma colpisce sia la società nel suo insieme che la Natura”. E per combatterla è necessario adottare un “approccio olistico”.

Analizzando non solamente la violenza esercitata dai maschi sulle donne, ma anche quella dello Stato. A conti fatti “due volti della stessa medaglia”.

Ulteriore conferma, quanto sta avvenendo in Turchia. Dove il 25 novembre la piazza Taksim (a Istanbul) veniva presidiata dalla polizia in forze per impedire ogni protesta e in particolare lo slogan “Jin, jiyan, azadî “ (Donna, Vita, Libertà).

Ma – nonostante la proibizione e le strade bloccate dalla polizia – il raduno indetto dalle organizzazioni femministe per le ore 19 si era svolto ugualmente. Centinaia di donne tentavano poi di raggiungere piazza Tünel, ma venivano caricate, respinte e disperse. Le altre manifestanti si radunavano nei viali scandendo slogan in curdo.

Almeno duecento donne, stando alle prime informazioni, sono state arrestate.

Di segno opposto quanto è avvenuto a Livorno dove il 25 novembre una strada tra Via del Risorgimento e Via Don Bosco è stata dedicata a Jina Masha Amini, la giovane curda assassinata dalla polizia a Teheran il 16 settembre di due anni fa.

Alla cerimonia hanno assistito i rappresentanti di Heyva Sor a Kurdistanê (Mezza Luna Curda) che hanno voluto esprimere la loro gratitudine per l’Amministrazione di Livorno e il sindaco Luca Salvetti. Per una scelta che “promuove la libertà, la giustizia e i diritti umani”.

Gianni Sartori