Premessa. Giorni fa si discuteva amabilmente delle “derive” in cui si sono talvolta inoltrati e impantanati alcuni movimenti di liberazione (anche tra i migliori). Se non al completo, almeno qualche frazione o fazione. Magari scadendo nel terrorismo et similia o nel “collaborazionismo”. Del resto lo sapeva – e lo diceva – Buenaventura Durruti: “Alla guerra si diventa sciacalli”. Nel senso che quando un conflitto va troppo per le lunghe degenera. E con il conflitto talvolta anche combattenti e militanti. Concetto analogo venne espresso da Mandela quando (pensando anche all’operato della moglie) dichiarò pubblicamente che “non sempre nella lotta condotta dall’ANC era emersa la parte migliore”.
Per cui uno si chiede: fino a quando ‘sti benedetti curdi potranno resistere salvaguardando quel senso di umanità che ha finora caratterizzato la loro lotta di liberazione? Qual’è il punto di rottura in cui un oppresso, una vittima rischia di trasformarsi a sua volte in carnefice?
Gli esempi si sprecano. Per esempio vien da chiedersi come sia possibile che gli israeliani (i quali in quanto Ebrei hanno subito quanto di peggio un popolo potesse subire) abbiano potuto utilizzare contro i palestinesi (quasi fossero stati loro a sterminarli nel secolo scorso) metodi che definire “massacri indiscriminati” (se genocidio vi pare troppo…) è un eufemismo.
Diciamo che i curdi hanno un vantaggio, anzi due. Un pensiero collettivo, un’organizzazione consolidata (il PKK) e un programma politico lungimirante (quello del Confederalismo democratico) che in parte dovrebbero tutelarli.
E soprattutto la fondamentale, strutturale presenza attiva delle donne nel movimento di liberazione. Più resistenti, più consapevoli, più vitali (nel senso di legate, vicine alla Vita), in quanto sopravvissute ad almeno diecimila anni di colonizzazione (e tentativi di addomesticamento).
E’ di questi giorni il comunicato con cui il movimento turco “1000 giovani per la Palestina” (sorto dopo l’inizio delle operazioni militari contro la Striscia di Gaza) denuncia l’invio quotidiano di 44mila barili di petrolio in Israele. Esigendo nel contempo la sospensione del “commercio con l’occupante” della società SOCAR (State Oil Company of Azerbaijan Republic, in azero Azərbaycan Respublikası Dövlət Neft Şirkəti).
Accusando implicitamente di ipocrisia il regime turco (e il presidente Erdogan in particolare) che ufficialmente si erge a campione dei palestinesi massacrati a Gaza.
In una recente manifestazione davanti alla sede turca della SOCAR a Sarıyer, avevano esposto un grandestriscione con la scritta: “Il più grande investitore straniero in Turchia, la SOCAR, alimenta il genocidio di Israele! – SOCAR deve porre fine al commercio con l’occupante”.
Tra gli slogan più scanditi: ”Chiudere i rubinetti, porre fine al commercio”; e anche: ”L’Azerbaijan vende, la Turchia trasporta”.
Sempre nel comunicato si sostiene che il 60% del fabbisogno petrolifero di Israele viene fornito dall’Azerbaijan e dal Kazakistan, trasportato verso la Turchia dall’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. E da qui spedito in Israele con le petroliere.
Questo per le forniture del greggio, mentre Israele usufruisce anche della raffineria STAR, proprietà sempre della SOCAR.
Per questo i “100 giovani per la Palestina” si oppongono e chiedono la sospensione di tale commercio.
Prese di posizione senz’altro comprensibili e anche meritevoli (come ogni sincera manifestazione di solidarietà internazionale con gli oppressi).
Tuttavia qualche osservatore non ha mancato di evidenziare almeno una contraddizione (se non proprio un’altra piccola ipocrisia). Chiedendosi “come mai la colonizzazione della Palestina è “haram” (proibito dalla Sharia) mentre quella del Kurdistan è “halal” (permesso dalla Sharia)?
Forse perché nel caso della Palestina lo stato colonialista non è musulmano, mentre lo sono gli stati arabi, turchi e persiano che occupano il Kurdistan?
Se posso dire la mia (e sorvolando sulla recente collaborazione militare tra Turchia e Azerbaijan contro la povera Armenia) forse la cosa non è così semplice, consequenziale. Sia perché anche molti curdi sono musulmani, sia perché non mancano in Turchia, Siria e Iran popolazioni seguaci o di altre religioni o comunque di correnti riformatrici rispetto all’ortodossia sunnita (v. gli aleviti, con forti influenze umanistiche, direi progressiste) o sciita (v. gli alauiti – ʿalawī).
Resta il fatto comunque che sulla questione curda, anche tra i ranghi dell’opposizione progressista turca, non sempre si percepisce la medesima sensibilità espressa per la Palestina.
Come dire: “contraddizioni in seno ai popoli” di cui dovrebbe farsi carico in primis la sinistra turca.
Sinistra turca che in altre occasioni si era posta all’altezza della situazione. Come nelle manifestazioni antigovernative del 2013 (rivolta di Gezi Park contro l’abbattimento di 600 alberi a Istanbul) quando venne ucciso con una granata lacrimogena il quattordicenne curdo alevita Berkin Elvan (uscito da casa per comprare il pane). Colpito alla testa il 16 marzo 2013 – e rimasto in coma per 269 giorni – era deceduto l’11 marzo 2014 (quando ormai pesava solo 16 – sedici ! – chili).
A dieci anni dalla sua morte il caso rimane insabbiato. Come ha nuovamente denunciato la madre del ragazzo, Gülsüm Elvan, durante la commemorazione nel cimitero di Şişli Feriköy.
Per poi aggiungere: “Mi rivolgo agli assassini: ricordatevi del mio bambino ogni volta che abbracciate il vostro”.
Da parte sua Erdogan aveva pubblicamente accusato Berkin Elvan di “terrorismo” in quanto avrebbe avuto il volto coperto con una sciarpa (comprensibile dato l’utilizzo su scala industriale di gas lacrimogeni).
L’anno scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che la Turchia aveva violato il diritto alla vita di Berkin Elvan e che non era stata condotta un’inchiesta efficace per stabilire le possibili responsabilità governative.
Finora soltanto un agente (Fatih Dalgalı) è stato riconosciuto colpevole. In compenso l’avvocato della famiglia Elvan, Can Atalay, nonostante l’anno scorso sia stato eletto al Parlamento, rimane in galera.
Gianni Sartori