#Americhe #Comunità – MESSICO: L’ASSOLUZIONE DI MIGUEL LOPEZ VEGA, ANCHE GRAZIE ALL’IMPEGNO DI AMNESTY INTERNATIONAL – di Gianni Sartori

fonte immagine Agencia Enfoque

Ogni tanto una buona notizia (anche se arriva in ritardo).

Miguel Lopez Vega, rappresentante della comunità nativa Nahuatl ( nel comune di Juan Crisostomo Bonilla, regione di Cholula) veniva arrestato il 24 gennaio 2020.

Il 24 febbraio 2024 è stato finalmente assolto da ogni accusa (tre per la precisione) per aver partecipato, il 30 ottobre 2019, a una protesta pacifica contro la costruzione di un sistema di scaricamento delle acque delle industrie tessili di Huejotzingo. Impianto che avrebbe inquinato il Río Metlapanapa (Stato di Oaxaca, Messico). 

Edith Olivares, esponente del direttivo di Amnesty International in Messico, aveva denunciato che nel Paese “si utilizza il sistema penale per disinnescare le proteste”. In altri termini “per criminalizzare il dissenso”. In particolare nei confronti di chi difende la Terra, il territorio, l’ambiente naturale.

Vicenda analoga quella di un altro indigeno nahua, Alejandro Torres Chocolatl della comunità di Santa María Zacatepec. Veniva ugualmente arrestato (ma successivamente, nel 2023) per una presunta interruzione stradale avvenuta durante la stessa manifestazione del 30 ottobre 2019).

Anche Alejandro aveva ripetutamente denunciato che nella regione di Cholula de Los Volcanes, notoriamente ricca di risorse naturali, si stavano avviando numerosi “progetti di morte” (di natura sia industriale che estrattivista). Mentre contemporaneamente “si generavano conflitti (artificiosamente nda), si criminalizzava il dissenso, tentando di dividere il popolo e di comprare le coscienze”. E quando ciò non bastava “si pianificavano autentici delitti”. Ovviamente per attribuirne poi la responsabilità agli ambientalisti. Situazione che si era esasperata in vista delle elezioni. 

Gianni Sartori

#IncontriSulWeb – #SPECIALE – PERCORSI DI INDIPENDENZA IN EUROPA 2024 – LA PRESENTAZIONE

Incontriamo il giovane militante del movimento indipendentista siciliano “Trinacria” Antony Graziano per presentare la Conferenza internazionale che avrà luogo a Palermo il giorno 22 marzo prossimo, organizzata dallo stesso movimento, sotto l’egida della Fondazione Coppieters e con la collaborazione di Centro Studi Dialogo.

#Kurds #Opinioni – CARTOLINE DALLA TURCHIA E DAL KURDISTAN – di Gianni Sartori

Premessa. Giorni fa si discuteva amabilmente delle “derive” in cui si sono talvolta inoltrati e impantanati alcuni movimenti di liberazione (anche tra i migliori). Se non al completo, almeno qualche frazione o fazione. Magari scadendo nel terrorismo et similia o nel “collaborazionismo”. Del resto lo sapeva – e lo diceva – Buenaventura Durruti: “Alla guerra si diventa sciacalli”. Nel senso che quando un conflitto va troppo per le lunghe degenera. E con il conflitto talvolta anche combattenti e militanti. Concetto analogo venne espresso da Mandela quando (pensando anche all’operato della moglie) dichiarò pubblicamente che “non sempre nella lotta condotta dall’ANC era emersa la parte migliore”.

Per cui uno si chiede: fino a quando ‘sti benedetti curdi potranno resistere salvaguardando quel senso di umanità che ha finora caratterizzato la loro lotta di liberazione? Qual’è il punto di rottura in cui un oppresso, una vittima rischia di trasformarsi a sua volte in carnefice?

Gli esempi si sprecano. Per esempio vien da chiedersi come sia possibile che gli israeliani (i quali in quanto Ebrei hanno subito quanto di peggio un popolo potesse subire) abbiano potuto utilizzare contro i palestinesi (quasi fossero stati loro a sterminarli nel secolo scorso) metodi che definire “massacri indiscriminati” (se genocidio vi pare troppo…) è un eufemismo.

Diciamo che i curdi hanno un vantaggio, anzi due. Un pensiero collettivo, un’organizzazione consolidata (il PKK) e un programma politico lungimirante (quello del Confederalismo democratico) che in parte dovrebbero tutelarli. 

E soprattutto la fondamentale, strutturale presenza attiva delle donne nel movimento di liberazione. Più resistenti, più consapevoli, più vitali (nel senso di legate, vicine alla Vita), in quanto sopravvissute ad almeno diecimila anni di colonizzazione (e tentativi di addomesticamento).

E’ di questi giorni il comunicato con cui il movimento turco “1000 giovani per la Palestina” (sorto dopo l’inizio delle operazioni militari contro la Striscia di Gaza) denuncia l’invio quotidiano di 44mila barili di petrolio in Israele. Esigendo nel contempo la sospensione del “commercio con l’occupante” della società SOCAR (State Oil Company of Azerbaijan Republic, in azero Azərbaycan Respublikası Dövlət Neft Şirkəti).

Accusando implicitamente di ipocrisia il regime turco (e il presidente Erdogan in particolare) che ufficialmente si erge a campione dei palestinesi massacrati a Gaza.

In una recente manifestazione davanti alla sede turca della SOCAR a Sarıyer, avevano esposto un grandestriscione con la scritta:  “Il più grande investitore straniero in Turchia, la SOCAR, alimenta il genocidio di Israele! – SOCAR deve porre fine al commercio con l’occupante”.

Tra gli slogan più scanditi:  ”Chiudere i rubinetti, porre fine al commercio”;  e anche: ”L’Azerbaijan vende, la Turchia trasporta”.

Sempre nel comunicato si sostiene che il 60% del fabbisogno petrolifero di Israele viene fornito dall’Azerbaijan e dal Kazakistan, trasportato verso la Turchia dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. E da qui spedito in Israele con le petroliere. 

Questo per le forniture del greggio, mentre Israele usufruisce anche della raffineria STAR, proprietà sempre della SOCAR.

Per questo i “100 giovani per la Palestina” si oppongono e chiedono la sospensione di tale commercio.

Prese di posizione senz’altro comprensibili e anche meritevoli (come ogni sincera manifestazione di solidarietà internazionale con gli oppressi). 

Tuttavia qualche osservatore non ha mancato di evidenziare almeno una contraddizione (se non proprio un’altra piccola ipocrisia). Chiedendosi “come mai la colonizzazione della Palestina è “haram” (proibito dalla Sharia) mentre quella del Kurdistan è “halal” (permesso dalla Sharia)?

Forse perché nel caso della Palestina lo stato colonialista non è musulmano, mentre lo sono gli stati arabi, turchi e persiano che occupano il Kurdistan?

Se posso dire la mia (e sorvolando sulla recente collaborazione militare tra Turchia e Azerbaijan contro la povera Armenia) forse la cosa non è così semplice, consequenziale. Sia perché anche molti curdi sono musulmani, sia perché non mancano in Turchia, Siria e Iran popolazioni seguaci o di altre religioni o comunque di correnti riformatrici rispetto all’ortodossia sunnita (v. gli aleviti, con forti influenze umanistiche, direi progressiste) o sciita (v. gli alauiti – ʿalawī).

Resta il fatto comunque che sulla questione curda, anche tra i ranghi dell’opposizione progressista turca, non sempre si percepisce la medesima sensibilità espressa per la Palestina.

Come dire: “contraddizioni in seno ai popoli” di cui dovrebbe farsi carico in primis la sinistra turca.

Sinistra turca che in altre occasioni si era posta all’altezza della situazione. Come nelle manifestazioni antigovernative del 2013 (rivolta di Gezi Park contro l’abbattimento di 600 alberi a Istanbul) quando venne ucciso con una granata lacrimogena il quattordicenne curdo alevita Berkin Elvan (uscito da casa per comprare il pane). Colpito alla testa il 16 marzo 2013 – e rimasto in coma per 269 giorni – era deceduto l’11 marzo 2014 (quando ormai pesava solo 16 – sedici ! – chili).

A dieci anni dalla sua morte il caso rimane insabbiato. Come ha nuovamente denunciato la madre del ragazzo, Gülsüm Elvan, durante la commemorazione nel cimitero di Şişli Feriköy. 

Per poi aggiungere: “Mi rivolgo agli assassini: ricordatevi del mio bambino ogni volta che abbracciate il vostro”. 

Da parte sua Erdogan aveva pubblicamente accusato Berkin Elvan di “terrorismo” in quanto avrebbe avuto il volto coperto con una sciarpa (comprensibile dato l’utilizzo su scala industriale di gas lacrimogeni).

L’anno scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la Turchia aveva violato il diritto alla vita di Berkin Elvan e che non era stata condotta un’inchiesta efficace per stabilire le possibili responsabilità governative.

Finora soltanto un agente (Fatih Dalgalı) è stato riconosciuto colpevole. In compenso l’avvocato della famiglia Elvan, Can Atalay, nonostante l’anno scorso sia stato eletto al Parlamento, rimane in galera.  

Gianni Sartori

#Asia #Popoli – INDIA, PAESE IMMENSO TRA MILLE CONTRADDIZIONI – di Gianni Sartori

Tra discutibili detenzioni di dissidenti, tardive rimesse in libertà e attacchi alle politiche protezionistiche della fauna selvatica.

Cominciamo con la notizia dell’avvenuta liberazione, il 7 marzo ,del professore di inglese dell’Università di Delhi Gokarakonda Naga Saibaba. Rinchiuso nel carcere di Nagpur dal 2017, ne è finalmente uscito dopo che l’Alta Corte di Bombay ha annullato la precedente condanna. Ritenendo evidentemente inconsistenti (“non motivate”) le accuse nei suoi confronti di “cospirazione” per i presunti legami con il Partito comunista dell’India-maoista (clandestino). Condannato da un tribunale del distretto di Gadchiroli (Maharashtra), aveva già scontato due anni tra il 2014 e il 2016. Nuovamente uscito dal carcere, si diceva, ma in sedia a rotelle. A causa del suo stato di salute, peril momento non ha lasciato dichiarazioni ai giornalisti che lo attendevano fuori dalla prigione. Riservandosi di parlare soltanto dopo adeguati trattamenti sanitari. La sua vicenda detentiva risulta alquanto travagliata. Se non proprio un calvario, perlomeno un’odissea. Per esempio il 14 ottobre del 2022 l’Alta Corte di Bombay ne decretava il rilascio, ma nemmeno 24 ore dopo la Corte suprema sospendeva l’ordinanza. Rigettando anche la richiesta di arresti domiciliari per ragioni di salute (nonostante venisse qualificato come handicappato fisico al 90%, si muovesse in sedia a rotelle e avesse contratto per due volte il Covid-19). Insieme a lui nel 2017 erano state condannate all’ergastolo, in base alla legge sulla prevenzione delle attività illegali- (UAPA), altre cinque persone (tra cui Mahesh Tirki, Prashant Rahi, Hem Mishra e Pandu Narote, in seguito decedute durante la detenzione). Per protesta contro il rifiuto da parte della direzione del carcere di consentirgli di accedere a cure essenziali, il 21 ottobre 2020 Saibaba era entrato sciopero della fame. Contestando inoltre la proibizione di consultare libri e lettere dei familiari. Decretandone la rimessa in libertà, l’Alta Corte ha voluto specificare che alcuni documenti e dati elettronici dei condannati ne suggerivano al massimo la natura di semplici “simpatizzanti della filosofia maoista”.  Con buona pace digli altri imputati che nel frattempo hanno perso la vita dietro le sbarre.

Altra questione quella dell’intervento dell’arcivescovo maggiore siro-malabarese Raphael Thattil in merito al presunto aumento di “attacchi di animali selvatici” a causa dei quali alcune persone hanno perso la vita . Un vero e proprio atto d’accusa contro alcuni provvedimenti protezionistici governativi in quanto espressione di “un approccio al problema che non dà valore alla vita umana rispetto a quella animale”.  Senza peraltro specificare quando “l’attacco” provenisse inizialmente da cacciatori – o bracconieri che dir si voglia (pratica alquanto diffusa, in particolare ai danni di elefanti, rinoceronti e tigri). Tra i casi denunciati, due episodi accaduti il 5 marzo nel Kerala (rispettivamente a Thrissur e Kozhikode) dove una donna sarebbe morta calpestata da un grosso animale (si presume un elefante) mentre un uomo sarebbe deceduto dopo essere stato incornato da un grosso bovino (definito dalle agenzie un “bisonte”, ma probabilmente un bufalo). Il giorno prima un’altra donna veniva calpestata da un elefante a Kanjiraveli. Quasi contemporaneamente un branco di elefanti sarebbe entrato nell’abitazione di un responsabile della Athirappilly Plantation Corporation danneggiando la mobilia (addirittura!?!).  Altri episodi simili erano avvenuti nelle settimane precedenti a Wayanad, Idukki, Ernakulam e Thrissur.  Già in precedenza l’arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese Raphael Thattil aveva dichiarato che “ la perdita di vite umane a causa di attacchi di animali selvatici non può essere giustificata”. Definendo le politiche governative a tutela di tigri e di elefanti (in via di estinzione, ricordo) “una vergogna per lo Stato”. Chiedendo non meglio precisati “piani speciali per garantire la sicurezza delle persone che vivono nelle aree collinari del Kerala”. Stando ai dati a disposizione negli ultimi otto anni sarebbero circa 900 le persone che hanno perso la vita a causa degli animali selvatici. Senza però specificare quanti casi siano legati alla caccia, ossia alla razione difensiva dell’animale. La maggior parte dei casi sono localizzati in aree boschive o in prossimità di recenti insediamenti che vengono a invadere ulteriormente i residui territori meno antropizzati dove gli animali superstiti trovano rifugio. Per non parlare delle multinazionali, delle politiche estrattive etc che deturpano e degradano definitivamente le aree naturali. Tanto per fare un confronto nello stesso periodo in India si sono verificati oltre 900mila decessi per incidenti stradali. Calcolando una media di 110mila all’anno (ma nel 2022 erano stati 170mila e ben 212mila nel 2020). Anche se nella critica alla “colpevole” politica governativa di salvaguardia e protezione per la fauna selvatica colgo un sottinteso (la richiesta neanche tanto velata di sistematici abbattimenti preventivi), non intendo qui discutere la buona fede dell’arcivescovo e la sua sincera preoccupazione per la vita umana. Tantomeno riaprire una sterile contrapposizione tra “antropocentrico” e “antispecismo” (“animalismo”?). Dico soltanto che forse l’alto prelato dovrebbe prima interrogarsi – e preoccuparsi – su altre questioni che rendono incerta, precaria – talvolta indegna – la vita quotidiana della popolazione. Questioni legate allo sfruttamento, all’inquinamento, all’oppressione (vedi dalit e adivasi, ma non solo). O magari alla condizione femminile… Del resto, di che si preoccupa sua eminenza?

In India c’è già chi si impegna – fin troppo – in oggettiva sintonia con le sue richieste. Bande organizzate di bracconieri che imperversano sterminando quanto sopravvive nelle residue foreste indiane. Da qualche anno, per esempio, è in atto un’autentica strage di elefanti selvatici. Sia con le classiche fucilate, sia utilizzando recinti elettrificati in cui imprigionarli prima di abbatterli. Ancora peggiore poi la situazione del Rhinoceros unicornis. Non solamente per il bracconaggio, ma in quanto più sensibile ai cambiamenti climatici. Quanto alle tigri (di cui la caccia venne proibita in India nel 1972) ormai ne sopravvivono più in cattività che in libertà. In India (di fronte a oltre 1,4 miliardi di umani) circa tremila esemplari del maestoso felino (4500 sull’intero pianeta secondo il WWF). Teoricamente il doppio rispetto a quindici anni fa (grazie alle politiche governative di tutela), ma ben poca cosa se pensiamo che ancora un secolo fa (dopo le stragi di decine di migliaia dell’800) ne rimanevano ancora circa 100mila.* A determinarne il declino, oltre alla caccia, l’esponenziale perdita di habitat conseguenza dell’intensificarsi della deforestazione. Per l’estendersi di coltivazioni, infrastrutture, metropoli. Oltre alla generale, devastante espansione – metastasi ? -delle attività estrattive e industriali.

E’ questo il pianeta che vogliamo? Un mondo totalmente antropizzato dove a nessuna creatura sia ancora consentito vivere allo stato brado? Non è che semplicemente stiamo segando il ramo su cui siamo accovacciati?

Gianni Sartori

*Nota 1: Come scrivevo in “epoca non sospetta” (febbraio 2011):

“Confrontando una carta tematica sulla densità della popolazione in Indonesia (Le Monde diplomatique, novembre 2010) e una carta dell’Asia sulla diffusione della tigre (Ouest France, 28 novembre 2010), salta agli occhi un particolare inquietante. Delle tre sottospecie estinte, due vivevano in Indonesia.
La tigre di Giava è scomparsa da 30-40 anni, mentre quella di Bali, la più piccola delle tigri, circa 70 anni fa. Le due aree dell’Indonesia più abitate sono appunto le isole di Giava (su cui vive due terzi della popolazione del paese) e di Bali con oltre 500 abitanti per Kmq. Dove la densità è minore, come a Sumatra (da 30 a 100 per Kmq) e nel Borneo (diviso tra Indonesia e Malesia, meno di 30 per Kmq) qualche tigre riesce ancora a sopravvivere. A Sumatra ne rimangono in libertà circa 400 esemplari, mentre le tigri della Malesia (in realtà del Borneo) superstiti sarebbero tra 200 e 400. Altrove le cose non vanno meglio per il maestoso felino. Per esempio, nella regione del Grande Mekong gli esemplari di Panthera tigris sono circa 350. Dieci anni fa erano quattro volte di più.
Si calcola che agli inizi del 1900 vivessero in libertà più di 100mila esemplari. Oggi, dopo un secolo, arrivano a malapena a 3200. Un convegno internazionale ha riunito a San Pietroburgo, dal 21 al 24 novembre 2010, tredici nazioni che ancora ne ospitano: Russia, Thailandia, Vietnam, Bangladesh, Bhutan, Birmania, Cambogia, India, Cina, Laos, Indonesia, Nepal e Malesia. Qualche altro esemplare potrebbe sopravvivere nella fascia smilitarizzata tra le due Coree. La speranza del Global Tiger Recovery Program è di raddoppiare il numero delle tigri entro il 2022. Due le priorità: proteggere l’ambiente (ormai ridotto al 7% di quello originario ed estremamente frammentato) e combattere il bracconaggio. L’associazione Wildlife Conservation Society ha individuato 42 siti dove ancora l’animale si riproduce. La maggior parte in India, Sumatra e nell’Est della Russia. Una delle sei sottospecie, la tigre siberiana, negli anni sessanta era ridotta a 80-100 esemplari. Dopo il 1989 la situazione rischiava di precipitare. Alcune agenzie turistiche organizzavano battute di caccia dagli elicotteri per miliardari e ricchi mafiosi. Attualmente, grazie ad una severa politica protezionistica, le tigri siberiane in libertà sarebbero quasi 500. Chiamata anche “tigre dell’Amur” (dal nome del fiume presso cui vive), è il più grande felino esistente. Il maschio misura più di tre metri di lunghezza e pesa 300 kg. In Cina la tigre non sarebbe più stata avvistata da esperti e studiosi da almeno 30 anni. Si calcola che ne restino in circolazione meno di una cinquantina. Con ogni probabilità sarà la prossima a sparire.
Brutti pronostici anche per le tigri dell’India, vittime del 54% degli atti di bracconaggio per rifornire i consumatori cinesi della medicina tradizionale. Sviluppo industriale, costruzione di dighe e apertura di miniere hanno prodotto effetti devastanti. Le 40mila tigri ancora presenti nel 1947, si erano ridotte a 3700 nel 2002. Oggi in tutta l’India non sarebbero più di 1500. La tigre del Caspio è la terza sottospecie già estinta. Dal pelame chiaro (come la siberiana, ma più piccola), la più occidentale delle tigri è scomparsa versoio 1970. Per sempre.

Gianni Sartori (su “A, Rivista anarchica n. 359, febbraio 2011)

#Kurds #Solidarietà – Euskal Herria e Països Catalans non dimenticano i fratelli curdi – di Gianni Sartori

Magari non è proprio questione di “DNA”, ma rimane il fatto che alcuni popoli, da sempre oppressi e in lotta per l’autodeterminazione, percepiscono, sentono – quasi istintivamente direi – l’affinità con altri che versano nella medesima situazione. E’ questo il caso, direi scontato, dei baschi e dei catalani che mostrano ancora una volta di aver colto in pieno la portata planetaria di quanto i curdi, se pur tra tante difficoltà e forse anche qualche contraddizione, stanno realizzando nella Nazione senza Stato chiamata Kurdistan (in particolare modo in Rojava Bakur e Rojhilat…).

Cominciamo da Euskal Herria.

I senatori Josu Estarrona e Gorka Elejabarrieta, esponenti del partito della sinistra abertzale EH Bildu, hanno inoltrato una “pregunta parlamentaria” (con richiesta di risposta scritta) al Ministro spagnolo degli Affari Esteri. Sia in merito alla grave situazione tra Nazione curda e Stato turco, sia sulle prossime elezioni municipali. Ricordando come in precedenti tornate elettorali (vedi quelle presidenziali e legislative del 2023) “venivano arrestati 126 persone, tra attivisti, giornalisti e avvocati difensori di militanti curdi”. A seguito delle numerose denunce di irregolarità, l’Unione Europea aveva richiesto ad Ankara di affrontare seriamente la questione delle carenze (eufemismo ?) in campo elettorale. Inoltre il Ministero degli Esteri spagnolo aveva protestato vigorosamente per l’espulsione di una delegazione spagnola nei giorni immediatamente successivi a una denuncia dell’OCSE per la mancanza di imparzialità dei media filogovernativi. Gli esponenti baschi denunciano pure il “deterioramento dei diritti umani, in particolare la libertà di espressione, di riunione e di associazione” (come informa regolarmente Amnesty International).  Puntando poi il dito contro il diffuso clima di repressione. Ossia un incremento significativo di minacce, persecuzioni e processi con accuse (e relative condanne) spesso infondate, nei confronti dei dissidenti in generale e di quelli curdi in particolare. Citando anche le denunce di Reporter Senza Frontiere (RSF) per i numerosi giornalisti incarcerati con accuse false e pretestuose ed esprimendo preoccupazione soprattutto per la repressione a cui viene sottoposta la stampa curda. Ricordando come Human Rights Watch abbia denunciato un “uso ingiustificato delle leggi antiterrorismo”. Allo scopo evidente di mettere a tacere dissidenti e manifestanti.

Premesso questo, le domande al ministro:

1) “E’ consapevole il Governo delle intimidazioni e della strategia repressiva del Governo turco, contro attivisti, giornalisti e organismi politici democratici, in particolare nei confronti del popolo curdo?” 2) “L’Ufficio dei Diritti Umani del Ministero degli Esteri, Unione Europea e Cooperazione intende partecipare direttamente a una Missione di Osservazione Elettorale nelle prossime elezioni locali che si terranno Turchia il 31 marzo 2024?” 3) “E’ a conoscenza il Governo della partecipazione dell’UE, dell’OCSE o dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA), le principali organizzazioni internazionali in materia di missioni di osservazione elettorale, nelle prossime elezioni locali che si terranno in Turchia il 31 marzo 2024?”

Questo per i baschi.

Da parte dei catalani va registrata una significativa presa di posizione (espressa pubblicamente nel corso di un’intervista a Medya Haber TV) del presidente del CIEMEN (Centre Internacional Escarré per a les Minories Ètniques i les Nacions, fondato dall’indipendentista Aureli Argemì, attualmente presidente emerito) David Minoves. Il quale ha voluto richiamare l’attenzione sull’insostenibile isolamento a cui viene sottoposto il fondatore del PKK, imprigionato a Imrali dal 1999. Affermando che “la libertà di Abdullah Öcalan è fondamentale per una pace democratica e duratura nella regione”. In quanto “non è solo un leader del popolo curdo, ma un autentico leader globale” i cui diritti sono stati violati sistematicamente per 25 anni. L’impossibilità per Ocalan di vedere la propria famiglia e suoi avvocati, così come l’isolamento assoluto, costituiscono “uno sfregio illegale e disumano ai diritti umani universali”. Oltre che una politica antitetica alla pace e alla soluzione politica del conflitto. Ponendo in evidenza che “le idee del leader del popolo curdo, Abdullah Öcalan, possono unire nella democrazia culture e comunità differenti”  dato che il Confederalismo democratico “è un sistema che consente all’umanità di ritrovare la propria essenza e vivere nell’uguaglianza”. Così appunto come sta avvenendo nel nord e nell’est della Siria. Dove si può toccare con mano che ”le idee di Ocalan per una convivenza pacifica, egualitaria e libera sono idee realistiche e fattibili”.

Qui e ora, finché siamo ancora in tempo, vorrei aggiungere.

Gianni Sartori