#Africa #Biafra – STRATEGIA DELLA TENSIONE IN NIGERIA? SI RIAFFACCIA LA QUESTIONE “BIAFRA” – di Gianni Sartori

fonte immagine AfricaRivista.it

Del Biafra il ricordo personale più intenso risale al 1968. Arzignano, forse dicembre o comunque clima invernale. Eravamo arrivati in bici, io (sedici anni) e Giorgio (qualcuno in più, all’epoca stava nella FGCI). Manifestazione di operaie e operai del tessile, occupazione del Comune, piazza presidiata…e l’immagine ancora vivida di un’edicola con tanti giornali che esponevano grandi foto (l’Espresso di allora?) drammatiche, strazianti: bambini africani con la pancia gonfia per il “kwashiorkor” (grave forma di malnutrizione e di avitaminosi) e ridotti a pelle ed ossa. Con gli immensi occhi sgranati che sembravano interrogarti. Impossibile non sovrapporre tali immagini a quelle dell’Olocausto.

Era appunto il Biafra (Eastern Region) che l’anno prima, in maggio, era insorto proclamando la secessione dalla Nigeria. Abitato oltre che dalla popolazione maggioritaria Ibibio, anche da Igbo e Ogoni (di questi si tornerà a parlare negli anni novanta per la questione del Delta).

La reazione di Lagos (all’epoca capitale della Nigeria, sostituita nel 1991 con Abuja), forte del sostegno britannico, rasentava il genocidio. Alla fine si parlerà di un milione di morti. In gran parte vittime, oltre che della guerra, di una devastante carestia criminalmente indotta. Conflitto documentato in tempo quasi reale (grazie alla televisione) e che determinò la nascita di alcune organizzazioni umanitarie (Aktion Biafrahilfe da cui deriverà la Gesellschaft für bedrohte Völker e presumibilmente anche Médecins sans Frontières).

Ma l’insorgenza era destinata alla sconfitta e il Biafra si arrendeva nel gennaio 1970 per essere reintegrato nella Nigeria.

Quanto al leader dei ribelli, il generale Ojukwu, come da manuale era scampato alla cattura fuggendo all’estero (in Costa d’Avorio). Tornerà in Nigeria solo con l’amnistia del 1982.

Quella del Biafra fu una tragedia ampiamente raccontata dai media in Occidente. Sia dagli articoli che – soprattutto – dalle immagini. A volte forse anche enfatizzata, strumentalizzata a fini politici.

Si parlò esplicitamente di una “campagna mediatica” intelligentemente promossa dal dipartimento della propaganda del governo provvisorio biafrano. Dipartimento che sarebbe stato coordinato dalla Markpress, un’agenzia svizzera di pubbliche relazioni appartenente ad un pubblicitario statunitense. Tra i compiti dell’agenzia, organizzare i viaggi in Biafra dei corrispondenti stranieri (tra cui il futuro scrittore Frederick Forsyth) garantendo l’ottenimento dei visti e il viaggio in aereo nonostante il blocco imposto da Lagos.

Immagini spettrali che si credeva ormai disperse nel flusso del tempo, dimenticate. E che invece, se pur in forma mano inquietante, eventi recenti hanno riportato alla memoria.

Nella notte tra il 3 e il 4 gennaio un’autobomba esplosa in Nigeria a Imo State ha ucciso quattro funzionari della sicurezza (in un primo tempo si era parlato anche di altre vittime, forse civili). L’obiettivo dell’attentato, l’ex funzionario Ikedi Ohakim, è rimasto ferito, ma non gravemente. Ultimo episodio di una serie di attacchi spesso mortali. Come quello del settembre 2022 costato la vita a cinque soldati nello stato di Anambra.

In entrambi i casi i responsabili venivano individuati nei separatisti del Biafra. In particolare nell’organizzazione Ipob (Popolo indigeno del Biafra).

In realtà non esistono prove convincenti e la situazione dell’intera Nigeria è tutt’altro che tranquilla in generale. Negli ultimi due-tre anni si contano una cinquantina di attentati contro uffici delle commissioni elettorali.

Nonostante un candidato alle prossime presidenziali, Peter Obi, sia di etnia Igbo, i separatisti dell’Ipob (il cui leader Nnamadi Kanu rimane in carcere ad Abuja) hanno dichiarato pubblicamente di non volerlo sostenere. In quanto non vogliono “aver a che fare con un sistema marcio e corrotto”. Il portavoce di Ipob ha anche specificato di non aver a che fare con gli attentati (opera di personale altamente specializzato, professionisti). A suo avviso realizzati proprio per screditare il movimento. In ogni caso, pur sentendosi estranei alla campagna elettorale, non intendono assolutamente ostacolarla. Fermo restando che per quanto li riguarda l’unica soluzione accettabile è quella dell’indipendenza.

Gianni Sartori

#Ambiente #Opinioni – QUANDO UNA TELEFONATA NON SALVA UNA VITA… – di Gianni Sartori

Mai posseduto uno di quelli arnesi infernali che di volta in volta vengono chiamati “telefono portatile”, “cellulare”, “smartphone”…o Dio sa cos’altro.

Per cui mi sento legittimato, almeno in parte, a (ri)sollevare la polemica sulle quantità industriali di telefoni cellulari che vanno a inquinare il pianeta in generale e l’Africa in particolare. Un Continente già pesantemente penalizzato in fase estrattiva (vedi per es. il cobalto, il litio…vedi quanto avviene nel Nord-Est della Repubblica democratica del Congo…ne riparleremo)*.

Come ha recentemente ricordato Damien Ghez, giornalista e disegnatore originario del Burkina Faso “le scorie elettroniche contengono mercurio, piombo, cadmio, arsenico e fosforo”. Sostanze nocive, inquinanti che richiederebbero quantomeno “un processo di decontaminazione da parte di imprese specializzate”. Ma questo evidentemente non rientra nei piani (e nei profitti) delle società occidentali che spesso “agiscono in disprezzo delle leggi e dell’impatto ambientale”.

Impatto in larga parte scaricato su quei Paesi del (cosiddetto) Sud del Mondo, ridotti al rango di immensa discarica planetaria.

L’occasione per l’intervento del giornalista africano è venuta da un comunicato del Ministero delle finanze spagnolo. Il 3 gennaio è stato annunciato lo smantellamento operato dalla Guardia Civil di una organizzazione criminale che in soli due anni aveva esportato in Africa circa cinquemila tonnellate di “scorie elettroniche pericolose” (in gran parte costituite da cellulari obsoleti). Guadagnandoci sopra qualcosa come un milione di euro e mezzo. Falsificando i documenti sulla provenienza e sul trattamento (in genere presentandoli come “articoli di seconda mano riutilizzabili”) in un primo tempo i carichi tossici venivano spediti alle Canarie. Da qui, per la precisione da Tenerife, proseguivano via mare verso la Mauritania, il Ghana, la Nigeria o il Senegal.

Non è una novità naturalmente. Il caso della Probo Koala che trasportava sostanze tossiche con destinazione Abidjan risale al 2006. Ma forse non ne abbiamo tratto le doverose conclusioni a livello di “principio di precauzione”.

Tanto è vero che periodicamente viene riproposta  la tesi ottomistica per cui le migliaia di tonnellate di televisori, telefoni e strumenti elettronici spediti in discarica, in realtà rappresenterebbero una risorsa, “una ricca fonte di metalli”. E che “l’estrazione delle scorie elettroniche costituisce in sé stessa un buon affare”. In particolare per l’oro e il rame, secondo vari studi. In questo genere di riciclaggio la Cina sarebbe all’avanguardia (per lo meno a livello di sperimentazione), seguita da Stati Uniti, Unione Europea, Australia e Giappone. Oltretutto, in quanto automatizzabile, richiederebbe molto meno mano d’opera rispetto all’attività mineraria tradizionale.

Sarà, ma quello a cui si assiste è – per dirne una – la commercializzazione ogni anno di nuovi modelli di smartphones sempre più “performanti”. Nella totale indifferenza (“sconnessione” ?) da parte degli entusiasti consumatori seriali per la relazione tra l’acquisto del feticcio e le conseguenze ambientali e sociali così innescate.

Come ricordavano gli Amici della Terra “perfettamente e completamente inseriti nei processi economici della mondializzazione, gli smartphones compiono quattro volte il giro del mondo prima di arrivare nei nostri magazzini e nei negozi”. Calcolando l’estrazione delle materie prime, la fabbricazione dei componenti, l’assemblaggio e la distribuzione.

Ed è ormai risaputo che in ogni fase della loro esistenza (dall’estrazione alla dismissione) tali aggeggi sono causa di gravi danni ambientali in ogni parte del pianeta.

Elencando alla rinfusa “violazioni dei diritti umani, esaurimento di risorse non rinnovabili, sostanze tossiche rilasciate nella biosfera, emissione di gas con conseguente effetto serra…

Abbiamo a che fare con una minaccia incombente, uno stillicidio nei confronti dell’ambiente, della biodiversità e dell’umanità. Se la maggior responsabilità ricade ovviamente sul “Nord” del mondo, non per questo – ci avvisa Damien Ghez – possiamo evitare di identificare i complici nativi che accettano di ricevere e smaltire in maniera pericolosa quelle mercanzie mortifere.

Gianni Sartori