#Kurdistan #Caduti – IN MORTE DI UN INTERNAZIONALISTA – di Gianni Sartori

fonte immagine @ Twitter UIKI ONLUS

Così come Ivana Hoffman, Andrea Wolf, Barbara Kistler…un altro internazionalista tedesco è caduto combattendo a fianco della resistenza curda

Non è il primo internazionalista di nazionalità tedesca a dare la proprio vita per la causa curda. Anche se sarebbe più corretto dire “per quella dell’Umanità”.

E qui, permettetemi un inciso personale. Nell’ultima conversazione (telefonica, inizi del 1987 mi pare, a pochi mesi dalla sua scomparsa) con il padre di Ernesto CHE Guevara gli chiesi (forse un pochino provocatoriamente): “Suo figlio anteponeva praticamente a tutto la Rivoluzione. Cosa direbbe ora se potesse parlargli?”. “Direi – rispose senza indugio – che solo una cosa antepongo alla Rivoluzione: l’Umanità”. Ragioniamoci sopra.

Altri giovani internazionalisti tedeschi, dicevo, sono caduti in Kurdistan.

Tra loro Ivana Hoffman (afro-tedesca), Andrea Wolf, Barbara Kistler…

Stavolta, il 15 giugno a Xakurke, è toccato a Thomas Johann S.

Nella stessa circostanza sono rimasti uccisi altri due esponenti delle HPG (Unità di Difesa del popolo).

La guerrigliera turca Asya Kanîres (Kadriye Tetik) e Kocer Medya (Diyako Saîdî), un curdo proveniente dal Rojhilat (il Kurdistan sotto occupazione iraniana).

Vittime, stando alle scarse informazioni a disposizione, di un bombardamento turco contro le aree montagnose del Bashur (Kurdistan entro i confini iracheni).

Il giovane militante aveva mosso i suoi primi passi in politica (come antifascista) ancora nel 2014 a Ingolstadt (Baviera).

Entrò a far parte di una organizzazione della sinistra radicale (estrema, per chi preferisce) denominato “La Résistance” (così, in francese). Nel 2015 prese parte alle manifestazioni contro la Conferenza di Monaco sulla sicurezza e – nel 2017 – a quelle per il G7di Garmisch-Partenkirchen.

In precedenza, nel 2016, anche alle proteste per la marcia dei neofascisti a Ingolstadt.

Era stato una prima volta in Kurdistan (nel Bakur, Kurdistan sotto occupazione turca) per il Newroz del 2016 vedendo con i propri occhi lo stato di distruzione in cui l’esercito turco aveva ridotto la città curda di Dyarbakir per reprimere la rivolta popolare.

In seguito si integrava nella guerriglia con il nome di Azad Şerger.

In quello che possiamo considerare il suo testamentato politico aveva scritto:

“Non possiamo condannare separatamente lo sterminio organizzato da casa nostra e poi affidato ad altri in lontane terre straniere (un riferimento, oltre ai metodi dell’imperialismo, al fatto che la Germania da sempre riforniva di armi e altro il regime turco, ritengo nda)”.

Si tratta infatti del medesimo delitto.

E aggiungeva “Non dobbiamo più impantanarci in lotte intestine e su questioni inutili. Perdendo così di vista chi sia l’autentico nemico nella nebbia massificante del capitalismo e dell’imperialismo”. Non sarebbe altro che l’ennesimo atto di “sottomissione al comando capitalista, al neoliberismo”.

Gianni Sartori

#Asia #Philippines – FILIPPINE SENZA TREGUA – di Gianni Sartori

Nell’Arcipelago resta alto il livello di scontro tra la guerriglia comunista e l’esercito governativo. Ma – come da manuale – gran parte delle vittime sono civili

Non se ne parla più di tanto (forse nel secolo scorso c’era qualche comitato di sostegno, ma sicuramente meno che per altre situazioni di guerra a bassa intensità), ma nell’Arcipelago lo stillicidio di morti ammazzati è costante.

Tra i fatti più recenti, il 26 giugno una unità della sesta divisione di fanteria si è scontrata con un gruppo di maoisti a Palimbang (provincia di Sultan Kudarat).

Non si conosce il numero delle eventuali vittime in quanto i guerriglieri sono riusciti a sganciarsi portandosi appresso i feriti (ma abbandonando diverse armi: AKM, M16, lancia-granate, ordigni rudimentali…).

Dieci giorni prima, il 16 giugno, una unità dell 91° brigata aveva attaccato un campo del “Bagong Hukbong Bayan” (Nuovo Esercito Popolare) sulle pendici della montagna denominata Apo-apo (Butuan).

Approfittando del fatto che in quel momento i guerriglieri si accingevano a mangiare mentre altri si trovavano presso un vicino ruscello intenti a lavarsi i panni.

Tuttavia questi reagivano prontamente aprendo il fuoco contro i soldati. In appoggio ai militari intervenivano anche alcuni elicotteri da combattimento di fabbricazione turca (T129B).

Mentre la maggior parte dei guerriglieri (una quindicina) riuscivano a sganciarsi e rifugiarsi nella vegetazione, tre di loro (tra cui due donne) venivano abbattuti (probabilmente dai colpi provenienti dai velivoli militari).

Il 5 giugno un portavoce del Nuovo Esercito Popolare aveva rivendicato l’uccisione di Raul Enmacino.

Il cinquantenne era sospettato di responsabilità nella morte (esecuzione extragiudiziale)  di due militanti comunisti nell’aprile 2022. Ne avrebbe, secondo i maoisti, segnalato la presenza alle forze di polizia.

A questo tragico evento potrebbe essere collegata l’uccisione di Michael Soledad (ugualmente sospettato di essere un informatore) nel corso della settimana successiva a Barangay Carabalan. Al momento comunque non risulta che l’attentato sia stato rivendicato.

Alla fine di maggio (il giorno 26) il Nuovo Esercito Popolare subiva un autentico tracollo nell’area delle Visayas orientali.

Una mezza dozzina di suoi dirigenti, tra cui Rosita Solayao Taboy (Laling, segretaria di dipartimento dell’organizzazione regionale e membro del comitato esecutivo) e suo marito(Beto) erano stati arrestati mentre almeno quattro guerriglieri venivano uccisi a Catarman (nord di Samar) due giorni dopo.

Solo pochi giorni prima altri cinque guerriglieri avevano perso la vita nei combattimenti con il 62° battaglione di fanteria nel Negros Occidentale. Un primo scontro era avvenuto a Sitio Napiluan e un altro poco lontano, a Sitio Oway-Oway. Qualche ora dopo se ne sarebbe registrato un altro (non se ne conosce l’esatta località).

Andando ancora a ritroso, il 3 maggio, in tre episodi distinti, altri tre maoisti venivano abbattuti dai soldati nelle province di Kalinga e di Cagayan. Il primo scambio di colpi di arma da fuoco tra maoisti e militari del 50° battaglione di fanteria era avvenuto a Barangay Poswoy (Balbalbalan, Kalinga) causando una vittima. Successivamente, qualche ora dopo, un altro avveniva a Barangay Cielo (Buguey, Cagayan) con un reparto del 95° battaglione di fanteria (altri due maoisti uccisi).

Risale invece al 21 marzo la notizia dell’uccisione di un sotto-ufficiale (un caporale sembra) da parte di presunti maoisti(con cui si sarebbe scontrato casualmente (per cui il fatto non è necessariamente riconducibile al conflitto tra governo e guerriglia) nell’isola di Masbate.

Poco prima c’era stato uno scambio di colpi tra soldati e persone armate non meglio identificate.

Venti giorni prima, il 2 marzo, altri tre guerriglieri erano stati uccisi a Sitio Isuko nel villaggio di Banali (provincia di Sultan Kudarat).

E la tragica sequenza potrebbe continuare. Naturalmente è probabile che non tutti i “maoisti” (veri o presunti) uccisi siano guerriglieri. Come da manuale a farne maggiormente le spese, venendone coinvolta anche suo malgrado, è la popolazione civile.

Un’ulteriore conferma dalla recente uccisione – o meglio: massacro – di una intera famiglia nella provincia di Negros occidentale (una delle due in cui è divisa l’isola).

Il 16 giugno quattro persone, appartenenti al medesimo nucleo familiare, sono stati uccise a colpi di arma da fuoco (ritrovati oltre una cinquantina di bossoli, presumibilmente di M16, arma in dotazione all’esercito) a Himamaylan City.

Si tratta di Roly e Emelda Fausto (52 e 50 anni) e dei loro figli Ben e Ravin (15 e 11 anni).

Poveri contadini, coltivatori di canna da zucchero, legati non a qualche gruppo clandestino, ma semplicemente alla “Baclayan, Bito, Cabagal Farmers and Farmworkers Association”, una associazione di agricoltori.

Per le Ong (alcune di matrice cristiana) che qui operano in difesa dei diritti umani, le responsabilità dell’eccidio ricadrebbero sui militari. In particolare di sospetta della 94° brigata di fanteria operante nell’Isola.

E che si sarebbe già resa responsabile di crimini contro la popolazione con il pretesto di ritenerla in qualche modo legata al movimento comunista. Un metodo già applicato – e a livello di massa – all’epoca del massacro di un milione e mezzo (per difetto) dei contadini indonesiani e in America Latina (vedi in Salvador per dirne una).

Già in passato i membri di questa famiglia erano stata minacciati, avevano subito perquisizioni. In almeno una circostanza sottoposti a maltrattamenti e tortura.

E comunque i coniugi Fausto risultavano ufficialmente schedati come “ribelli”.

Con l’aggravante di fare anche parte della Iglesia Filipina Independient, ritenuta – per insondabili ragioni – “sovversiva” dalle autorità.

Significativo il fatto che gli altri abitanti del villaggio, evidentemente terrorizzati, non avevano osato dare l’allarme. Infatti i cadaveri sono stati scoperti solo il giorno dopo dalla figlia in visita dai genitori.

Come è noto l’Isola di Negros è stata per anni (in particolare durante la dittatura di Marcos – padre dell’attuale presidente Ferdinand Marcos Jr – negli anni settanta e ottanta del secolo scorso) sottoposta a repressione, rastrellamenti, rappresaglie. Con migliaia di vittime a cui ne vanno aggiunte altrettante come desaparecidos.

Si calcola che nella sola Isola di Negros nell’ultimo anno siano stati uccisi dalle forze militari almeno 24 contadini. Altri invece sono stati rapiti e risultano desaparecidos.

In merito, va detto, esiste anche un vivace scambio di reciproche accuse tra militari e guerriglieri maoisti.

Già da qualche mese alcune associazioni degli agricoltori (almeno cinque) avevano denunciato pubblicamente di aver dovuto sottoscrivere una lettera con cui condannavano l’operato del Partito comunista filippino e del Nuovo Esercito popolare (ritenuto il braccio armato del partito stesso).

Sottoposti a ulteriori pressioni (da parte dei militari ovviamente) per diffondere e far sottoscrivere tale lettera ad altre associazioni si sarebbero rifiutati.

Per l’organizzazione “International Coalition for Human Rights in the Philippines” andrebbe innanzitutto cancellata la legislazione d’emergenza che consente di applicare la legge marziale in buona parte dell’Arcipelago.

Gianni Sartori

#Golan #Proteste – I DRUSI DEL GOLAN CONTRO GLI ESPROPRI DELLE TERRE – di Gianni Sartori

fonte immagine JALAA MAREY / AFP

Forse dimenticati dai media internazionali (con la conclusione della ricorrente guerra civile libanese, almeno nei suoi aspetti più truci), i Drusi tornano alla ribalta nel Golan occupato per le proteste contro il devastante progetto “Giant Turbines”

Per chi si occupava della guerra civile libanese nel secolo scorso, i Drusi costituivano sostanzialmente una entità ben distinta, dotata di agguerrite milizie, guidata dal clan Jumblatt (legato all’Internazionale socialista) e arroccata nelle aree montagnose dello Shūf.

Talvolta a fianco della Siria (e dei palestinesi), talvolta no. Punto.

In realtà rappresentano un caratteristico gruppo etno-religioso (arabo, monoteista, di derivazione islamica-sciita- ismaelita) presente, oltre che nel Libano, in Siria, Giordania e Israele.

Sono tornati, loro malgrado, alla ribalta in questi giorni quando i militari israeliani hanno impedito (il 20 giugno) agli abitanti di Al-Hafair (a est di Masada, nelle zone occupate del Golan) di accedere ai loro campi.

Qui si vorrebbe realizzare, a spese non solo dei legittimi proprietari ma dell’intera popolazione autoctona (circa 25mila abitanti), un progetto di “energia pulita” eolica denominato “Giant Turbines”.

Negli scontri scoppiati a seguito delle proteste di centinaia di persone contro la confisca dei terreni, molti drusi sono rimasti intossicati dai gas lacrimogeni (di tipo molto aggressivo, presumibilmente CS o peggio). La realizzazione delle nuove gigantesche turbine (ognuna alta circa 200 metri) rientra in un piano di confisca di terreni per circa seimila ettari. Come è noto nel Golan sotto occupazione israeliana molti altri terreni sono stati confiscati per realizzarci almeno una trentina di colonie (come in Cisgiordania).

Oltre ai lacrimogeni, contro i manifestanti che avevano incendiato pneumatici per rallentare i lavori, sono stati sparati anche proiettili di plastica.

Con un bilancio finale di numerosi feriti (tra cui alcuni gravemente) e con molte persone arrestate.

Nel giorno successivo agli scontri, veniva indetto lo sciopero generale mentre l’esercito israeliano mobilitava alcune unità di truppe speciali instaurando numerosi posti di blocco.

Va anche considerato che oltre ai terreni agricoli il progetto comporterebbe la confisca di alcune strade e di altri terreni per varie strutture (depositi, magazzini, alloggi…).

Risale ormai a quindici anni fa il progetto israeliano di produrre un 20% dell’energia necessaria al Paese utilizzando fonti alternative (eolico, solare.)…

Inizialmente si parlava “soltanto” di 25 turbine, diventate poi oltre una settantina (42 nella regione di Tal al-Faras, 30 nella valle di al-Mansoura).

Con i previsti 152 megawatts di energia prodotti da tali impianti, i guadagni per la Società Elettrica israeliana arriverebbero a oltre 40 milioni di dollari annuali.

Contro il progetto è intervenuto anche il governo siriano con un ricorso presso il Consiglio di sicurezza e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Gianni Sartori