#Kurds #Repressione – IRAN: PROSEGUE IL CALVARIO PER ZEYNAB JALALIAN – di Gianni Sartori

fonte immagine kurdistanhumanrights.org

Malata, la prigioniera politica curda Zeynab Jalalian viene periodicamente sottoposta a maltrattamenti e angherie. Da ultimo, minacce e ricatti per poter accedere alle indispensabili cure mediche (sempre rifiutate o comunque non adeguate alla gravità delle sue condizioni di salute) in cambio di una confessione (ovviamente estorta, forzata) e di un imprecisato “pentimento”.

Recentemente un gruppo di funzionari dei servizi iraniani si sarebbe recato nel carcere di Yazd dove avrebbe sottoposto Zeynab Jalalian a pressioni per estorcerle una confessione in cambio dell’accesso alle cure mediche.

Ne avevo già parlato circa quattro e poi tre anni fa (v.note)

Stando a quanto denunciava la Rete dei Diritti Umani del Kurdistan la prigioniera si sarebbe rifiutata di accettare il baratto, sostenendo che “la sua detenzione èillegale in quanto in contrasto con il nuovo Codice Penale Islamico, approvato nel 2013”. In base al quale, data la sua situazione sanitaria, dovrebbe essere posta in libertà.

Soffre di asma, pterigio (malattia dell’occhio con conseguenti problemi alla vista), febbre da aftosi, infezioni dentali, problemi renali e di digestione…

Colpita una prima volta dal Covid-19 mentre si trovava in isolamento nel carcere di Kerman, era entrata in sciopero della fame per essere riportata a Khoy.

Arrestata a Kermanshah nel febbraio del 2008, Jalalian in prigione ha trascorso molti mesi in isolamento ed è stata sottoposta a torture.

In un primo momento la giovane curda venne condannata a morte dal tribunale “Rivoluzionario” Islamico per ”inimicizia contro Dio “(moharebeh) in quanto appartenente al PJAK (Partito per una Vita Libera in Kurdistan).

Ma poi, nel 2011, la sua pena venne commutata in ergastolo.

Trasferita senza motivo (e senza giustificazione legale) da un carcere all’altro in varie occasioni (Khoy, Qarchak, Kerman, Kermanshah, Yazd..), quando era stata portata a Kermanshah (settembre 2022) le autorità carcerarie si erano addirittura rifiutate di ammetterla. A causa delle evidenti ferite ai polsi e alle caviglie (inferte presumibilmente mentre veniva trascinata al suolo, ammanettata e in catene).

Nel novembre 2020 era giunta a Yazd, qui portata dalcarcere di Khoy, situato più vicino alla sua famiglia che abita a Maku.

A Yazd si era nuovamente ammalata di Covid-19, ma invece di venir curata adeguatamente era stata portata in una cella per detenuti tossicodipendenti, in pessime condizioni igieniche. Di conseguenze le sue condizioni fisiche generali si erano ulteriormente deteriorate e i suoi problemi polmonari aggravati (in particolare l’asma).

Negli ultimi due anni non ha potuto ricevere visite e le è stata consentita soltanto una breve telefonata settimanale ai genitori.

A lei e ai familiari in varie occasioni venne intimato di non segnalare nulla ai media o alle Ong in merito alla sua situazione. Altrimenti sarebbe stata nuovamente trasferita e posta in isolamento.

Nel marzo 2022 le forze di sicurezza avevano arrestato genitori e fratelli di Jalalian dopo che la madre, Gozal Hajizadeh, era apparsa in un video denunciando le gravi condizioni di detenzione a cui la figlia veniva sottoposta. Ma venivano rimessi in libertà nel giro di 24 ore, dopo ulteriori avvertimenti e minacce, in quanto la madre era caduta in stato di incoscienza dopo l’arresto.

Le autorità avevano anche cercato di estorcere ai familiari di Jalalian una pubblica condanna dei partiti curdi. Una vergognosa richiesta ricattatoria che era stata subito rispedita al mittente.

La detenzione di Jalalian è stata definita “arbitraria e contraria alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e al patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici” dal Gruppo di Lavoro dell’ONU sulla Detenzione Arbitraria.

Riporto anche la notizia di una, per quanto minore, ennesima ingiustizia.

Il mese scorso le altre detenute del padiglione femminile l’avevano festeggiata in occasione del compleanno (è nata a Dim Qeshlaq nel 1982 e compiva 41 anni, di cui oltre sedici in prigione). Venivano però immediatamente convocate e minacciate di un aggravamento della pena da parte della Direzione del carcere.

Gianni Sartori

note:

#Africa – #Saharawi – I molteplici riconoscimenti della sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale a garanzia di una “soluzione politica” o di ulteriore sfruttamento e repressione? – di Gianni Sartori

Il riconoscimento da parte di Israele della sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale potrebbe rappresentare l’ennesima pietra tombale sull’autodeterminazione del popolo saharawi. O anche esasperare il conflitto. Dipende da come reagiranno – oltre alla comunità internazionale, al momento sostanzialmente allineata con Rabat – il Fronte Polisario e l’Algeria.

Diciamo che non me l’aspettavo. Non da Tahar ben Jelloun. Nel suo “Il razzismo spiegato a mia figlia” (Bompiani 1998), rispondendo a una sua domanda, scriveva:

“Il colonialista è razzista e dominatore. Quando si è dominati da un altro paese non si è più liberi, si perde l’indipendenza. Così l’Algeria, fino al 1962, era considerata come una parte della Francia. Le sue ricchezze sono state sfruttate e i suoi abitanti privati della libertà (…). Coloro che non accettavano quella dominazione venivano perseguitati, messi in prigione e persino uccisi. Il colonialismo è razzismo alla scala degli Stati”.

Parole sante. Ma non sembra averne tenuto conto nel suo recente articolo su la Repubblica del 19 luglio.

Non nomina nemmeno il popolo saharawi e cita il Polisario soltanto come un’emanazione di Algeri. Riducendo tutta la questione dell’autodeterminazione del popolo sahrawi (e la sua lunga llotta di liberazione) ad un contenzioso tra Marocco e Algeria. Sorvolando poco elegantemente sul fatto che il Fronte Polisario aveva proclamato la Repubblica Araba Democratica dei Sahrawi già il 27 febbraio 1976, alcune ora prima del ritiro delle truppe spagnole. Oltre a ignorare che le popolazione autoctone del Sāqiyat al-ḥamrāʾ e del Wādī al-dhahab (Rio de Oro) fin dagli anni trenta rivendicavano l’indipendenza dalla Spagna.

Lo scrittore nato a Fès nel 1944, sembra dare un giudizio sostanzialmente favorevole sia degli accordi di Abramo tra Stati Uniti, Israele e Marocco del dicembre 2020 (firmati da Trump e mai rimessi in discussione da Biden, sancivano la sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale), sia del recente riconoscimento ufficiale da parte di Israele. Riconoscimento che va a sovrapporsi a quello di numerosi Stati, sia arabi che africani e anche una quindicina di europei (Arabia Saudita, Kuwait, Bahrain, Emirati, Qatar,Oman, Austria, Svizzera, Germania, Paesi Bassi, Spagna…).

Anche il ministro degli esteri italiano ha definito “seri e credibili gli sforzi compiuti dal Marocco” in merito al futuro del Sahara Occidentale, nonostante l’attuale capo del governo in gioventù avesse espresso simpatia per la lotta dei saharawi visitando anche i campi dei rifugiati.

Almeno stando a quanto mi raccontava Luciano Ardesi (Lega per i diritti e la liberazione dei popoli), non propriamente entusiasta di tale partecipazione.

Se gli accordi di Abramo avevano rappresentato la ripresa delle relazioni tra i paesi firmatari, il riconoscimento ufficiale da parte di Israele (con una lettera di Benjamin Netanyahu, indirizzata al re Mohammed VI e ripresa da un comunicato del gabinetto reale) della sovranità di Rabat sul Sahara Occidentale rappresenta sicuramente il preludio per “l’apertura di un consolato nella città di Dakhla” (città del Sahara Occidentale che sorge in territorio sotto occupazione marocchina) dove sono già stati aperti una trentina di consolati. Non solo. Il riconoscimento alimenterà ulteriormente gli investimenti israeliani (minerari, industriali, turistici…) nelle cosiddette “province meridionali”. Dove da anni si perpetua uno sfruttamento intensivo (con l’estrazione dei minerali soprattutto – fosfati in particolare – ma anche in altri settori, come per esempio nella pesca) da parte del Marocco. Sfruttamento giudicato illegale dal fronte Polisario (definendolo semplicemente “un furto sistematico delle risorse”).

Gianni Sartori