#Kurdistan #Repressione – SDEGNO E RIPROVAZIONE IN BASHUR PER IL DUPLICE L’ASSASSINIO DELLE GIORNALISTE CURDE HERO BAHADEN E GULISTAN TARA – di Gianni Sartori

Le operazioni dell’esercito e dell’aviazione turchi nel Kurdistan del Sud (Bashur, in territorio iracheno) mietono vittime sia tra i civili che tra i lavoratori dell’informazione. Per il recente duplice assassinio di due giornaliste curde si sono levate le proteste di associazioni e partiti, ma solo a livello locale. L’opinione pubblica internazionale seguita a volgere il capo altrove.

L’assassinio (il 23 agosto) per opera di un drone turco delle giornaliste curde Hero Bahaden (originaria di Batman, Bakur) e Gülistan Tara (nata a Sulaymaniyya) e il ferimento di altri sei giornalisti (tra cui molto gravemente Rêbîn Beki, supervisore di Chatr Production, ugualmente originario di Sulaymaniyya) a Said Sadiq (distretto di Seyidsadiq, non lontano da Sulaymaniyya- Silêmanî, nel Kurdistan iracheno) ha suscitato critiche e condanne da più parti: partiti politici, sindacati, associazioni…

Kemal Heme Reza (direttore di Chatr Production) ha dichiarato in conferenza stampa che a suo avviso “l’attacco è stato facilitato da un intervento locale e dai servizi di intelligence”. Ma soprattutto ha escluso quanto insinuavano alcuni media ossia che le due giornaliste fossero affiliate al PKK. Affermando con decisione che “tutti coloro che sono stati martirizzati e feriti in questo attacco sono giornalisti, senza alcun legame politico”.

Ricapitoliamo. Il 23 agosto un drone aveva bombardato (possiamo definirlo un attentato ?) un veicolo di Chatr Production mentre i giornalisti stavano realizzando un programma televisivo.

Niente di nuovo naturalmente. Da tempo nel Kurdistan del Sud (Bashur, in territorio iracheno) è in atto da parte di Ankara una campagna di attacchi con droni. Ufficialmente rivolti a presunti obiettivi legati al PKK.

Nel 2023 sono stati almeno 110, spesso con conseguenze mortali tra la popolazione e nella quasi totale indifferenza dell’opinione pubblica internazionale.

In un comunicato di IHD (Associazione dei Diritti Umani) si legge che “i lavoratori dei mezzi di comunicazione curdi continuano a rappresentare un obiettivo per le bombe turche”.

Definendo l’episodio “un massacro” e paragonandolo a quanto avveniva negli anni novanta quando “si cercava di farli tacere con gli arresti e con gli attacchi alle sedi dei giornali”.

Per cui IHD chiede “al governo iracheno, alla repubblica di Turchia e al governo regionale del Kurdistan di assumersi le proprie responsabilità portando gli assassini davanti alla giustizia”: Richiesta condivisibile, ma alquanto improbabile direi.

Un duro monito anche da parte dell’Assemblea delle Donne del Partito per l’Uguaglianza e la democrazia dei popoli (Partito DEM). L’attacco viene definito “deliberato e organizzato”, non certo un incidente. “Colpendo le donne giornaliste che denunciano gli attacchi contro il popolo curdo – hanno scritto – si vuole coprire i crimini di guerra commesse nella Regione Federale del Kurdistan. Obiettivo di tali azioni è quello di rafforzare la politica di annessione e occupazione”.

Ricordando alcuni precedenti come l’assassinio (da parte delle milizie filoturche) della giornalista Nagihan Akarsel a Sulaymaniyah. Concludendo che “i poteri imperiali e le strutture paramilitari che stanno dietro a tale attentato non potranno intimidire la lotta del popolo curdo, delle donne e nemmeno delle giornaliste”.

I responsabili “verranno smascherati e dovranno renderne conto”. Così come per le ricorrenti uccisioni di civili.

Significativo poi l’intervento di Ethem Barzani, uomo politico legato al clan Barzani (per ragioni di parentela) ma indipendente rispetto al PDK.

Convinto che “il martirio delle due giornaliste sia un crimine internazionale, contrario a tutte le norme e leggi relative ai diritti umani. Una violazione dei diritti dei cittadini e dei giornalisti”. Manifestando poi rammarico per le vicende del suo paese ”bombardato e occupato quotidianamente, dove dei bambini disarmati vengono martirizzati in un modo lontano da ogni logica umana”. Appellandosi quindi alla Comunità internazionale affinché “metta fine a queste violazioni che rappresentano una seria minaccia per la vita dei civili”.

Gianni Sartori

#Kurdistan #News – AFRIN: COME CALPESTARE I DIRITTI DEI CURDI IN NOME DEI PALESTINESI – di Gianni Sartori

In nome di una malintesa solidarietà con i palestinesi di Gaza, i mercenari filoturchi impongono ulteriori balzelli alla popolazione nei territori occupati della Siria. Meno gradito – pare – l’invio nel nord dell’Iraq contro i curdi del PKK

Sinceramente bisognerà inventarsi qualcos’altro. Ormai dell’autodeterminazione dei popoli rimane ben poco. Usata (e gettata) in base all’opportunità (a geometria variabile), strumentalizzata, sostanzialmente tradita.

L’ultimo esempio in ordine di tempo, una “imposta per Gaza” ideata dalla “Liwa Sultan Suleiman Shah” (Brigata Sultan Suleiman Shah) nel distretto di Mobata (cantone curdo di Afrin sotto occupazione turca dal marzo 2018).

Tale brigata, fondata nel 2016 e affiliata all’Esercito Siriano Libero, è costituita principalmente da combattenti turcomanni siriani (ma pare sotto il comando di ufficiali turchi). Già nota per essere stata impiegata da Ankara (nel quadro del progetto di espansione turco) in Siria (in particolare contro i curdi), contro gli armeni (v. Alto Karabakh, a fianco degli azeri), e anche in Libia (v. la “Battaglia di Tripoli”).

E’ probabile che appartengano a tale formazione la maggior parte dei circa 550 mercenari inviati nel Kurdistan del Sud (Bashur, in territorio iracheno) – in base ai recenti accordi intercorsi tra Ankara e Baghdad – per combattere la guerriglia curda (v. quanto segnalava l’Osservatorio siriano dei diritti dell’Uomo – OSDH).

Del “corpo di spedizione” filoturco farebbero parte, oltre a quelli della Brigata Sultan Suleiman Shah, anche miliziani provenienti da altre formazioni paramilitari come Sultan Murad. A quanto si dice la partecipazione a tale spedizione non sarebbe entusiastica. Tanto che si è dovuto ricorrere ad arruolamenti forzati.

La notizia del nuovo balzello è filtrata solo recentemente e ovviamente richiederebbe ulteriori accertamenti. Ma quello che è dato per certo da fonti locali è che le milizie mercenarie della Divisione del Sultano Suleiman Shah (al-Amshat), in stretta collaborazione con il mukhtar del distretto e con qualche esponente del cosiddetto “consiglio locale”, costituito da miliziani filoturchi (tra cui Aref Mohammad Ali Bilal, nome di battaglia “Aref orecchio mozzato”), hanno imposto il versamento – entro 24 ore – di 100 dollari statunitensi per ogni abitazione del distretto. Ufficialmente per “sostenere i palestinesi di Gaza”. Chiunque osasse rifiutarsi di subire supinamente l’estorsione, verrebbe sottoposto (stando a quanto viene diffuso con un minaccioso messaggio audio di Aref Mohamed Ali Bilal) alle “peggiori forme di tortura fisica e psicologica”.

Sempre stando a quanto sostengono le fonti locali, in questi giorni si va intensificando e inasprendo il controllo degli abitanti da parte delle milizie di al-Amshat. Con verifiche dell’identità dei cittadini in base alle liste in mano dei mercenari. E chiunque non paga le imposte arbitrariamente stabilite rischia di venir sequestrato in modo da costringere i familiari a pagarne il riscatto.

Particolarmente disgustoso che tutto questo avvenga (sotto la supervisione turca ovviamente) in nome del popolo palestinese. Un popolo oppresso e calpestato così come quello curdo (anche se da governi contrapposti). Un modo per allargare ulteriormente (vedi in precedenza i rifugiati palestinesi insediati nei territori curdi del nord della Siria attualmente sotto occupazione turca) la frattura tra le due popolazioni, in passato unite dalla comune lotta internazionalista e antimperialista.

Del resto non questa la prima tassazione arbitraria imposta dalle milizie mercenarie nei distretti di Shehra e Mobata: 500 lire turche per ogni albero di noce, 300 dollari statunitensi per ogni pozzo artesiano, 200 dollari statunitensi per ogni negozio.

Gianni Sartori

#Azerbaijan #Repressione – ANCORA BRUTTE NOTIZIE PER LA LIBERTA’ DI STAMPA – di Gianni Sartori

Un breve ripasso.

Nel febbraio di quest’anno M. Aliyev veniva rieletto presidente (al quinto mandato) con il 92%dei voti. Elezioni boicottate da gran parte dell’opposizione (come protesta per la detenzione di molti dissidenti) e in cui gli osservatori internazionali avevano riscontrato numerosi brogli. Inoltre durante il 2023, in vista delle elezioni, erano aumentati gli arresti di oppositori. Tanto che il numero dei prigionieri politici era velocemente passato da 80 a 253. O almeno questo era quanto denunciava nel dicembre 2023 l’Azərbaycan Siyasi Məhbusların Azadlığı Uğrunda İttifaq (Unione per la Liberazione dei prigionieri Politici dell’Azerbaijan). E la situazione non doveva aver subito miglioramenti con le elezioni se nel marzo 2024 i prigionieri politici risultavano essere 288. Tra i casi più celebri, quello dell’economista M. Ibadoghlu, presidente di Azərbaycan Demokratiya və Rifah Partiyası (Partito per la Democrazia e il Benessere dell’Azerbaijan). Accusato di “stampa, acquisto o vendita di denaro falso” e di “sostegno all’estremismo religioso”.

Detenuto in attesa di giudizio ormai da oltre un anno nonostante versi in gravi condizioni di salute (soffre di diabete, di problemi cardiovascolari…) senza poter accedere a cure adeguate.

Oltre all’opposizione politica, sono stati colpiti soprattutto i giornalisti investigativi.

Nel novembre 2023, con l’accusa di “complotto per introdurre illegalmente denaro nel paese”, venivano arrestati Sevinc Vaqifqizi e Ulvi Hasanli. Per Natalia Nozadze di Amnesty International Ulvi Hasanli, direttore del giornale indipendente online Abzas Media, aveva “coraggiosamente denunciato la corruzione presente nelle alte sfere del potere in Azerbaijan”.

In carcere il giornalista sarebbe stato picchiato e sottoposto a maltrattamenti.

Con ritorsioni ingiustificate anche sui familiari. Alla madre veniva impedito di prelevare la pensione (unica sua fonte di sostentamento) mentre i conti bancari di altri parenti e amici erano stati bloccati.

Per la Federazione Europea dei Giornalisti (FEJ) i giornalisti sono stati arrestati (oltre una ventina attualmente) mentre svolgevano il loro lavoro di reporter. Aggiungendo che il regime attuale “non tollera alcuna opposizione e reprime il giornalismo indipendente”. Soprattutto ora, in vista della COP29 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) che verrà ospitata dal paese in novembre. A tale proposito la FEJ si è rivolta al segretariato della CCNUCC (Convenzione-quadro delle Nazioni unite sui cambiamenti climatici) affinché vigili sul rispetto dei diritti umani da parte di tutti i paesi partecipanti (e soprattutto di quello ospitante ovviamente). Affinché ai giornalisti sia garantito di poter svolgere il loro lavoro in libertà. Intervenendo poi sia per la scarcerazione di sei giornalisti che lavoravano per Abzas Media, sia per altri 17 giornalisti detenuti.

Ma purtroppo la cooperazione internazionale agisce anche in senso opposto, collaborando di fatto nell’opera di repressione della libertà di stampa. Il 3 agosto 2024 il giornalista azerbaigiano Afgan Sadikhov, redattore capo del sito di informazione AzelTV (autore di inchieste sul dirottamento di fondi pubblici in Azerbaijan) veniva arrestato a Tbilisi, sulla porta di casa, dalla polizia georgiana. Sulla base di una richiesta di estradizione del Tribunale generale dell’Azerbaijan che lo accusa di “minacce e di estorsione”. Il giornalista si era rifugiato in Georgia con la famiglia nel 2023 per sfuggire alle continue persecuzioni.

Le accuse nei suoi confronti, stando alle dichiarazioni dell’avvocato di Sadikhov, sarebbero del tutto infondate e costruite ad arte per zittire un giornalista scomodo.

A causa delle sue inchieste ha già subito numerosi arresti a scopo intimidatorio.

Ancora nel 2020 era stato condannato a sette anni di carcere (poi ridotti a quattro), torrnando in libertà nel maggio 2022 per un’amnistia. Recentemente (in luglio) la polizia georgiana aveva già impedito a lui e alla sua famiglia di imbarcarsi per la Turchia all’aeroporto internazionale di Tbilisi. Sia la FEJ che la IAGJ (Associazione indipendente dei giornalisti georgiani), così come Amnesty International, hanno rivolto un appello alle autorità georgiane affinché il dissidente non venga estradato.

Comunque quello dell’Azerbaijan rimane un quadro generale di ordinaria, abituale repressione. Non solo della stampa e dell’opposzione politica in senso stretto, ma anche dei movimenti. Con particolare veemenza contro quelli delle donne,

Qualche mese fa era circolata su X una foto della femminista azerbaigiana Alex Shah risalente all’8 marzo di una ventina di attiviste “sotto alta sorveglianza”.

Circondate da poliziotti mascherati, riprese e fotografate mentre protestavano contro i femminicidi.Una rarità di questi tempi. Una delle poche contestazioni tollerate nei tempi recenti. Almeno da quando Ilham Aliyev ha “ereditato” dal padre Heydar Aliyev il controllo di questo paese con 10 milioni di abitanti e ricco di idrocarburi.

Nel frattempo, in neanche 20 anni, l’Azerbaijan non ha mai smesso di venir retrocesso nelle liste che verificano il livello del rispetto dei diritti umani e della libertà di stampa.

Arrivando a far concorrenza a paesi notoriamente dediti alla repressione e con vocazioni totalitarie: Iran, Birmania, Corea del Nord…

Mantenendo comunque buoni rapporti con gli Stati Uniti e ottimi – ca va sans dire – con la Turchia. In significativo aumento poi le consegne di gas naturale (vedi accordi del 2022) all’Europa in generale e all’Italia in particolare. Un solido partenariato che vede nel nostro paese il punto di approdo del Corridoio Meridionale del gas. Dalla South Caucasus Pipeline (SCP) prosegue nella Trans Anatolian Pipeline (TANAP, in territorio turco), transita per Grecia e Albania per approdare in Puglia. Previsto entro il 2027 un ulteriore incremento (il raddoppio) per arrivare ai 20 miliardi di metri cubi all’anno. E per i giornalisti incarcerati? Pazienza, vedremo di farcene una ragione.

Gianni Sartori

#Asia #Cambogia – TRA REPRESSIONE E DEVASTAZIONE AMBIENTALE IN NOME DELLO “SVILUPPO” – di Gianni Sartori

Inevitabilmente da qualche parte si griderà all’ennesima “rivoluzione colorata”. Anche se in questa circostanza appare piuttosto monocromatica. “Verde” per la precisione.

Comunque va preso atto che la manifestazione convocata per il 18 agosto dall’opposizione in esilio è sostanzialmente fallita. Phnon Penh blindata e decine di nuovi arresti, tra cui alcuni esponenti della KLSA (Khmer Student League Association), nei giorni immediatamente precedenti avevano evidentemente scoraggiato i dissidenti.

Stavolta la questione riguardava la CLV (Cambodia-Laos-Vietnam Triangle Development Area), la zona economica speciale pianificata ormai da vent’anni.

Il mese scorso fa era stato diffuso un breve video realizzato da tre attivisti (Srun Srorn, Peng Sophea e San Sith) che denunciavano l’ambizioso progetto in quanto foriero di nuove spoliazioni di terre, deforestazioni e anche di una possibile perdita dell’integrità territoriale a favore del Vietnam.

Immediata la reazione del presidente del Senato Hun Sen (ricordo che l’anno scorso aveva poco elegantemente “ceduto” la guida del governo al figlio Hun Sen) che direttamente dagli schemi televisivi ne aveva preannunciato l’immediato arresto. Minacciando quei cittadini che avessero avuto l’intenzione di scendere in strada per protestare.

Con la CLV, almeno ufficialmente, si vorrebbe incrementare lo sviluppo economico e il commercio tra le province di confine in Vietnam (cinque), Laos (quattro) e Cambogia (quattro: Ratanakiri, Kratie, Mondulkiri e Stung Treng) consentendo il libero flusso di persone, merci e investimenti.

Ma evidentemente in Cambogia c’è ancora chi diffida temendo che le concessioni (pluridecennaIi) su vasti terreni attualmente agricoli divengano di fatto proprietà di investitoti stranieri sottraendole al controllo del Paese.

Per i leader dell’opposizione in esilio il progetto non sarebbe altro che una copertura per consentire “devastanti deforestazioni illegali, allontanamento forzato delle popolazioni dalle terre in cui vivono e soprattutto sfruttamento intensivo delle risorse naturali”. Forse non lo dicono esplicitamente, ma par di capire che lo si considera una forma di colonizzazione vera e propria.

Per analogia vien da pensare a quanto avveniva il mese scorso (2 luglio) quando dieci militanti di un collettivo ambientalista cambogiano (Mother Nature Cambodia) venivano condannati a pene carcerarie varianti dai sei agli otto anni.

Accusandoli di “complotto” e di “insulti alla corona” (lesa maestà).

La loro colpa, aver denunciato nel 2021 il versamento di rifiuti tossici nel fiume Tonie proprio di fronte al Palazzo reale di Phnom Penh.

Per mettere in guardia sui gravi problemi ambientali della Cambogia, dove il nome dello “sviluppo” (o piuttosto dei profitti dei privati), si sacrifica l’ambiente, i giovani ambientalisti del collettivo incriminato avevano realizzato diversi video di denuncia*.

Diffondendoli poi nelle reti sociali. In particolare sull’inquinamento del Mekong e sui danni prodotti dal dragaggio della sabbia nella provincia di Koh Kong. Ricevendo, sempre nel 2021, il prestigioso premio svedese Right Livelihood Award. Le condanne nei loro confronti sono state stigmatizzate sia da Amnesty International che dal portavoce delle Nazioni Unite per i diritti umani.

Anche perché non è certo il primo caso di repressione ingiustificata del dissenso. Visto che la Cambogia si colloca al 151° posto su 180 in materia di libertà di stampa. Tra il 2021 e il 2022 altri tre ambientalisti (Thun Ratha, Long Kunthea e Phuon Keoraksmey) avevano trascorso oltre un anno di carcere per “turbamento dell’ordine pubblico” avendo organizzato una marcia pacifica contro il riempimento di un lago.

Gianni Sartori

* nota 1: https://rivistaetnie.com/gravi-problemi-ambientali-della-cambogia-136369/

#Kurds #Opinioni – I NUOVI ACCORDI TRA ANKARA E BAGHDAD SULLA PELLE DEI CURDI – di Gianni Sartori

Se il “buon giorno si giudica da mattino” in Iraq stiamo freschi. Con i recenti accordi intercorsi tra governi turco e iracheno, le truppe di Ankara potrebbero presto entrare anche a Baghdad.

Presentandoli come un passo avanti per la sicurezza (“avanzamento significativo nei rapporti bilaterali”) e contro il terrorismo (un riferimento neanche tanto velato al PKK), i ministri degli Esteri dei due paesi non parlavano certo a vanvera.

Infatti ora gli accordi cominciano a dare i loro frutti.

Le nuove relazioni tra Ankara e Bagdad (il “progetto del percorso di sviluppo” basato sul “Memorandum di accordo”) non sono rimaste a livello di semplici dichiarazioni o di intenti. Si vanno sviluppando soprattutto in ambito militare pianificando l’apertura di vari fronti. In particolare contro il movimento curdo, aprendo la strada all’invio di soldati turchi, già presenti e operativi nel nord dell’Iraq (Kurdistan del Sud, Bashur) anche a Baghdad. Legittimando non solo il dispiegamento di truppe turche in Iraq, ma anche ulteriori evacuazioni forzate delle popolazioni nei villaggi del nord del paese. Per qualche osservatore particolarmente critico si starebbe “legittimando una vera e propria politica di annessione territoriale”.

A rendere di pubblico dominio tali accordi, il ministro degli esteri iracheno, l’esponente del PDK Fuad Hussein. Con cui il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, aveva recentemente emesso un comunicato congiunto esprimendo “profonda preoccupazione per l’aumento della tensione in Medio Oriente, che minaccia l’intera regione”.

Ma si riferivano alla Palestina. Pare proprio che l’aggressiva politica anti-curda di Erdogan, l’escalation degli attacchi (centinaia, sia aerei che di terra) al di fuori dei confini turchi non preoccupi più di tanto i nostri politici.

Già in atto la realizzazione di un Centro congiunto di coordinamento della sicurezza a Bagdad e di un Centro congiunto di addestramento e cooperazione a Bashiqa. Nel nord, dove i turchi erano già insediati, ma ora formalmente affidata a Baghdad (“l’onere ricadrà sulle forze armate irachene”) forse per non esporsi a ulteriori attacchi sciiti.

Appare evidente che è stata avviata una nuova fase di iniziative congiunte – a livello sia diplomatico che militare – sulla questione curda. Con un preciso cambio di prospettiva da parte del governo iracheno che in precedenza aveva definito le operazioni militari turche in territorio iracheno “violazione territoriale e della propria sovranità”. Del resto già in marzo aveva classificato come “organizzazione vietata” il PKK. Andando incontro, ma non completamente, alle richieste di Erdogan che avrebbe voluto venisse definita “terrorista” tout court.

In base poi ad un altro articolo (il 5°) dell’accordo si è stabilito che “le due parti condividano informazioni di intelligence”. Nel complesso si ha l’impressione che si voglia far rientrare (direi forzatamente) nell’ambito del Diritto internazionale sia il trasferimento di soldati turchi (con la realizzazioni di basi militari nel Kurdistan del Sud, all’interno dei confini iracheni), sia l’evacuazione forzata (deportazione?) delle popolazioni (per non parlare delle devastazioni ambientali, dell’uso di armi interdette dalla Convenzione di Ginevra…).

Il ministro degli esteri turco, Hakan Fidan, aveva così commentato: “Attraverso i centri di coordinamento e addestramento congiunti previsti dall’accordo, crediamo di poter portare la nostra cooperazione a un livello superiore. Vogliamo far progredire l’intesa che stiamo sviluppando con l’Iraq sull’antiterrorismo con passi concreti sul campo”.

Alle riunioni delle “operazioni congiunte” avrebbero preso parte, oltre ai rispettivi ministri degli esteri (Hakan Fidan e Fuad Hüseyin), anche funzionari di alto livello dei servizi segreti turchi (il sottosegretario del MIT, Ibrahim Kalın), il ministro degli esteri della regione “autonoma” del Kurdistan (Rêber Ehmed), il ministro iracheno della Difesa (Sabit Abbasi) e alcuni esponenti dei Servizi iracheni (Waqqas Muhammed Hüseyin al-Hadith).

Non si esclude che in futuro Erdogan intenda applicare lo stesso modello (qualora risultasse vincente) anche nel Nord della Siria.

Gianni Sartori