Un incontro con Alessandro Sgambati, presidente del Club Touristi Triestini, per ripercorrere la Storia dell’associazione e del Territorio in cui opera. Sarà l’occasione per sottolineare l’iniziativa “1914-1918: Assente! Odsoten! Assent! Odsutan! Abwesend!” che vuole contribuire al ricordo dei caduti del Litorale nel corso della Prima Guerra Mondiale.
In contemporanea sui social e sul nostro Blog.
Giorno: 1 novembre 2024
#Kurdistan #Anniversari – 1° NOVEMBRE 2024: GIORNATA MONDIALE PER KOBANÊ – di Gianni Sartori

Forse è nel cimitero di Kobanê che bisognerebbe recarsi in questi giorni per non dimenticare (come sembra aver fatto da tempo l’opinione pubblica mondiale) il sacrificio di migliaia di curdi caduti combattendo contro Daesh.
Premessa. Con Tev-Dem si indica la Tevgera Civaka Demoqratik (“Movimento della società democratica”) ossia il progetto sociale sperimentato nel Rojava: il confederalismo democratico. In sintesi, Tev-Dem è la forma di organizzazione della società ancora in atto, nonostante tutto, nel Rojava.
A dieci anni dalla Resistenza di Kobanê (novembre 2014), TEV-DEM rivolge un appello al sostegno internazionale per la popolazione del Rojava sotto attacco da parte dell’esercito di Ankara e dei suoi ascari jihadisti. In quella che ormai si celebra regolarmente da dieci anni il 1 novembre (“Giornata mondiale per Kobanê), il Movimento per una società democratica si rivolge al mondo (per quanto in altre faccende affaccendato) affinché non consenta allo Stato turco, supporter dello Stato islamico che il 15 settembre 2014 aveva assaltato Kobanê, di completarne l’opera.
Migliaia di combattenti curdi erano caduti nella battaglia con gli islamisti tra settembre 2014 e gennaio 2015. Mentre i combattimenti causavano la quasi completa distruzione di Kobanê, oltre 300mila persone erano ridotte nella condizione di sfollati-profughi interni.
Come si legge nel comunicato di TEV-DEM “a Kobanê è stata condotta una resistenza senza precedenti. La città è diventata un simbolo mondiale di resistenza per i valori comuni dell’umanità”.
All’epoca, dal carcere di Imrali, era giunto un altro appello, quello di Abdullah Öcalan che chiamava i curdi alla mobilitazione generale per difendere questa cittadina frontaliera nel nord della Siria. Sempre all’epoca, centinaia di milgliaia di persone, forse milioni, erano scese in strada il 1 novembre (proclamato da allora “Giornata mondiale per Kobanê”).
Continuando nella sua dichiarazione, TEV-DEM spiega che “dieci anni dopo Kobanê è nuovamente sotto attacco da parte dello Stato turco e dei suoi proxy jihadisti”. Per questo “ci appelliamo ad un maggior sostegno alle conquiste dei popoli del nord e dell’est della Siria. Il Rojava ha resistito per l’intera umanità, l’umanità deve ora impegnarsi per il Rojava”.
Una possibile spiegazione dell’ostinato persistere di Erdogan nella sua guerra contro i curdi, è stata ipotizzata in una recente intervista (all’agenzia ANHA) da Xerîb Hiso.
Denunciando la “politica di saccheggio e occupazione” di Ankara nelle regioni del nord e dell’est della Siria, il copresidente del Partito dell’Unione democratica (PYD, Partiya Yekîtiya Demokrat) ha condannato le aggressioni di quello che costituisce il secondo esercito della Nato contro la popolazione e le istituzioni locali. Aggressioni che sarebbero una conferma della sostanziale “perdita di influenza della Turchia in Medio-oriente”.
“Lo Stato turco – ha spiegato – si è illuso per lungo tempo che attaccando i curdi si sarebbe rafforzato. Un approccio del tutto sbagliato. Forse ha potuto funzionare in passato, ma alla fine non darà alcun risultato. Da oltre un secolo, massacri, saccheggi e occupazioni non hanno portato niente di positivo alla Turchia. Mentre si ostina a procedere sulla strada del fascismo e della brutalità, in realtà va perdendo il suo ruolo nella regione mediorientale, sempre più sconfitto e frammentato. Sul piano interno la Turchia sta cadendo nel caos, una conferma che la soluzione dei suoi problemi non può rinvenirla fuori dalle proprie frontiere. Gli attacchi contro di noi non sono altro che atti vigliacchi e terroristici. I tempi in cui si poteva affamare e scacciare la popolazione sono definitivamente finiti e la volontà del popolo alla fine vincerà”.
Indispensabile poi dire due parole anche su quanto avviene più a sud e a est, a Deir ez-Zor lungo le rive dell’Eufrate. Con le recenti immagini (criticate severamente da “campisti” di varia estrazione) di esponenti delle Forze Democratiche Siriane (FDS; in araboالديمقراطي , in curdo Quwwāt Sūriyā al-Dīmuqrāṭīya; in siriaco Hêzên Sûriya Demokratîk; in inglese Syrian Democratic Forces) dialogare fraternamente con militari della Coalizione internazionale chiaramente statunitensi). Con i simboli della rivoluzione curda (v. La stella rossa) a fianco della bandiera stelle e strisce.
Il video (SDF press center) documentava la recente costituzione di una pattuglia congiunta, costituita appunto da FDS (o SDF) e forze della Coalizione Internazionale a Deir ez-Zor. In difesa della popolazione ripetutamente sottoposta agli attacchi di Daesh e di non meglio precisate “milizie affiliate ai servizi di sicurezza di Damasco” (tribali arabi forse). In risposta, si legge in un comunicato di SDF press center, alle “ripetute richieste delle tribù e dei popoli della regione, richieste emerse nel corso di precedenti riunioni con il comando generale delle SDF e della Coalizione internazionale”.
A tale scopo sarebbe stata “rafforzata la capacità di combattimento per proteggere la popolazione dalle minacce portate da fazioni ostili”.
Nelle immagini si vedono appunto i blindati USA e i furgoni curdi percorrere insieme le strade. Poi i componenti della pattuglia congiunta (con i rispettivi simboli di riconoscimento, stella rossa in campo verde e bandierina a stelle e strisce) distribuire volantini informativi alla popolazione (con frotte di bambini che ne fanno incetta).
Capisco la contraddizione e non dico che faccia piacere. Ma – chiedo umilmente – che cazzo dovrebbero fare i curdi e gli altri popoli dell’area, visto che tutti (tutti, anche i francesi ormai) li hanno abbandonati al loro destino? Lasciarsi massacrare buoni e zitti? Affidarsi a Putin e Bashar al-Assad (proprio quando sembra in ripresa l’idillio con Erdogan)?
Fatemi sapere che magari glielo spiego.
Gianni Sartori
#Asia #Pilipinas – FILIPPINE: SQUADRONI DELLA MORTE CONTRO PRESUNTI SPACCIATORI E TOSSICODIPENDENTI, ESECUZIONI, SEQUESTRI E INTIMIDAZIONI PER GLI AMBIENTALISTI – di Gianni Sartori

Con la conferma del diretto responsabile (direttamente in Senato il 28 ottobre), è venuto meno il “velo” steso sulle stragi avvenute nel contesto della lotta alla droga nelle Filippine.
E’ stato proprio Rodrigo Duterte, ex presidente, a confermare quanto si sospettava (o meglio: si sapeva) da tempo.
Durante la sua leadership sono avvenute in gran quantità “esecuzioni sommarie extragiudiziali”, qualificabili come “crimini contro l’umanità”. Ovviamente rimasti impuniti.
Come ha ribadito Bienvenido Abante (responsabile della Commissione per i diritti umani della Camera) era stato Duterte in persona a ordinare alle forze dell’ordine di provocare (“incoraggiare”) i sospetti a reagire in modo da poterli ammazzare. Con uno squadrone della morte “d’élite” direttamente ai suoi ordini, operativo tra il 1988 e il 2016 (quando era sindaco di Davao) e poi tra il 2016 e il 2022 durante il suo mandato presidenziale.
Con la programmata eliminazione fisica di migliaia di sospetti spacciatori e tossicodipendenti (oltre che di soggetti genericamente classificati come antisociali). Senza esclusione di torture e sequestri e con una ricompensa ufficiale per ogni “scalpo”.
Se i dati ufficiali della Polizia nazionale filippina riferiscono di 6.600 morti ammazzati in questa “guerra alla droga”, per alcune Ong che si sono occupate della questione il numero delle vittime sarebbe di oltre 30mila.
Era intervenuta anche Amnesty International affermando che tali esecuzioni (omicidi in sostanza) erano “di natura deliberata e sistematica (…) parte di un attacco organizzato dal governo contro i poveri”.
Abante l’ha definita come “scioccante normalizzazione della brutalità”, invitando quindi “le autorità competenti a considerare attentamente la dichiarazione accertando le responsabilità penali degli individui interessati, sia sotto il concetto di responsabilità di comando che di cospirazione”. Molti di questi casi potrebbero rientrare nel novero di “crimini contro l’umanità, come sanzionato dalla legge repubblicana n.9581, dalla legge sui crimini contro il diritto umanitario internazionale, il genocidio e altri crimini contro l’umanità”.
Sostanzialmente in sintonia con Abante, Chel Diokno. L’avvocato per i diritti umani ritiene che tali ammissioni sotto giuramento (rese senza che Duterte abbia mostrato “alcun segno di pentimento”) siano utilizzabili contro l’ex presidente.
Al momento nei confronti di Duterte è aperta anche un’indagine della Corte penale internazionale (Cpi) per stabilire se le uccisioni avvenute nell’ambito della campagna antidroga siano “frutto di una politica di Stato”.
Altrettanto preoccupante quanto avviene tuttora nelle Filippine ai danni dei difensori della Natura.
Complessivamente gli attivisti per il clima e l’ambiente uccisi a livello mondiale nel 2023 sarebbero almeno 196 (quelli registrati da Global Witness, il numero reale è sicuramente più alto). In massima parte (almeno il 36%) appartenenti alle comunità indigene. Se il primato spetta all’America Latina (in particolare alla Colombia), in Asia sul poco ambito podio troviamo proprio le Filippine con 17 attivisti ambientali uccisi nel 2023.
Sempre in base ai dati forniti da Global Witness, dal 2012 nelle Filippine sono almeno 298. Per quanto non paragonabili a quelli della Colombia (461 dal 2012) la cifra appare alquanto significativa, soprattutto se confrontata con il totale dell’Asia (468). Addirittura superiore a quelli dell’intera Africa (116 dal 2012, ma con tanto beneficio d’inventario, sicuramente sottostimati per la difficoltà di documentarli adeguatamente).
Va poi considerato l’incremento di quelli che l’Asian Forum for Human Rights and Development ha definito “attacchi non letali” nei confronti dei difensori dei diritti umani. In particolare le “pressioni giudiziarie”. Accanto alla pratica abituale – e talvolta con conseguenze letali – delle sparizioni forzate.
Fenomeno peraltro in espansione anche al di fuori delle Filippine. Sempre stando alle denunce di Global Witness “Il rapimento di difensori della terra e dell’ambiente nel sud-est asiatico è diventato un problema cruciale, che riflette sforzi più ampi da parte dei detentori del potere di reprimere il dissenso e mantenere il controllo sulla terra e sulle risorse”. Emblematico, tra i tanti riportabili, il caso di due attiviste ventenni, Jhed Tamano e Jonila Castro. Rispettivamente coordinatrice per il Forum ecumenico episcopale e responsabile di People’s Network for the Environment.
Originarie del territorio della Baia di Manila, avevano appoggiato le comunità dei pescatori contro il progetto della costruzione di un nuovo aeroporto. Sequestrate il 2 settembre 2023, sono rimaste nelle mani dei rapitori (fondati sospetti sul ruolo dell’esercito) per 17 giorni.
Sequestro, ricordo, avvenuto sotto la presidenza di Ferdinand Marcos Jr.
Al momento del rilascio veniva organizzata dalle autorità una conferenza stampa. Definita però dalle due ambientaliste “una montatura” con cui si voleva costringerle (leggendo una dichiarazione prestampata) a qualificarsi come “militanti comuniste”.
Sottoposte per oltre due settimane a minacce e torture psicologiche, avevano coraggiosamente partecipato alla conferenza stampa per denunciare i loro sospetti sul ruolo dei militari. Pur essendo ben consapevoli dei possibili rischi. Infatti nel dicembre 2023 sono state accusate di “aver messo in imbarazzo e in cattiva luce le Forze armate delle Filippine” con tanto di mandato d’arresto.
Gianni Sartori
