#Ireland #Proteste – A DERRY (IRLANDA DEL NORD) GIOVANI REPUBBLICANI CONTESTANO LA TRADIZIONALE SFILATA DEGLI UNIONISTI FILO-BRITANNICI – di Gianni Sartori

Dopo l’impazzimento generale per il triplice omicidio di Southport (quando si son viste le bandiere unioniste sfilare con il tricolore irlandese) in Irlanda del Nord rispunta il tradizionale contenzioso tra cattolici e protestanti.

E così – se Dio vuole – in Irlanda del Nord si torna alla “normalità” (normalità nord-irlandese, beninteso).

Un passo indietro. Nei giorni scorsi non credo di essere stato l’unico a rimanere basito, sconcertato (“spaesato”) per alcune immagini dei recenti disordini che avevano turbato, oltre alle città britanniche, anche Belfast nell’Irlanda del Nord. Con saccheggi, assalti alle moschee, percosse e ingiurie nei confronti degli immigrati.

Disordini interpretati anche come una strumentalizzazione xenofoba (alimentata dai social) dell’estrema destra per il triplice assassinio di tre bambine a Southport.

Alcune immagini, come avevo detto “a caldo”, mi erano apparse semplicemente surreali. Non solo per la bandiera (bianca) con croce di San Giorgio (rossa) e nei riquadri ben quattro A cerchiate (?!?).

Ma piuttosto vedendo il video di un corteo con giovani dal volto coperto tra cui uno con la solita bandiera di San Giorgio (simbolo britannico per eccellenza). Addirittura con al centro la Red Hand of Ulster (Mano Rossa dell’Ulster. Inequivocabilmente un simbolo unionista (utilizzato dai lealisti filoinglesi, sia dai gruppi politici come l’UDA che dai paramilitari come l’UVF…). Poco lontano un altro ragazzo con il tricolore irlandese che a Belfast si caratterizza automaticamente come simbolo repubblicano (“feniano”).

Ebbene, nella sequenza si vedevano i due avvicinarsi – forse con un residuo di reciproca diffidenza – un cenno di assenso ed eccoli manifestare insieme, fianco a fianco, addirittura a braccetto. Divisi da secoli di conflitti, ma uniti contro l’immigrazione. E stando ai “si dice” qualcosa del genere potrebbe essere accaduto anche in qualche quartiere popolare di Dublino (questa notizia da verificare comunque).

Una sorta di ammucchiata sostanzialmente condannata dalle formazioni repubblicane di sinistra.

Ma poi, come dicevo, il mosaico sembra essersi ricomposto da tradizione. Non a caso nella notte tra sabato e domenica 11 agosto a Derry, nel contesto della solita marcia per commemorare gli “Apprendisti” e i 105 giorni dell’assedio di Derry da parte dell’esercito cattolico di Giacomo II. Mentre sfilavano gli Unionisti protestanti (“lealisti” nei confronti della corona inglese), alcune decine di giovani repubblicani (cattolici e sostenitori della riunificazione delle “Sei Contee” con la Repubblica) hanno voluto esprimere vigorosamente il loro dissenso. Gli scontri (durati alcune ore, con lanci di petardi, molotov e oggetti vari) scoppiavano quando le forze di polizia erano intervenute per tener separate le due comunità. Nel frattempo si è appurato che gran parte dei disordini scoppiati in Irlanda del Nord dopo la tragedia di Southport sarebbero stati innescati da ex appartenenti alle milizie protestanti filoinglesi (UVF, UFF…). A cui nelle manifestazioni si erano aggregati pochi giovani provenienti dai quartieri cattolici. Forse non abbastanza attrezzati politicamente. 

Gianni Sartori

#Kurds #Appello – MANO TESA DELL’AANES A DAMASCO – di Gianni Sartori

Nonostante i ripetuti attacchi del regime alla regione di Deir ez-Zor, l’AANES chiede a Damasco di ripristinare il dialogo per una soluzione politica che garantisca sia l’unità della Siria che l’autonomia per i territori del nord e dell’est.

Proseguono ormai da parecchi giorni gli attacchi da parte di Damasco, con il sostegno di organizzazioni fiancheggiatrici filo-iraniane (v. Difa al-Watni, Difesa della patria, a quanto pare apprezzata anche da Ankara) irrobustite con miliziani pachistani e afgani, nella regione di Deir Ez-Zor. Area a maggioranza araba, in gran parte desertica ma petrolifera (in cui si mantiene la presenza di circa 900 militari statunitensi) sotto il controllo delle forze arabo-curde. Come da manuale il maggior numero di vittime si contano tra la popolazione civile. Tra gli ultimi incidenti, il bombardamento delle città di Abu Hemam (una vittima accertata: Resmiya Salih al-Id di 40 anni), Kishkiye e della zona rurale di Bisêra. Si calcola che in una settimana (dal 7 agosto) negli attacchi contro Deir Ez-Zor siano morte almeno una quindicina di persone (una trentina i feriti accertati).

Scontata la ferma condanna per tali operazioni (e della propaganda di guerra con cui si vorrebbe attribuire alle FDS – Forze Democratiche Siriane – la responsabilità del conflitto) da parte dell’Amministrazione autonoma democratica del nord e dell’est della Siria (AANES) che tuttavia non rinuncia alla possibilità di un confronto con il regime. Invitandolo a “mettere da parte la demagogia e la retorica ostile per impegnarsi in un sincero dialogo nazionale per il futuro della Siria”.

Accusati di “collaborare con gli Stati Uniti”, i curdi a loro volta accusano il regime di “utilizzare un linguaggio di odio e tradimento”. Inoltre con il suo operato Damasco “impedisce di occuparsi seriamente della questione autonomia o separatismo”. E’ noto che ai curdi viene rinfacciato di voler frantumare la Siria mentre in realtà si tratterebbe soltanto di riconoscere l’autonomia (fondata sul Confederalismo democratico) dei territori già amministrati dall’AANES.

Concetto ribadito ancora una volta dal PYD (Partito dell’unione democratica) che ha rilanciato la proposta di un “dialogo nazionale” e la necessità impellente di negoziati. In quanto “la soluzione del conflitto in corso sta nelle mani dei Siriani e non nei forum internazionali come Astana o Ginevra”.

Per cui il governo siriano dovrebbe “abbandonare le soluzioni militari e concentrarsi sul dialogo politico per garantire l’unità e l’integrità della Siria”.

Un approccio alla questione che non è esclusivo dei Curdi. In questi giorni si è tenuta a Hesekê una riunione tra i leader tribali (sia arabi che curdi) che si sono trovati concordi sia nel condannare gli attacchi di Damasco a Deir ez-Zor, sia nel sostegno alle FDS. Nella dichiarazione finale, comunicata dallo sceicco Hesen Ferhan (co-presidente del Consiglio della Tribù Tey), si leggeva che “noi come tribù appoggiamo le FDS e le Forze Asayish di Ordine Pubblico con i nostri uomini, donne e giovani. E garantiremo la sicurezza del nostro paese con ogni mezzo necessario”. Con una richiamo alla “nostra esperienza che è l’arma più potente contro i tentativi di spezzarne l’unità”. Protezione e sicurezza del paese che rappresentano un “sacro dovere per ogni membro delle nostre tribù e clan del nord e dell’est della Siria”. Con l’appello finale a “tutti i popoli della regione affinché sostengano le FDS e le Forze Asayish anteponendo l’interesse del paese a ogni altra questione”.

Stando almeno a tale comunicato sembrerebbero rientrate le rivendicazioni di alcune tribù arabe (in particolare della tribù Akaiadat) favorevoli al ripristino della sovranità diretta di Damasco (per i curdi tali tribù sarebbero state sobillate dal regime). L’anno scorso una rivolta araba nella regione di Deir ez-Zor era scoppiata in contemporaneità (difficile pensare a una coincidenza, piuttosto a un coordinamento) con gli attacchi delle formazioni jihadiste filoturche a Manbij e Tell Tamer.

Quel che verrebbe umilmente da suggerire al presidente Bashar al-Assad è di preoccuparsi non tanto per le richieste di autonomia avanzate dai curdi, ma piuttosto dei territori persi nel nord-ovest (con i villaggi di al-Bab, Azaz, Jarabulus, Rajo, Tal Abyad, Ras al-Ayn…). Territori occupati militarmente da Ankara in almeno tre fasi: agosto 2016 con l’operazione “Scudo dell’Eufrate”, gennaio 2018 (“Ramo d’ulivo”) e ottobre 2019 (“Primavera di pace”). Definitivamente entrati a far parte della cosiddetta “fascia di sicurezza” sotto controllo turco. Di fatto una provincia turca che dipende dal Governatorato di Gaziantep. Per non parlare della questione del Golan sempre sotto occupazione israeliana.

Gianni Sartori

#Europa #Ambiente – DIVERSI PAESI EUROPEI INASPRISCONO LE PENE PER GLI ATTIVISTI AMBIENTALISTI – di Gianni Sartori

In Europa le iniziative degli ambientalisti non sembrano aver incontrato più di tanto il sostegno delle popolazioni. In compenso su di loro si va abbattendo la repressione. E si registrano le prime defezioni come nel caso dell’autoscioglimento di “Letzte Generation”.

Le generazioni future forse non ringrazieranno.

Mentre caldo torrido e tempeste improvvise allietano l’estate della masse popolari europee, nel Vecchio Continente si inasprisce la repressione contro i militanti ecologisti. Dalla Gran Bretagna alla Francia, all’Austria, alla Germania…(e si presume che l’Italia finirà per allinearsi).

Roger Hallam era già conosciuto come uno dei fondatori del movimento “Just Stop Oil” e di “Extinction Rebellion”. Dal 18 luglio anche per essere uno dei cinque ecologisti (gli altri sono Daniel Shaw, Louise Lancaster, Lucia Whittaker De Abreu e Cressida Gethin) condannati a pene spropositate (quattro e cinque anni di detenzione) per “complotto inteso a provocare perturbazione dell’ordine pubblico”.

In quanto avrebbero preso parte a una riunione Zoom al fine di radunare attivisti per bloccare la M25, la grande circonvallazione di Londra. Operazione posta in essere il 7 novembre 2022 e durata circa quattro giorni.

Allo scopo di gettare l’allarme sulle nuove licenze per l’estrazione di petrolio e di gas che il governo stava per concedere.

Un caso analogo a quello di altri due militanti ecologisti che nell’aprile 2023 erano stati condannati a tre anni di carcere dopo essersi arrampicati sul Ponte Queen Elizabeth. Rimanendovi sospesi per circa 37 ore, bloccando di fatto la circolazione.

Non si tratta di episodi destinati a rimanere isolati. Di fronte alla crisi climatica (e a tutto il resto: estinzione delle specie, deforestazione, migrazioni indotte dai cambiamenti climatici, carestie, guerre a macchia di leopardo, genocidi più o meno mascherati di palestinesi, curdi, mapuche, adivasi, indios…) è probabile che le azioni di protesta vadano intensificandosi. Comportando fatalmente qualche “disturbo della quiete pubblica”. O se vogliamo qualche contrattempo per l’ordinaria opera di estrazione del profitto dalle attività quotidiane. Non sia mai, devono aver pensato le autorità britanniche introducendo (nel 2023) il Public Order Act. Con cui si andava criminalizzare ogni azione ritenuta atta a perturbare l’ordine pubblico. A discrezione delle forze dell’ordine in base al successivo (2024) Police, Crime, Sentencing and Courts Act.

E se Londra non lesina nelle condanne, Parigi non è da meno.

Vedi quanto avviene con le proteste contro la A69, una lingua d’asfalto di 53 chilometri in costruzione tra Castres e Toulouse. Progetto sostenuto dai politici locali e definito “un ecocidio economicamente scandaloso” dagli ambientalisti che – nonostante l’asprezza della repressione – continuano a opporsi.

In base ai dati forniti l’8 agosto dal Coordinamento anti-repressione, un collettivo che raccoglie i vari gruppi attivi contro la A69 (tra cui Attac, il Groupe national de surveillance des arbres- GNSA e La Voie est libre-LVEL, le organizzazioni in cui è maggiore il numero degli arrestati) dalle prime iniziative del febbraio 2023 centinaia di persone sono state fermate, 130 quelle indagate, 60 i processi (tra quelli già avviati e quelli a venire).

Sette militanti si trovano in carcere e 44 sotto controllo giudiziario, 27 quelli con foglio di via.

Tra le persone per cui la sentenza è già stata emessa, una è stata posta in libertà dopo 4 mesi di detenzione, un’altra è stata condannata a sei mesi. Per altri quattro condannati la pena si è trasformata in arresti domiciliari con braccialetto elettronico. In qualche caso la perquisizione, l’interrogatorio e l’arresto si sarebbero svolti con modalità discutibili. Alcuni hanno denunciato maltrattamenti e anche “fratture al volto che hanno richiesto interventi operatori” come confermato dai certificati medici.

Vista la situazione generale, non si può dire cada come un fulmine inaspettato a ciel sereno (direi ci sta visto che si parla di clima) il comunicato del 6 agosto di Letzte Generation, il ramo austriaca di “Ultima Generazione” (il collettivo che pratica la disobbedienza civile, la resistenza non-violenta sorto in Germania). Con cui annunciava, a tre anni dalla nascita, l’ autoscioglimento. Sia per non meglio specificati “dissensi interni” (probabilmente sulle modalità di intervento), sia – soprattutto direi – per problemi finanziari (gli avvocati costano).

“Avevamo continuato nonostante la violenza subita, le minacce di morte, gli arresti e il carcere, l’odio nei nostri confronti e le multe che ormai raggiungono le decine di migliaia di euro – spiegavano nel comunicato. Ma ora, non vedendo la possibilità di conseguire risultati “sospendiamo le nostre proteste”.

Proteste avviate nel 2021 contro la costruzione di un grande tunnel autostradale nel centro di Vienna. In seguito avevano occupato le piste e le strade degli aeroporti austriaci per protestare contro l’impiego delle energie fossili e la catastrofe climatica. Stando alle dichiarazioni della portavoce Marina Hagen-Canaval alcune centinaia di persone (oltre 600) avrebbero preso parte alle diverse azioni di protesta (calcolando solo quelle del 2023 e del 2024 almeno 378). In questi tre anni, secondo Letzte Generation, il governo austriaco avrebbe “brillato per totale incompetenza”. Ma, sempre a loro avviso “anche la società ha fallito visto che parte della popolazione continua a sostenere l’uso dei combustibili fossili”.

Tuttavia per quanto ora si sentano “profondamente tristi”, sono anche convinti di “aver piantato i semi di una futura sollevazione pacifica politicizzando migliaia di persone”.

Va ricordato che alcuni militanti austriaci (tra cui Martha Krumpeck) rimangono ancora in carcere e molti altri rischiano la medesima sorte (o comunque multe pesantissime) in caso di condanna. Attualmente sarebbero 230 le cause penali in corso e quasi 4mila le denunce amministrative (civili). Per un totale di 1060 arresti.

Per cui “utilizzeremo le nostre rimanenti risorse finanziarie per coprire le spese legate alla nostra difesa nei tribunali”.

Fermo restando che “Noi rimaniamo in collera. La resistenza continua”.

Gianni Sartori

 

#Americhe #Colombia – SFIBRANTE TIRA E MOLLA NELLE TRATTATIVE (NUOVAMENTE INTERROTTE) TRA ELN E GOVERNO COLOMBIANO – di Gianni Sartori

L’altalenante confronto tra ELN e governo colombiano subisce un nuovo arresto. Nonostante la dichiarata volontà di voler trovare una soluzione politica al pluridecennale conflitto, le trattative finiscono regolarmente per impantanarsi tra reciproche accuse di violazione degli accordi.

Anche quest’anno si erano rianimate le altalenanti trattative tra ELN (Ejército de Liberación Nacional) e governo colombiano per una soluzione politica del conflitto. Tra altri e bassi come da protocollo ormai consolidato.

Infatti, notizia dell’ 8 agosto, l’esercito aveva nuovamente imbracciato le armi – in attesa di aprire il fuoco – contro la guerriglia.

Ma andiamo con ordine ripercorrendo le fasi salienti di questi ultimi mesi.

Il 20 febbraio 2024 l’ELN annunciava la sospensione dei colloqui in corso dal 2022 (in varie fasi, sia a Cuba che in Messico e Venezuela, paesi che fungono da garanti insieme a Brasile, Norvegia e Cile) e l’apertura dell’ennesima “crisi” con la controparte governativa di Bogotà e – parallelamente – con il governatore del dipartimento di Narino (nord-est del Paese). Nonostante all’inizio del mese fosse stato programmato un prolungamento di altri sei mesi del cessate-il-fuoco e la sospensione (in atto da gennaio) dei sequestri di persona da parte della guerriglia. Abbandonando il tavolo delle trattative l’ELN intendeva denunciare l’avvenuta violazione delle regole stabilite. In particolare il mantenimento della collaborazione tra forze dell’ordine e gruppi paramilitari di destra (pratica smentita dal governo).

Tutto questo avveniva nonostante nel corso della settimana precedente la guerriglia avesse dato prova di buone intenzioni sospendendo lo “sciopero armato” già avviato nell’ovest del paese.

Trascorrevano appena un paio di settimane e – il 4 marzo – governo e ELN, dall’Avana, ritornavano pubblicamente sui loro passi annunciando la ripresa delle trattative. A cui avrebbe preso parte come osservatore anche un rappresentante delle Nazioni Unite.

Ma evidentemente si trattava di un falso allarme. Ai primi di maggio l’ELN decideva di riprendere la prassi abituale di rapire esponenti dell’oligarchia (liberandoli in cambio del riscatto, a scopo di autofinanziamento) in quanto il governo avrebbe bloccato gli aiuti finanziari provenienti da paesi terzi.

Per la cronaca, va ricordato che l’ELN (di ispirazione guevarista – foquismo – originariamente influenzato anche dalla teologia della Liberazione), diversamente da altre formazioni guerrigliere, ha sempre rifiutato di legarsi al narcotraffico condannando tale pratica come controrivoluzionaria.

Nuova inversione a U alla fine del mese con la firma da parte di entrambe le parti in causa (ELN e Governo colombiano) – a Caracas – di un nuovo, ennesimo accordo, basato su sei punti fondamentali, con cui la società civile veniva di fatto coinvolta nel processo di pace. Evento classificato come un ”concreto passo in avanti” e che – per certi aspetti – nel metodo ricordava quello formulato in diverse occasioni nei Paesi Baschi.

Ma ai primi di agosto siamo ritornati al punto di partenza (o di arrivo ?) e la fragile tregua si è nuovamente infranta. Ancora una volta l’ELN accusa il governo di non rispettare gli accordi bilaterali stabiliti (concordati in varie fasi a Cuba, Venezuela e Messico) tra cui quello di togliere l’ELN dalla lista denominata GAO (“gruppi armati organizzati”) in quanto metterebbe sullo stesso piano sia organizzazioni di stampo terroristico che movimenti di liberazione.

Preso atto della decisone dell’ELN, il governo a sua volta ha preannunciato la ripresa delle operazioni militari contro la guerriglia.

Gianni Sartori

#Popoli #Opinioni – SRADICATI o SPAESATI… – di Gianni Sartori

fonte immagini @ Eirigi

Tra popoli sradicati (migranti per scelta o necessità) e altri spaesati (indigeni residenti magari soltanto per abitudine), carnefici (v. Erdogan) che difendono le vittime palestinesi (quindi solo quelle altrui), ma infieriscono su quelle di casa loro (v. i curdi…), neo-colonizzatori in veste di turisti-alpinisti benefattori (v. sulle montagne del Pakistan)… “grande è la confusione sotto il cielo” (ma, diversamente da quel che pensava Mao, la situazione è pessima…).

Premessa. Forse è solo colpa del caldo. Ma standomene qui immerso nell’afa padana mi è capitato di prendere visione di più giornali del solito e perfino di qualche telegiornale. Con effetti collaterali imprevisti. In ogni caso le considerazioni che seguono (forse indotte dalla pletora di notizie- spettacolo che i media riversano quotidianamente sulla popolazione) vanno prese con beneficio di inventario.

1) La cosa sinceramente finora mi era sfuggita.

Pare che la Turchia volesse (vuole ?) unirsi al Sudafrica nell’accusa di genocidio (alla Corte Internazionale di Giustizia all’Aia) contro Israele per la guerra di sterminio condotta nella Striscia di Gaza. Lo aveva annunciato ancora in maggio il ministro turco degli Esteri Hakan Fidan, durante una conferenza stampa con l’omologo indonesiano in visita nel Paese. La Turchia, aveva aggiunto “continuerà a sostenere il popolo palestinese”.

Nobili propositi, senz’altro. Peccato che in contemporanea Ankara continui a opprimere e massacrare i Curdi. Dal Rojava al Bakur e al Basuhr (al Rojhilat ci pensa Teheran).

A mio avviso, non solo paradossale, ma altamente ipocrita.

Un po’ come quando Mussolini denunciava l’imperialismo inglese – criminale, ca va san dire – per la repressione (le forche) nel suo vasto impero. Stendendo un velo poco pietoso sul genocidio tricolore in Libia e in Etiopia.

Come si suol dire “da che pulpito vien la predica”.

Ankara ha dimenticato – o finge di non sapere – che Mandela stava giusto per dare asilo politico a Ocalan diretto in Sudafrica quando venne “intercettato” (venduto dalla Grecia) dai servizi segreti (forse turchi, forse israeliani…ancora se ne discute). Asilo politico che l’Italia gli concesse, tardivamente e ipocritamente, solo dopo averlo scacciato (consegnandolo, di fatto, mani e piedi legati alla Turchia).

Non so, ma sinceramente non credo che Madiba avrebbe stretto accordi di qualsiasi genere con il sultano di Ankara.

2) Altra recente fonte di sconcerto, perplessità – o semplicemente confusione – alcune immagini dei recenti scontri che hanno scosso il cosiddetto Regno Unito. Da Bristol a Sunderland, Southport, Liverpool, Manchester e anche a Belfast (Irlanda del nord). Con saccheggi, assalti alle moschee e ai centri per immigrati, percosse e ingiurie nei confronti degli “stranieri” e altro.

Classificati (forse con sbrigativa semplificazione) come una strumentalizzazione xenofoba, alimentata dai social, da parte dell’estrema destra della tragedia di Southport. Dove tre bambine sono state uccise da Axel Muganwa Rudakubana, un ragazzo nato a Cardiff (Galles) da genitori di origine ruandese (mentre nelle notizie falsamente diffuse da fonti di estrema destra si sosteneva che si chiamasse Ali Al-Shakati e che fosse musulmano).

Alcune immagini, dicevo. Semplicemente surreali, quali non avrei mai pensato di vedere. Non tanto – o non solo – la bandiera (bianca) con croce di San Giorgio (rossa) e nei riquadri ben quattro A cerchiate (?!?).

Ma piuttosto la scena di un corteo a Belfast con ragazzi dal volto coperto tra cui uno con la solita bandiera di San Giorgio (simbolo britannico per eccellenza) addirittura con al centro la Red Hand of Ulster (Mano Rossa dell’Ulster). Inequivocabilmente un simbolo unionista (utilizzato dai lealisti filoinglesi: UDA, UVF…). Poco lontano un altro con il tricolore irlandese che a Belfast si caratterizza (-va ?) automaticamente come simbolo repubblicano (“feniano”).

Ebbene, vedi i due avvicinarsi – forse con un residuo di reciproca diffidenza – un cenno di assenso ed eccoli manifestare insieme, fianco a fianco, addirittura a braccetto. Divisi da secoli di conflitti, ma uniti contro l’immigrazione.

Roba da non credere fino all’altro giorno. Quasi un’allucinazione.

Come quella volta, primi anni ottanta, quando vidi a Barcellona la bandiera catalana abbinata a quella della Falange (giuro!) e addirittura a quella della Repubblica (mi spiegarono che si trattava di una piccolissima formazione dissidente di seguaci di Primo de Rivera, forse in vena di infiltrazioni).

Quanto alla scena di Belfast, di sicuro i tempi sono cambiati, inesorabilmente. Almeno rispetto all’Irlanda che conoscevo io.

3) Andiamo oltre. Come altra fonte recente di contraddizione-confusione volevo soffermarmi su quella che considero l’ennesima messa-in-scena a base di montagne e alpinismo: la retorica, invasiva celebrazione dell’anniversario della “conquista” italica del K2 (luglio 1954).

Ossia dell’alpinismo (sempre più turistico, consumista, mercificato…) come prosecuzione del colonialismo. Argomento di cui mi ero già, fin troppo forse, occupato.

Al solito, anche nelle recenti celebrazioni quasi nessun accenno (e comunque nessuna messa in discussione) sul ruolo di Impregilo (v. la diga di Tarbela sull’Indo in cambio dei permessi) che da allora si aggiudica in Pakistan (e non solo ovviamente) contratti miliardari. E nemmeno sui metodi usati con gli alpinisti pakistani, percepiti come di rango inferiore, semplici portatori. Anche se in realtà su quel terreno (casa loro) erano molto più abili, esperti e resistenti degli occidentali (Amir Mahdi era l’uomo che sul Nanga Parbat aveva riportato a valle Hermann Buhl).

In compenso viene rifilata l’ormai trita e ritrita faccenda del contenzioso tra Bonatti (che si considerava abbandonato di notte a 8100 metri senza tenda con 40 sotto zero) e i due conquistatori, Achille Compagnoni e Lino Lacedelli. Direi che ormai basta, non se ne può più. Anche perché chi ci ha rimesso veramente (reso invalido dalle numerose amputazioni per congelamento) era stato sicuramente l’hunza Amir Mahdi. E qui qualche responsabilità – pare l’avesse spinto a continuare anche quando l’hunza avrebbe voluto ridiscendere – forse ce l’aveva anche il peraltro ottimo (se confrontato ad altri alpinisti del secolo scorso) Walter.

Insomma, poco o niente da aggiungere a quanto avevo già scritto. Per cui – pigramente, fa caldo e per ragioni ambientaliste non ho il condizionatore – rinvio a qualche articolo precedente.

vedi https://rivistaetnie.com/alpinismo-troppi-incivili-116678/; v. https://rivistaetnie.com/alpinismo-pakistan-136126/; v. https://rivistaetnie.com/ancora-su-alpinismo-colonialismo-132341/; v. https://rivistaetnie.com/montagna-rifiuti-116659/v.https://www.osservatoriorepressione.info/ancora-vittima-della-prosecuzione-del-colonialismo-altri-mezzi/; v. https://rivistaetnie.com/scalatori-stato-canaglia-pakistan-118361/…).

Gianni Sartori