
Tra discutibili detenzioni di dissidenti, tardive rimesse in libertà e attacchi alle politiche protezionistiche della fauna selvatica.
Cominciamo con la notizia dell’avvenuta liberazione, il 7 marzo ,del professore di inglese dell’Università di Delhi Gokarakonda Naga Saibaba. Rinchiuso nel carcere di Nagpur dal 2017, ne è finalmente uscito dopo che l’Alta Corte di Bombay ha annullato la precedente condanna. Ritenendo evidentemente inconsistenti (“non motivate”) le accuse nei suoi confronti di “cospirazione” per i presunti legami con il Partito comunista dell’India-maoista (clandestino). Condannato da un tribunale del distretto di Gadchiroli (Maharashtra), aveva già scontato due anni tra il 2014 e il 2016. Nuovamente uscito dal carcere, si diceva, ma in sedia a rotelle. A causa del suo stato di salute, peril momento non ha lasciato dichiarazioni ai giornalisti che lo attendevano fuori dalla prigione. Riservandosi di parlare soltanto dopo adeguati trattamenti sanitari. La sua vicenda detentiva risulta alquanto travagliata. Se non proprio un calvario, perlomeno un’odissea. Per esempio il 14 ottobre del 2022 l’Alta Corte di Bombay ne decretava il rilascio, ma nemmeno 24 ore dopo la Corte suprema sospendeva l’ordinanza. Rigettando anche la richiesta di arresti domiciliari per ragioni di salute (nonostante venisse qualificato come handicappato fisico al 90%, si muovesse in sedia a rotelle e avesse contratto per due volte il Covid-19). Insieme a lui nel 2017 erano state condannate all’ergastolo, in base alla legge sulla prevenzione delle attività illegali- (UAPA), altre cinque persone (tra cui Mahesh Tirki, Prashant Rahi, Hem Mishra e Pandu Narote, in seguito decedute durante la detenzione). Per protesta contro il rifiuto da parte della direzione del carcere di consentirgli di accedere a cure essenziali, il 21 ottobre 2020 Saibaba era entrato sciopero della fame. Contestando inoltre la proibizione di consultare libri e lettere dei familiari. Decretandone la rimessa in libertà, l’Alta Corte ha voluto specificare che alcuni documenti e dati elettronici dei condannati ne suggerivano al massimo la natura di semplici “simpatizzanti della filosofia maoista”. Con buona pace digli altri imputati che nel frattempo hanno perso la vita dietro le sbarre.
Altra questione quella dell’intervento dell’arcivescovo maggiore siro-malabarese Raphael Thattil in merito al presunto aumento di “attacchi di animali selvatici” a causa dei quali alcune persone hanno perso la vita . Un vero e proprio atto d’accusa contro alcuni provvedimenti protezionistici governativi in quanto espressione di “un approccio al problema che non dà valore alla vita umana rispetto a quella animale”. Senza peraltro specificare quando “l’attacco” provenisse inizialmente da cacciatori – o bracconieri che dir si voglia (pratica alquanto diffusa, in particolare ai danni di elefanti, rinoceronti e tigri). Tra i casi denunciati, due episodi accaduti il 5 marzo nel Kerala (rispettivamente a Thrissur e Kozhikode) dove una donna sarebbe morta calpestata da un grosso animale (si presume un elefante) mentre un uomo sarebbe deceduto dopo essere stato incornato da un grosso bovino (definito dalle agenzie un “bisonte”, ma probabilmente un bufalo). Il giorno prima un’altra donna veniva calpestata da un elefante a Kanjiraveli. Quasi contemporaneamente un branco di elefanti sarebbe entrato nell’abitazione di un responsabile della Athirappilly Plantation Corporation danneggiando la mobilia (addirittura!?!). Altri episodi simili erano avvenuti nelle settimane precedenti a Wayanad, Idukki, Ernakulam e Thrissur. Già in precedenza l’arcivescovo maggiore della Chiesa siro-malabarese Raphael Thattil aveva dichiarato che “ la perdita di vite umane a causa di attacchi di animali selvatici non può essere giustificata”. Definendo le politiche governative a tutela di tigri e di elefanti (in via di estinzione, ricordo) “una vergogna per lo Stato”. Chiedendo non meglio precisati “piani speciali per garantire la sicurezza delle persone che vivono nelle aree collinari del Kerala”. Stando ai dati a disposizione negli ultimi otto anni sarebbero circa 900 le persone che hanno perso la vita a causa degli animali selvatici. Senza però specificare quanti casi siano legati alla caccia, ossia alla razione difensiva dell’animale. La maggior parte dei casi sono localizzati in aree boschive o in prossimità di recenti insediamenti che vengono a invadere ulteriormente i residui territori meno antropizzati dove gli animali superstiti trovano rifugio. Per non parlare delle multinazionali, delle politiche estrattive etc che deturpano e degradano definitivamente le aree naturali. Tanto per fare un confronto nello stesso periodo in India si sono verificati oltre 900mila decessi per incidenti stradali. Calcolando una media di 110mila all’anno (ma nel 2022 erano stati 170mila e ben 212mila nel 2020). Anche se nella critica alla “colpevole” politica governativa di salvaguardia e protezione per la fauna selvatica colgo un sottinteso (la richiesta neanche tanto velata di sistematici abbattimenti preventivi), non intendo qui discutere la buona fede dell’arcivescovo e la sua sincera preoccupazione per la vita umana. Tantomeno riaprire una sterile contrapposizione tra “antropocentrico” e “antispecismo” (“animalismo”?). Dico soltanto che forse l’alto prelato dovrebbe prima interrogarsi – e preoccuparsi – su altre questioni che rendono incerta, precaria – talvolta indegna – la vita quotidiana della popolazione. Questioni legate allo sfruttamento, all’inquinamento, all’oppressione (vedi dalit e adivasi, ma non solo). O magari alla condizione femminile… Del resto, di che si preoccupa sua eminenza?
In India c’è già chi si impegna – fin troppo – in oggettiva sintonia con le sue richieste. Bande organizzate di bracconieri che imperversano sterminando quanto sopravvive nelle residue foreste indiane. Da qualche anno, per esempio, è in atto un’autentica strage di elefanti selvatici. Sia con le classiche fucilate, sia utilizzando recinti elettrificati in cui imprigionarli prima di abbatterli. Ancora peggiore poi la situazione del Rhinoceros unicornis. Non solamente per il bracconaggio, ma in quanto più sensibile ai cambiamenti climatici. Quanto alle tigri (di cui la caccia venne proibita in India nel 1972) ormai ne sopravvivono più in cattività che in libertà. In India (di fronte a oltre 1,4 miliardi di umani) circa tremila esemplari del maestoso felino (4500 sull’intero pianeta secondo il WWF). Teoricamente il doppio rispetto a quindici anni fa (grazie alle politiche governative di tutela), ma ben poca cosa se pensiamo che ancora un secolo fa (dopo le stragi di decine di migliaia dell’800) ne rimanevano ancora circa 100mila.* A determinarne il declino, oltre alla caccia, l’esponenziale perdita di habitat conseguenza dell’intensificarsi della deforestazione. Per l’estendersi di coltivazioni, infrastrutture, metropoli. Oltre alla generale, devastante espansione – metastasi ? -delle attività estrattive e industriali.
E’ questo il pianeta che vogliamo? Un mondo totalmente antropizzato dove a nessuna creatura sia ancora consentito vivere allo stato brado? Non è che semplicemente stiamo segando il ramo su cui siamo accovacciati?
Gianni Sartori
*Nota 1: Come scrivevo in “epoca non sospetta” (febbraio 2011):
“Confrontando una carta tematica sulla densità della popolazione in Indonesia (Le Monde diplomatique, novembre 2010) e una carta dell’Asia sulla diffusione della tigre (Ouest France, 28 novembre 2010), salta agli occhi un particolare inquietante. Delle tre sottospecie estinte, due vivevano in Indonesia.
La tigre di Giava è scomparsa da 30-40 anni, mentre quella di Bali, la più piccola delle tigri, circa 70 anni fa. Le due aree dell’Indonesia più abitate sono appunto le isole di Giava (su cui vive due terzi della popolazione del paese) e di Bali con oltre 500 abitanti per Kmq. Dove la densità è minore, come a Sumatra (da 30 a 100 per Kmq) e nel Borneo (diviso tra Indonesia e Malesia, meno di 30 per Kmq) qualche tigre riesce ancora a sopravvivere. A Sumatra ne rimangono in libertà circa 400 esemplari, mentre le tigri della Malesia (in realtà del Borneo) superstiti sarebbero tra 200 e 400. Altrove le cose non vanno meglio per il maestoso felino. Per esempio, nella regione del Grande Mekong gli esemplari di Panthera tigris sono circa 350. Dieci anni fa erano quattro volte di più.
Si calcola che agli inizi del 1900 vivessero in libertà più di 100mila esemplari. Oggi, dopo un secolo, arrivano a malapena a 3200. Un convegno internazionale ha riunito a San Pietroburgo, dal 21 al 24 novembre 2010, tredici nazioni che ancora ne ospitano: Russia, Thailandia, Vietnam, Bangladesh, Bhutan, Birmania, Cambogia, India, Cina, Laos, Indonesia, Nepal e Malesia. Qualche altro esemplare potrebbe sopravvivere nella fascia smilitarizzata tra le due Coree. La speranza del Global Tiger Recovery Program è di raddoppiare il numero delle tigri entro il 2022. Due le priorità: proteggere l’ambiente (ormai ridotto al 7% di quello originario ed estremamente frammentato) e combattere il bracconaggio. L’associazione Wildlife Conservation Society ha individuato 42 siti dove ancora l’animale si riproduce. La maggior parte in India, Sumatra e nell’Est della Russia. Una delle sei sottospecie, la tigre siberiana, negli anni sessanta era ridotta a 80-100 esemplari. Dopo il 1989 la situazione rischiava di precipitare. Alcune agenzie turistiche organizzavano battute di caccia dagli elicotteri per miliardari e ricchi mafiosi. Attualmente, grazie ad una severa politica protezionistica, le tigri siberiane in libertà sarebbero quasi 500. Chiamata anche “tigre dell’Amur” (dal nome del fiume presso cui vive), è il più grande felino esistente. Il maschio misura più di tre metri di lunghezza e pesa 300 kg. In Cina la tigre non sarebbe più stata avvistata da esperti e studiosi da almeno 30 anni. Si calcola che ne restino in circolazione meno di una cinquantina. Con ogni probabilità sarà la prossima a sparire.
Brutti pronostici anche per le tigri dell’India, vittime del 54% degli atti di bracconaggio per rifornire i consumatori cinesi della medicina tradizionale. Sviluppo industriale, costruzione di dighe e apertura di miniere hanno prodotto effetti devastanti. Le 40mila tigri ancora presenti nel 1947, si erano ridotte a 3700 nel 2002. Oggi in tutta l’India non sarebbero più di 1500. La tigre del Caspio è la terza sottospecie già estinta. Dal pelame chiaro (come la siberiana, ma più piccola), la più occidentale delle tigri è scomparsa versoio 1970. Per sempre.
Gianni Sartori (su “A, Rivista anarchica n. 359, febbraio 2011)
