#GraphicNovels #Opinioni – FUMETTI E GUERRA CIVIL ESPANOLA (Tra sconfitte storiche, ripensamenti e malumori) – di Gianni Sartori

Si dice che in genere le guerre – e quelle “civili” in particolare – si combattono due volte. La prima armi alla mano, l’altra dopo. Scrivendo, riflettendo, polemizzando… e naturalmente anche mistificando o stravolgendo. 
Quelle di Spagna (da1 1936 al 1939, ma solo ufficialmente; sappiamo come sia durata molto più a lungo…) non fa certo eccezione.
 

Da dove comincio? Forse dalla telefonata con cui Claudio Venza mi preannunciava la pubblicazione nella Biblioteca di “Spagna contemporanea” del volume “Segni della memoria – Disegnare la Guerra civile spagnola” (a cura di Felice Gambin; edizioni dell’Orso) suscitando il mio interessamento. Duplice. In quanto ho sempre seguito sia la scena fumettistica – in maniera discontinua, come quasi tutto del resto (nel CV anche una breve collaborazione con Puzz) – sia le vicende della Guerra di Spagna (anche quelle proseguite nel tempo, vedi in Euskal Herria e Paisos Catalans). Un invito a nozze quindi.

Però…c’era un però. L’attuale situazione – sia generale che personale – non è delle più confortanti.

Evaporate le antiche speranze di cambiare lo stato di cose presente, prevale ormai un laico distanziamento sociale (in riferimento alle problematiche del genere, non al Covid19).

Soltanto nella “Natura” (concetto alquanto ideologico, lo utilizzo tanto per intenderci) confido e ancora ripongo qualche residua speranza. Augurandomi e soprattutto augurandoLe di poter sopravvivere al petrolio, alle radiazioni, alle guerre umanitarie, al capitalismo, al “socialismo” da caserma, alla plastica in particolare e ai rifiuti in generale, agli allevamenti, ai droni, a google e a qualche variopinta amenità come “sviluppo sostenibile” e green economy… 
Tuttavia – convinto che quella del ’36-’39 in terra di Spagna abbia rappresentato, almeno in Europa, l’ultima concreta occasione per un radicale cambio di percorso, l’estrema possibilità per classi subalterne e popoli oppressi di emanciparsi – avevo diligentemente recuperato tutto il materiale BD (bandes dessinées) sull’argomento in mio possesso. In vista di una eventuale recensione quando il volume fosse finalmente pervenuto, grazie all’interessamento di Claudio (bontà sua!). 
Ripescando in scaffali e scatoloni vecchie pubblicazioni – sia nostrane, sia di provenienza iberica (oltre ai comics donati da compagni catalani e baschi, quelli provenienti dalla fornita e rinomata Bilintx di Donosti e da una libreria militante – non ne ricordo il nome – di Gerona).

Convinto – sia per ragioni anagrafiche, sia per vicende personali – di poter individuare anche storie non prese in considerazione dai curatori.

Invece, consultando poi il volume, scoprivo almeno due-tre cose.

Innanzitutto – confermato da ricerche ulteriori – ho dovuto constatare che ormai siamo all’inflazione delle graphic novels sulla G.C. spagnola. Veramente tante, fin troppe, le storie narrate e disegnate, attingendo per lo più dalla memoria familiare (evidentemente Spiegelman con Maus ha fatto scuola, ma non sempre gli epigoni risultano all’altezza). Storie solo in parte adeguate e utili per la la comprensione dell’epica tragedia che – nonostante la diversa opinione espressa ultimamente da vari addetti ai lavori – doveva spianare la strada al dilagare del nazi-fascismo e alle stragi della Seconda guerra mondiale. 
Addirittura, talvolta si intravede una subdola deriva, quella dell’improponibile “equidistanza” tra vittime e carnefici, tra oppressi e oppressori, tra Repubblicani e franchisti (sull’onda della cantonata presa a suo tempo, in buona fede comunque, perfino da Simon Weil). Ma almeno per ora non si sprofonda – magra consolazione – nel revisionismo autopunitivo di certa “sinistra” ieri leninista (o stalinista, di fatto almeno), oggi genericamente liberal. 
Tra le migliori opere commentate, il capolavoro di Vittorio Giardino “No pasaran!” (e la chicca preziosa di “Dimenticare mai” sulla riapertura delle fosse comuni dove finirono a centinaia di migliaia le vittime delle sacas) e il racconto “Constancio y Manolo” (una storia basca di José Munoz e Carlos Sampayo dal grandioso, illuminante, liberatorio finale). 
E poi, attingendo a piene mani nell’estesa produzione: “Los surcos del azar” di Paco Roca; “El ala rota” di Kim Antonio Altarriba; “Paseo de los canadienses” di Carlos Guijarro (vedi il medico internazionalista Norman Bethune); “Todo los que nos contaron nuestros abuelos” di Cachete Jack; “Tristisima ceniza: un tebeo de Robert Capa en Bilbao”* di Mikel Begona e Inaket (forse più noti per il loro “Otzi”); “Modotti. Una mujer del siglo XX” di Angel de la Calle; “Las damas de la peste” di Javier Cosnava e Rubén de Rincon; “Jamas tendré 20 anos” di Jaime Martin; “Verdad” di Lorena Canottiere; “Cuerda de presas” di Fidel Martinez e Jorge Garcia; “El angel de la retirada” di Paco Roca e Serguei Dounovetz; “Winnipeg, el barco de Neruda” di Laura Martel e Antonia Santolaya; “Dias de rejones” di Laura Pérez Vernetti; 
Immancabilmente si percorre l’opera – e il vissuto, quello di un’infanzia negli anni del franchismo consolidato e apparentemente inamovibile – del meritevole Carlos Giménez (“Espana, Una” “Espana, Grande”, “Espana, Libre!”, “Barrio”, “Paracuelos”, “Malos tiempos” etc…).** 


HUGO PRATT, BUENAVAENTURA DURRUTI, SAINT-EXUPERY, CORTO MALTESE, RASPUTIN, GIARDINO, BONVI, ORWELL, SLUTTER… 

Dal Felice Gambin (vedi “Immagini, parole e suoni della Guerra civile spagnola nel fumetto italiano”, pag. 149 di Segni della memoria) viene evocato perfino l’incontro – immaginato da Hugo Pratt – tra Saint-Exupéry e Buenaventura Durruti (in “Saint-Exupéry: l’ultimo volo” già citato per la prefazione di Umberto Eco). Non viene tuttavia sottolineato il particolare – filologicamente esatto –di Buen che conversando con lo scrittore-pilota provvede a ricucirsi di persona i calzini bucati (come si legge in “La breve estate dell’anarchia” di Magnus Enzensberger).

Davo per scontata la pubblicazione della fucilazione – ipotetica – del gentiluomo di ventura Corto Maltese così come, con un riferimento a Garcia Lorca, l’aveva immaginata Giardino (pag. 125). Ma non pensavo di scoprire tre belle tavole del 1981 di Bonvi (per me inedite) dove Orwell incontra un probabile fratello (integrato nel battaglione Thalmann) del tenente di vascello Christian Slutter (quello fucilato per pirateria, sabotaggio e spionaggio in “La ballata del mare salato”). I due volontari internazionali discorrono di un “commissario politico russo coi capelli lunghi, sozzi e dall’aria spiritata che è morto due giorni fa …” (Rasputin, ovviamente) e di un misterioso marinaio cieco che da solo sta rallentando l’avanzata dei fascisti con una “mitragliera Lewis-Kalashinkow bloccata a tiro fisso” (pag. 128, 129, 130).

Una piccola citazione – in una nota – anche per “ELOY uno entre muchos!” di Antonio Hernandez Palacios. 
Confesso: avevo sperato di esibirlo come un tassello mancante. Di mio aggiungo che – oltre a esser stato pubblicato ancora nel 1979 a Gasteiz (Vitoria, in Alava, Hegoalde) da Ikusager Ediciones – tra collaboratori e coordinatori si coglie una netta prevalenza della componente basca. Del resto è basco anche Gorka, l’altro coprotagonista della serie (otra hormiga como él). 
E il Durruti fa la sua comparsa anche qui, a pag. 52 nell’edizione del 1983, quella rustica. Così come – a pag. 49 – il “camarada Gallo” alias Luigi Longo (il cui libro sulle brigate internazionali viene citato tra le referencias bibliograficas) e “Mario Nicoletti”, alias Giuseppe Di Vittorio (pag. 49, 50, 51…)***. 
Stando alla prefazione, il nome Eloy veniva estratto non casualmente in memoria di un “jovencisimo teniente del Campesino conocido en plena batalla del Jarama” da Ernesto Santolaya, editore e ispiratore della vicenda narrata da Palacios. Tutto da verificare. Non risulta infatti una partecipazione di Valentin Gonzalez (el Campesino) alla famosa battaglia del febbraio 1937 (quella cantata sia da Woody Guthrie che da Pete Seeger) mentre era – presumibilmente – sul campo a Toledo (vedi l’Alcazar, da dove prende il via la vicenda di Eloy) con il Quinto Regimiento, quello di Lister. 
In seguito El Campesino partecipò – e venne anche ferito – alle battaglie di Guadalajara, Brunete e Belchite (nel corso del 1937) e a quella dell’Ebro (1938). Finendo poi – come è noto – in URSS e in un Gulag da cui riuscì a fuggire riparando in Francia (ma questa è un’altra storia). “Vencidos sin sentirse vencidos”, Eloy e Gorka dovranno comunque assaporare fino in fondo il calice amaro della sconfitta repubblicana. Avranno poi modo di rifarsi partecipando alla Resistenza francese come membri dell’AGE (Agrupacion de Guerrilleros Espanoles). Entrando nella capitale francese liberata con la 2° Divisione blindata del generale Leclerc quando Eloy cadrà combattendo la sua ultima battaglia. 
Per la cronaca: i primi a entrare in Parigi nella notte tra il 24 e il 25 agosto 1944 furono maquisards spagnoli, in gran parte anarchici. Circa settemila membri dell’AGE parteciparono – insieme a qualche partigiano francese – al fallito tentativo insurrezionale antifranchista dell’ottobre 1944 in Val d’Aran. Poco simpaticamente vennero abbandonati alla loro sorte dagli anglo-americani nonostante la guerra contro il nazi-fascismo fosse ancora in pieno svolgimento.

Quanto a Gorka, disilluso, tornerà in Euskal Herria tra le montagne. E qui non possiamo escludere altri successivi scenari nella sua lotta contro il franchismo.

Verrebbe da cogliere qualche vaga analogia di “Eloy” con “Tomka, il gitano di Guernica ” (nelle versioni precedenti: “Amore e odio di un gitano a Guernica” e “L’ultimo treno”) di Massimo Carlotto e Giuseppe Palumbo. 
Anche qui non manca l’autoctono di Euskal Herria. Una miliziana basca – Amalur (Madre Terra in euskara) – che viene uccisa dal fidanzato – Tomka – un gitano scampato al bombardamento di Gernika dell’aprile 1937 e arruolatosi nel Quinto Regimiento (anche lui!). Fuggito in America latina, l’assassino verrà raggiunto dai fratelli della ragazza che la vendicheranno a coltellate.

Inquietante.

Parte della storia si trascina pervasa, impregnata (oltre che da qualche luogo comune: Guernica e Picasso, i baschi, il Quinto Regimiento…) da sentimenti primordiali, oscuri misteriosi: l’odio di tutti contro tutti, gli odori di eros e thanatos, la violenza e la degradazione morale di entrambi i contendenti. Rischiando, soprattutto nelle prime versioni, di mettere la sordina agli insegnamenti di una guerra di classe rivoluzionaria attraversata da molteplici istanze di liberazione.

Nell’ultima versione si infittisce la folla di personaggi noti (da Olivier Law a Béla Frank, da von Richtofen a Gerda Taro…) e gli aspetti politico-sociali della vicenda acquistano maggior visibilità. ****

DA “ROMANO IL LEGIONARIO”A “TIN TIN”…? 

Mi chiedo: perché mai individuare, scegliere un fumetto apertamente fascista come “Romano, il legionario” per banalizzare – di fatto screditare – gli aspetti forse impropriamente definiti “ideologici” del conflitto in questione ? Personalmente lo considero fuorviante (e a suo modo alquanto “ideologico”). Implica il voler proiettare un alone comunque di negatività su qualsivoglia presa di posizione politico-ideologica, comprese quelle di sinistra (e non si esclude che sia questo l’obiettivo non dichiarato).

O almeno questo è quanto ho percepito nel confronto, nell’apparente contrapposizione tra Romano il legionario e la guerrigliera anarchica Verdad. In realtà si finisce col sovrapporli, confonderli, in una una tardiva- inconsapevole ? – riesumazione degli “opposti estremismi”. 
Introdurre un imprecisato “giudizio storico che separa definitivamente la linea di demarcazione tra le parti in causa, creando le premesse per una narrazione pacifista e di gender fortemente consistente”(pag.107) – oltre a non essere facilmente decifrabile – appare una mossa calcolata per mischiare le carte. Squalificare (in quanto “violenta”) l’autodifesa organizzata contro il golpe del luglio 1936 dal proletariato iberico e dai popoli minorizzati (catalani e baschi). Sventolando una non meglio identificata posizione gender (femminile, femminista…?) in contrapposizione al maschilismo – vero o presunto – dei combattenti repubblicani. Quando invece proprio con l’insurrezione antifascista si aprirono le possibilità per un nuovo protagonismo – per quanto parziale e tardivo – delle donne (vedi Mujeres Libres). In campo repubblicano ovviamente.
Si chiede Scarsella se sia “possibile concepire la Guerra Civile Spagnola esclusivamente (è mio il corsivo nda) come una storia di destini e persone?”. Ma il problema – almeno credo – sta proprio in quell’esclusivamente, riduttivo e fuorviante. Al fine di trasformare quella svolta (potenzialmente decisiva, magari irreversibile per i destini delle classi subalterne) in una sorta di tragica parodia. Rinunciando all’ideologia (comunque intesa) a vantaggio della “soggettività biografica e artistica del narratore”. Come se i diversi piani non potessero coesistere, sia cozzando che convergendo o procedendo separatamente.

Con l’intento (non dichiarato, ma comunque in sintonia con l’ideologia al momento dominante) di oscurare, inquinare, intossicare la memoria della ribellione consapevole degli insorti.

Immergendo tutto nel fango, nella nera notte di una generica “violenza”, senza distinzione tra quella difensiva degli oppressi, degli schiavi e l’altra, quella istituzionalizzata delle classi dominanti. La stessa che nel cosiddetto “dopoguerra” riempirà la penisola iberica di fosse comuni con i cadaveri di circa 200mila oppositori e dissidenti.

Non appare quindi casuale che venga citato in nota (pag. 107) un catalogo monografico su Kurt Caesar (autore di “Romano il legionario”) realizzato da Gianfranco De Turris, già segretario della Fondazione Julius Evola. Noto sia per la difesa a oltranza del discutibile filosofo (con un testo in cui spande insinuazioni sui movimenti di sinistra degli anni settanta), sia per le prefazioni ai libri di Gianluca Casseri (deceduto a Firenze nel dicembre 2011). Ma anche per un macabro commento sulla morte di Furio Jesi. Tra l’altro il Casseri era considerato un esperto di fumetti (con una predilezione per Tin Tin ispirato – notoriamente – al fascista vallone Léon Degrelle, figlio “adottivo” di Hitler) su cui teneva conferenze al circolo di destra Sur Les Murs di Pistoia e – pare – a Casa Pound. Intervenendo con i suoi scritti (su Romualdi, su Pound…) anche sull’Ideodromo. 
Sarebbe stato interessante poter approfondire di quale tenore fossero i suoi interventi sull’argomento (non solo su Tin Tin, ma anche su Romano il legionario). 
Non meno discutibili – sempre a mio avviso, quello di un proletario auto-alfabetizzato estraneo a qualsivoglia accademia – i riferimenti ( e la forzata ricerca di analogie) con un romanzo di Lucarelli (ancora Guernica, tanto per non cambiare) con spunti decisamente horror. L’ennesima fiction strumentale, commerciale in cui l’autore in questione sembra essersi specializzato. Con un’operazione – quella di inserire nel racconto storico i licantropi – già condotta, ma con maggior stile e cognizione di causa, dall’ottimo Vangelisti. Se pur con altri intenti.

Vagamente surreale, o perlomeno azzardato, il confronto stabilito tra la mutilazione subita da Verdad e quella (anzi, quelle) della Venere di Milo. Oltretutto la giovane combattente aveva perso soltanto un braccio, non due. Anzi, colgo l’occasione per suggerire – gratuitamente – una possibile ulteriore divagazione sul tema. Ossia un confronto tra la Venere amputata e un personaggio storico: Bridie, la zia materna di Dolours Price (esponente repubblicana irlandese, nota soprattutto per un lungo sciopero della fame e per aver subito insieme alla sorella l’alimentazione forzata). Nel 1938, mentre trasportava un ordigno dell’IRA – in un incidente in parte simile a quello di Verdad – Bridie perse entrambe le mani (e rimase anche cieca). 
Con buona pace di chi la pensa altrimenti, le vicende della G.C. Spagnola (Iberica) non si possono ridurre (salvo arbitrarie manipolazioni) a una “favola storica”, un pretesto per parlare d’altro.

Per quanto legittima – questo sia chiaro – appare un’operazione volta a disinnescarla, annacquarne le potenzialità e la lezione di “catechismo rivoluzionario”.


“MA ALLA LOTTA DI CLASSE E DI LIBERAZIONE CHI CI PENSA?” 

D’altra parte questa rivisitazione in chiave più esistenziale, antropologica che politica della Guerra civile (con particolare attenzione per gli aspetti decadenti e degradanti) rischia di diventare una perversa costante. Mi spiego, o almeno ci provo.

Ovviamente i tempi sono irreparabilmente cambiati. Non solo dagli anni trenta, ma anche dai settanta.

Sarebbe quindi fuori luogo e tempo massimo interpretare l’attuale stato di miseria dei rapporti sociali (in un contesto socialmente disgregato, ideologicamente confuso e maturo per una mobilitazione reazionaria delle masse da manuale) con le categorie della Spagna degli anni trenta.

Ma ancor peggio sarebbe proiettare automaticamente su quella situazione storica l’ombra scura dell’odierna frantumazione sociale.

Restando alla Spagna della prima metà del secolo scorso, anche in “Segni della memoria” viene segnalata la presenza di consistenti comunità proletarie. Non solo la mano d’opera industriale di Barcellona e dintorni o i braccianti dell’Andalusia, ma anche, per esempio, quella dei minatori delle Asturie (e la loro rivolta del 1934, annegata nel sangue da un ufficiale ancora formalmente “lealista”, fedele alla Repubblica: Francisco Franco). Una tipo di realtà che – come altre analoghe – non esiste più, cancellata, annichilita. Così avvenne in tempi successivi per i cugini minatori gallesi (vedi le lotte contro la chiusura delle miniere del Regno Unito negli anni ottanta) e in genere per le concentrazioni operaie. Da Sesto san Giovanni a Torino, da Glagow a Detroit, da Marghera ai cantieri navali in Euskal Herria.

Tutto azzerato, de-industrializzato. Vuoi intenzionalmente, vuoi per lo scorrere inesorabile delle leggi di mercato.

Ma allora non era così. Non tutto almeno.

Esisteva appunto una grande – direi immensa – comunità proletaria. Estesa, forte, determinata e soprattutto consapevole. In sé e per sé (mentre ora, se mi consentite la battuta, quello che rimane della vecchia working class appare talvolta semplicemente “fuori di sé”) 
E da questo – o almeno anche da questo – bisognerebbe partire per comprendere quanto avvenne nel ’36-’39. Non dalle pulsioni, non dai sentimenti innervati nell’animo umano…che pur esistono e agiscono, ma non hanno né l’esclusiva, né la precedenza. 
In particolare il Corto verano (che poi, a ben guardare, non era stato neanche tanto corto …) fu un’aspra lotta sia contro il fascismo (espressione delle classi dominanti più retrive: latifondisti, Chiesa, militari…), sia contro il capitalismo in genere. Una Rivoluzione sociale, insomma. 
Fermo restando che la causa determinante per la sconfitta – sia della Repubblica che della rivoluzione sociale – fu la barbarie nazifascista (grazie agli indispensabili aiuti forniti a Franco da Mussolini), contro questa rivoluzione si doveva scagliare la repressione stalinista a Barcellona nel maggio 1937 e in Aragona nell’agosto del medesimo anno (vedi Lister mandato a estirpare manu militari le collettivizzazioni). 
In sostanza: il PSUC – stalinista – agiva in difesa della proprietà privata contro le collettivizzazioni operate dalla FAI e dalla CNT. Non solo per raccogliere adesioni tra la piccola borghesia autonomista (vedi l’anomalia del PSUC unico caso di un partito comunista a base regionale riconosciuto dal Comintern alla pari con il PCE), ma anche per rassicurare gli Stati democratici (Francia, Gran Bretagna…), pensando così di coinvolgerli nella lotta contro il nazifascismo. Non riuscì nell’intento (anzi, Londra e Parigi pretesero e ottennero la smobilitazione delle brigate internazionali mentre Roma e Berlino continuarono impunemente a sostenere Franco) e forse fu anche per questo che in seguito si accordò direttamente con il pericoloso avversario. Illudendosi stavolta di poterlo tenere a bada (vedi l’infame patto Molotov-Ribbentrop). O almeno è possibile sia andata così. Detto – per inciso – da uno che ha passato la tarda adolescenza a litigare furiosamente sia con gli stalinisti che con i leninisti (talvolta stalinisti mascherati) sulla questione . Sentendosi ripetere decine di volte “Faremo come in Spagna…” (in ovvio riferimento alle giornate del maggio ’37, alla Telefonica etc.). **** 

NEGRAS TORMENTAS AGITAN LOS AIRES – NUBES OSCURAS NOS IMPIDEN VER… 

Strano ma vero. In “Segni della memoria” praticamente non viene nominato Alfonso Font, il disegnatore di”Negras tormentas e altre storie” (pubblicato in versione italiana da REM, testi di Juan Antonio de Blas e Victor Mora), uno dei lavori più significatici sull’argoment
o.

Impreziosito, nella edizione italiana, dalle magistrale introduzione storico-politica di Claudio Venza.

La vicenda si svolge nei primi anni venti a Barcellona (la Manchester catalana, la Ciudad de los prodigios, la Rosa de foc…), quando la città era attraversata dalle lotte sociali e dagli scontri armati tra i pistoleros al soldo della Patronal (la confindustria locale) e i militanti della CNT (con la nascita degli especificos che si confronteranno con i mercenari ad armi pari). Sono gli anni dell’assassinio del sindacalista libertario Salvador Segui e dell’avvocato democratico Francesc Layret. Ma anche del lungo sciopero alla Canadiense (1919), dell’uccisione del cardinale Juan Soldevilla (di Saragoza) e del generale Miguel Arlegui per mano del gruppo di Durruti. I due venivano accusati di aver – rispettivamente – benedetto e diretto la repressione antioperaia. Medesima sorte toccherà al capo del governo Eduardo Dato (accusato di aver dato mano libera nell’eliminazione di militanti sindacali e operai attraverso la ley de fuga). Fino al colpo di stato di Primo de Rivera. 
Il personaggio principale di Negras tormentas (scontato il richiamo all’inno della CNT) è un giornalista dalla doppia vita (collabora sia con “La Vanguardia” che con “Solidaridad Obrera”), già combattente in Ucraina con Nestor Machno e in Messico con Pancho Villa. Un anarquista non propriamente ortodosso (un consiliare, unsoviettista si direbbe), non senza qualche ambiguità. Amico personale di Buenaventura Durruti, ma anche di Lluis Companys (futuro presidente della Generalitat, fucilato da Franco nel 1940) e perfino di alcuni poliziotti honrados (onesti). Con l’aiuto dei quali riesce a impedire l’invio e la consegna di una grosso quantitativo di mitragliatrici alle S.A (le camicie brune che avrebbero dovuto impiegarle nel putsch di Hitler del novembre 1923 a Monaco di Baviera). 
Le altre due brevi storie sono – per certi aspetti – semplicemente agghiaccianti. Nella prima (“La broma”) si svela tutta la volgarità, la miseria, il degrado fisico e morale causati dalla guerra. Soprattutto quando questa riversa la propria brutalità sulla vita quotidiana dei bambini innocenti. E delle bambine in particolare. Nell’altra (“Y tu, qué has hecho por la victoria?”) sono i sentimenti, gli affetti a venir brutalmente lacerati dalla medesima logica. Sempre quella della guerra che pare non poter concedere alternative.***** 

LE FALANGI DELL’ORDINE NERO: SOLO UNA METAFORA? 

Confesso di incontrare qualche difficoltà – quasi una sorta di soggezione – nel confrontarmi con il malinconico, struggente capolavoro di Christin e Bilal (“Le falangi”, in quattro puntate su Pilot edizione italiana di Pilote oppure su Vertigo edicion espanola de Pilote). Narra la vicenda di alcuni reduci delle Brigate Internazionali che combattono – in nome dell’antico ideale – contro un gruppo neofascista in gran parte formato da reduci del fronte opposto (falangisti, fascisti, membri della legione Azul, nazisti, collaborazionisti di Vichy, rexisti seguaci di Léon Degrelle…) responsabile di stragi e massacri indiscriminati (una versione a livello europeo della “strategia della tensione” ). 
Ancora legati da profonda amicizia, memori della passata militanza internazionalista riprenderanno le armi contro la nuova peste bruna. Si tratta di una compagnia varia e assortita, in cui ritroviamo l’eco di tante lotte di liberazione del secolo scorso: il giornalista inglese Pritchard (ricorda Orwell), il francese Barsac (già maquisardgollista, pur essendo diventato un seguace della non violenza non si tirerà indietro), il sindacalista statunitense Donahue, il danese – ora ministro socialdemocratico – Avidsen, l’italiano Di Manno (giudice troppo indipendente per fare carriera), il comunista dissidente cecoslovacco Stransky, la scrittrice polacca – e femminista – Maria Wizniewska, l’ebreo Katz (forse un sionista deluso), il filosofo tedesco Kessler e Castejon, l’imprescindibile prete basco.

Mentre altri due compagni del loro stesso battaglione (il repubblicano irlandese O’Rourke – vittima di una pallottola vagante nella sua Belfast – e l’anarchico catalano Atadell – assassinato in un attentato delle falangi alla CNT di Barcellona) hanno esalato l’ultimo respiro prima di poter partecipare alla battaglia finale.

Un incipit superbo: “Tutto cominciò in una terribile sera di gennaio, da qualche parte ai piedi della Sierra di San-Just…da qualche parte sulle aspre terre della provincia d’Aragona, nel freddo mortale dell’inverno spagnolo degli altipiani…nella neve scricchiolante che ricopriva a perdite d’occhio i magri campi di segale e di grano…sì, tutto cominciò quando le macchine e l’autocarro arrivarono in un villaggio dal nome dimenticato da tutti gli uomini…da quasi tutti gli uomini… 
Con l’amarissima conclusione dell’unico sopravvissuto (a parte Maria che se n’era andata prima della fine, per reagire alla tristezza, non soccombere al disincanto…):
“Vivo? A veces me lo pregunto. Sì, desde la casita de pescador de las Islas Hébridas donde escribo esta historia, frente a este mar gèlido, me pregunto si no estoy muerto también yo… 
o quizas es el mundo el que està muerto por mi: porque ya soy demasiado viejo para el. Yo, Jefferson B. Pritchard, que llevè a la muerte a mis amigos por una causa que en realidad no acierto a recordar…” 

NO PASARAN! 

Torniamo alla recensione (mancata ?) e concludo.

Ero partito avvolto da sconforto, rassegnazione e spirito rinunciatario.

Tuttavia nel frattempo qualcosina è mutato. Man mano che la mia ricerca – lo scavo – proseguiva, avvertivo nel profondo, sotto la cenere il calore di una piccola brace che andava ridestandosi. Minuscola, appena percettibile ma con i colori della bandiera repubblicana (rojo, amarillo e morado) e di quelle curde (rosso, verde, bianco e giallo).

E ripensavo a quei volontari delle Brigate internazionale che andarono a combattere – senza nulla chiedere in cambio – una guerra impari, una guerra non loro (almeno apparentemente), in un’altra terra dove si parlavano altre lingue.

A ognuno di essi dobbiamo la consapevolezza che l’umanità è – può essere – altro da un’orda di scimmie assassine che negli ultimi diecimila anni hanno trasformato il pianeta in un mattatoio ben organizzato. C’è stato – potrà esserci ancora ? – anche altro.

E comunque, come Giardino “Io non li ho dimenticati”. 
Per cui concludo che forse la lotta – bene o male – continua. In Rojava, Bakur e dintorni perlomeno. E stavolta: 
NO PASARAN!  



Gianni Sartori



* nota 1: Toma Ortega (in “Vinetas de la mujer en la Guerra civil espanola”) lamenta il ruolo di comprimaria qui attribuito a Gerda Taro. A parziale rimedio, ricordo il fumetto “Gerda Taro” di Sara Vivan (pubblicato nel 2019 da Contrasto sulla fotografa antifascista caduta a Madrid nel 1937). Ricordata anche in Tomka, il gitano di Guernica dove fotografa i miliziani Amalur e Tomka poco prima di morire. 

**nota 2: sinceramente avrei gradito almeno una citazione per “Descolonizacion” e per “Images para ante de una guerra” (rispettivamente a pag. 36 e 37 e pag. 44 e 45 nell’edizione del 1978 di “Espana, Una”). Senz’altro preferibili a “La hora de la verdà” (pag. 30 e 31 della stessa edizione). Sia per il toro – l’oppresso qui simbolicamente confuso con l’oppressore – sia per una visione della ribellione come una “coazione a ripetere” che rasenta il fatalismo. 
Così come è peccato mortale non aver ricordato il sempre attuale “Vasco” (vedi pag. 42 e 43 di “Espana, Grande”, 4°edizione, 1982). 

***nota 3: ma anche: Dolores Ibarruri, Rafael Alberti, Emilio Kleber, Asensio Torrado, Enrique Lister, Hans Khale…

**** nota 4: per la serie “ecchisenefrega?” qui vi erudisco su quale aria tirava a Vicenza tra la fine dei sessanta e i primi settanta. All’epoca in città esisteva – e frequentavo – un nucleo di Potere Operaio (vedi la prima sede a santa Caterina) con – sostanzialmente – due leader riconosciuti – Mario e Maurizio – di estrazione piccolo-borghese (figli di impiegati e insegnanti). 
Il primo, va detto, onestamente non mascherava una certa simpatia per stile e metodi della GPU (era suo il ritornello “Faremo come in Spagna”). L’altro, più umano, accettava di confrontarsi, discutere etc anche con gente come il sottoscritto. All’epoca sicuramente piuttosto grezzo, ingenuo e naif (arrivavo dalla campagna), ma comunque in buona fede. E soprattutto più interno alla condizione proletaria, sia per censo che – in seguito – per scelta avendo rifiutato un posto statale per non sottomettermi al famigerato “giuramento” (anche se l’alternativa era e fu quella del facchinaggio nelle famigerate “cooperative”). 
Eppure – mi brucia ancora, quasi un piccolo trauma tardo-adolescenziale – quando (poteva essere il 1971) gli mostrai il recente acquisto di “Omaggio alla Catalogna” (edizione del 1967, il saggiatore, serie i gabbiani n. 7, lire 800) mi sentii apostrofare con “Orwell? Fasista!”. Ci rimasi di…di stucco diciamo. Irrilevante per la Storia, ritengo che l’episodio abbia avuto qualche peso
nel mio successivo allontanamento da PotoP (a cui comunque non mi ero mai iscritto, pur frequentandone manifestazioni e iniziative) nel 1972. Tra l’altro, ma forse era solo una coincidenza, giusto in tempo per non farmi coinvolgere in quello che all’epoca percepivo come un deciso cambiamento di rotta verso il “Partito” (e qualche deriva militarista) da parte di un gruppo che fino ad allora avevo vissuto come sostanzialmente “movimentista”. In cui – pensavo ingenuamente – avrebbero potuto convivere anche istanze genericamente libertarie. Del resto l’inno di PotOp ricalcava Negras tormentas e il poder obrero – esercitato attraverso i consigli – rientrava nel programma di Jaime Balius (vedi Los amigos de Durruti).

Ma questo – a voler essere sinceri – l’avrei dichiarato solo in seguito, a tardiva autogiustificazione.

Porto un esempio che forse spiega quanto ancora “fluida” fosse la situazione nel 1971. Quando scoppiarono i tumulti per i licenziamenti alla Pellizzari, il “partito” aveva sostanzialmente proibito di recarsi in loco in quanto era “una lotta arretrata, per la difesa del posto di lavoro”. Invece almeno quattro tra aderenti e simpatizzanti (oltre al sottoscritto, Alberto, Tiziano e Umberto) – e per tre giorni di fila – ci recammo ad Arzignano senza fornire spiegazioni e senza conseguenze “disciplinari”.

Se non ricordo male fu agli inizi del 1972 che proprio il Maurizio mi chiese di prendere la tessera (sarà stata quella bianca o quella rossa? Bella domanda), in quanto ulteriore passo necessario per la nuova fase intrapresa dall’organizzazione. Ci trovavamo all’interno della GIL che era stata occupata dagli studenti e non mi fermai a lungo visto che alla sera dovevo andare a scaricare camion alla Domenichelli (il famoso “turno di notte”, circa dieci ore a scaricare e stivare con pausa di mezz’ora). Comunque declinai l’invito. E forse fu proprio in quel periodo che il PotOp vicentino entrò in una fase critica con l’emorragia di più di un militante (alcuni, come il sottoscritto, semplice manovalanza). Acquistando, in compenso, qualche nuovo adepto proveniente sia dal mondo cattolico che dal PCI (e quindi, in entrambi i casi, maggiormente addestrato e ben disposto alla disciplina e alla gerarchia di partito).

Un altro episodio, indicativo di una “fase successiva” (anche se solo di pochi mesi). Nel maggio del 1972, quando Matteo Soccio e un altro obiettore di coscienza dovevano consegnarsi per finire a Peschiera, il “partito” aveva nuovamente dato parere negativo. Tanto che – tra quelli del giro del PotOp vicentino – ci andammo solo in due (e l’altro, Moreno, venne anche arrestato nel corso di un tafferuglio) insieme a pacifisti, radicali e qualche anarchico. Quindi, ne deduco con il senno di poi, sia i militanti rimasti che i nuovi acquisti si erano conformati alla ”disciplina di partito”. Mentre il sottoscritto si era ormai riciclato in “cane sciolto” a tutti gli effetti. E andava bene così.

***** nota 5: Tra le mancate segnalazioni in “Segni della memoria”, oltre al già citato “Gerda Taro” di Sara Vivan, ho ripescato un riferimento alla G.C. in una vecchia storia di Will Eisner (vedi “Una voce uguale” in “Spirit, un detective creduto morto” eureka pocket n. 9 – editoriale corno, 1972) . Qui – siamo nel 1936 – due avventurieri senza scrupoli si confondono con le milizie repubblicane (chiamate i lealisti) approfittando della situazione per saccheggiare e arricchirsi (vedi pag. 196). La storia prosegue nella Seconda Guerra mondiale con risvolti misteriosi. Tra maledizioni, ricomparsa di presunti defunti, collaborazionismo e voci dall’oltretomba. Con un finale inaspettato. 
In “L’uomo del Sud” di Alarico Gattia (Un uomo un’avventura n. 15, edizioni CEPIM, 1978) è inserita un’immagine (a pag. 53) in cui i bersaglieri costringono alla resa quanto rimane del raffazzonato esercito di briganti di don Juan Borjes, un carlista al servizio dei Borboni (nel 1861). Rimanda esplicitamente a una foto (presumibilmente risalente al 1934, anno di rivolte proletarie) in cui alcuni anarcosindacalisti catalani fronteggiano la polizia. Stessi volti, posizioni e atteggiamenti. Cambiano solo le divise. 
Forse era lecito aspettarsi di più dal 15° volume (d’une guerre à l’autre) di Histoire de France en bandes dessinées (Larousse- Le Monde, ristampa del 2008) dove solo un paio di vignette a pag. 1077 ricordano il sollevamento di Franco e la discutibile scelta di non-intervento del Governo popolare francese. 
In “Storia d’Italia a fumetti” di Enzo Biagi (Arnoldo Mondadori editore, 1980) tra i disegnatori ritroviamo Alarico Gattia insieme a Paolo Ongaro. Autore quest’ultimo di ben due versioni a fumetti del bombardamento di Guernica (aprile 1937). Rispettivamente su Il messaggero dei ragazzi (1987) e su il Giornalino (2010). Ma qui -in Storia d’Italia – per la Guerra Civile spagnola solo un accenno a pag. 165. Con il canonico bombardamento della città basca e il dipinto di Picasso che troneggia sulla lunga teoria dei profughi in fuga verso la Francia. 
Non era stata invece “dimenticata” un’altra più recente graphic novel :“ORWELL” (ed. Ippocampo). Pubblicata dopo l’uscita del libro di Gambin, con sceneggiatura di Pierre Christin (oltre cha autore dei testi delle “Falangi”, anche colui che ha ispirato Il Quinto elemento di Luc Besson) e disegni di Sébastien Verdier. 


#Kurds #Intervista – “12 febbraio: PER LA LIBERTA’ DEL POPOLO CURDO” – a cura di Gianni Sartori

fonte immagine gjia.georgetown.edu

Intervista con Yilmaz Orkan di UIKI ONLUS

(a cura di Gianni Sartori)

D. Attualmente la Turchia, nella persona di Erdogan, appare pervasa da instancabile attivismo. Dopo gli interventi militari in Libia, Nagorno Karabakh, Nord dell’Iraq e della Siria…pretenderebbe di candidarsi al ruolo di mediatore tra Russia e Ucraina.  Tale atteggiamento esprime realmente forza, potenza o è – anche – un modo per distrarre l’opinione pubblica turca dai problemi interni, sociali ed economici?

R. Come ben sappiano quando un Paese è ideologicamente schierato per la guerra, si organizza in funzione di ciò perdendo il senso democratico e diventando autoritario. Nel caso dell’odierna Turchia vediamo che ha inviato mercenari in Nagorno Karabakh, in Libia e altrove. Tutto ciò è funzionale all’economia e incide sul bilancio in quanto tali interventi vanno adeguatamente finanziati.

Al momento si calcola che la lira turca abbia perso circa il 100 per cento del suo valore, con un’inflazione ormai al 119 per cento (anche se ufficialmente la danno al 50 per cento). Anche per questo (oltre che perché non arriva il gas dall’Iran) tante imprese e attività commerciali stanno chiudendo. Con la conseguente perdita di posti di lavoro.

Per esempio al momento ci sarebbero difficoltà nel comprare un’auto.

Per lo più le aziende chiudono non potendo acquistare materie prime né in euro (oggi un euro corrisponde a 15, 50 centesimi di lira turca) né in dollari.

Assistiamo a uno spettacolo abnorme, con l’economia in via di dissoluzione. E di conseguenza la vita, i rapporti sociali, a causa della mancanza di lavoro (con il 60% dei lavoratori ridotti allo stipendio minimo, con stipendi da 240 euro al mese e prezzi simili a quelli europei).

Mi diceva in questi giorni uno degli avvocati del presidente Ocalan che era stato al mercato per comprare della verdura e che – per dirne una – i cetrioli erano a 2 euro al chilo. Per non parlare della carne, più cara che in Italia.

Per i pensionati, spesso con soli 120 euro al mese, va anche peggio.

Senza poi dimenticare i circa 7-8 milioni di migranti (siriani, afgani, bengalesi, yemeniti, pakistani, africani…) attualmente stanziati in Turchia. Soprattutto nelle grandi città (Istanbul, Ankara, Smirne…) dato che non esiste un sistema organizzato di campi profughi, tantomeno un programma per l’integrazione.

Una situazione (ormai paragonabile a quella di alcuni paesi dell’America Latina) che porta a un incremento della criminalità.

Attualmente si conteggiano da due a dieci morti assassinati al giorno. Ricordo che Erdogan ha incamerato i soldi della UE per gestire l’immigrazione, ma senza intervenire a livello sociale. Molti ospedali non sono in grado di operare per mancanza di materiali, di attrezzature. Oppure sono i pazienti a doverseli procurare (come è stato chiesto a un mio amico ricoverato in questi giorni).

Intanto Ankara continua ad aggredire le città curde, uccidendo civili, sia in Bakur che in Rojava e supportando i terroristi.

Emblematico quanto è avvenuto recentemente con l’uccisione del capo dell’Isis. Come sai, gli Stati Uniti non avevano informato la Turchia dell’imminente attacco temendo che questa lo avrebbe allertato consentendogli la fuga. Del resto fino a poco tempo fa se ne stava tranquillo in territorio turco e l’abitazione dov’era al momento dell’attacco si trova a circa 500 metri dal posto di controllo turco.

Per la cronaca, la sede della versione locale di Al Qaida si trova ancora più vicino, a circa 300 metri.

Una conferma che la Turchia sostiene, protegge i vari gruppi islamisti radicali, sia in Turchia che nei territori occupati del nord della Siria. Si accorda, coordina con questi. Durante gli scontri del recente attacco al carcere, la Turchia ha colpito con i droni militanti e volontari che correvano in aiuto delle FDS contro i miliziani jihadisti. 

Sia gli Stati Uniti che l’Unione Europea – a anche la Russia – dovrebbero comprendere che con la Turchia (così come con l’Iran) non è possibile costruire in Siria un sistema democratico e federale. Entrambi, Turchia e Iran, strumentalizzano la religione per ritagliarsi un ruolo di leader dell’islam (rispettivamente sunnita e sciita).

Così come hanno fatto in passato gli Ottomani.

Tornando alla Turchia, ripeto che stiamo parlando di un Paese economicamente distrutto, in crisi, con il rischio concreto di precipitare nella guerra civile.

Assurdo che un Paese in queste difficoltà, paradossalmente pretenda di candidarsi a far da mediatore tra Ucraina e Russia.

D. In recenti incontri con esponenti politici tedeschi, membri del governo, Erdogan sollecitava una ulteriore repressione nei confronti del dissenso curdo, in particolare di quella parte della diaspora che fa rifermento a Ocalan. Trovando, vedi le espulsioni di richiedenti asilo, una certa comprensione.

Come commenti tale politica da parte di Berlino?

R. La collaborazione tra Germania e Turchia è di vecchia data. Non per niente Hitler considerava Ataturk come uno dei suoi “maestri”.

Troviamo talvolta le manifestazioni di una medesima mentalità fascista, la presunzione di appartenere a una razza superiore.

Per esempio tutta la storia insegnata nelle scuole e università turche parla della grandezza della Turchia e degli Ottomani in particolare.

Addirittura, secondo alcuni accademici, tutte le lingue deriverebbero da una lingua proto- turca (teoria della lingua del Sole: Güneş Dil Teorisi). Anche se poi, andando a controllare, è invece la lingua turca ad aver adottato termini di origine persiana, araba, curda e anche francese.

L’esasperato nazionalismo turco è una vera e propria malattia, a mio avviso inguaribile. E in questo si può cogliere qualche analogia con il nazionalismo tedesco. Negli ultimi decenni tale alleanza storica è venuta a rafforzarsi anche per la presenza sul suolo tedesco di circa due milioni di cittadini di origine turca.

Dopo la seconda guerra mondiale i rapporti commerciali, il giro di affari dell’export-import   tra i due Paesi, è cresciuto in maniera esponenziale.

Inoltre nella visione della Germania la Turchia rappresenta un baluardo contro gli “attacchi” di Asia e Africa (in senso lato, sia commerciale che per quanto riguarda le migrazioni). Questo spiega i sei miliardi di euro concessi dalla Merkel per fermare i flussi migratori.

In cambio, quando la Turchia attacca i curdi, Berlino volge gli occhi altrove.

Quando in Germania un curdo commette un reato anche non grave (tipo una manifestazione non autorizzata, l’esposizione della bandiera del PKK…) viene regolarmente perseguito penalmente.

Invece quando – per dirne una – si è scoperto che la Turchia inviava autentici killer per assassinare esponenti della diaspora curda, le indagini andavano quanto meno a rilento. Due pesi e due misure.

Anche recentemente due associazioni (una di musicisti curdi, un’altra per la pubblicazione e diffusione di libri in lingua curda) sono state interdette. Costrette a chiudere.

D. Il recente assalto jihadista al carcere di Sima sarebbe stato orchestrato direttamente dalla Turchia. A tuo parere, cosa si ripromettevano?

R: Come ho detto la Turchia da tempo strumentalizza la religione e ora anche le milizie jihadiste per i suoi scopi. Soprattutto per arrivare a occupare e controllare definitivamente il Rojava. Già all’epoca del trattato di Losanna (1923) la Turchia protestava che questa regione dovrebbe far parte dello Stato turco. Ma vedendo che le sue ambizioni si scontravano con la politica della coalizione internazionale, Erdogan ha deciso di collaborare con l’Isis. In un primo tempo per occupare Kobane, poi tutto il Rojava. Come sai la cosa gli è andata male. Kobane ha resistito. Ora come ora cerca di riuscire nei suoi intenti collaborando con la Russia e con L’Iran.

Ovviamente il suo scopo principale è quello di impadronirsi delle risorse petrolifere del Rojava.

D. Dovendo descrivere in breve la situazione in Rojava. Come ha saputo reagire agli attacchi turchi l’Amministrazione autonoma (AANES)?

R. Secondo me ha reagito bene, non male sicuramente.

Una settimana fa ne parlavo con un compagno, rappresentante dell’Unione dei comuni e dei cantoni del Rojava. Mi ha spiegato che dopo l’attacco al carcere l’autostrada per Kobane (la 712 presumo, nda) risultava pericolosa da percorrere, ma che avevano già realizzato un altro percorso (andando da Hassakè fino a Raqqa e poi a Kobane) per cui, se pur con un giro leggermente più lungo, la strada è percorribile in sicurezza. Diciamo che siamo organizzati, efficienti.

Vorrei anche ricordare che durante l’assalto jihadista al carcere di Sina, tutta la popolazione (arabi, assiri, curdi…) è intervenuta per aiutare le FDS. I maggiori problemi per l’Amministrazione autonoma sono costituiti dai ricorrenti attacchi dei droni turchi. Per questo – e non da ieri – chiediamo che venga istituita una No-fly zone (NFZ, zona di interdizione del volo). Qui vivono circa cinque milioni di persone, ma data la mancanza di sicurezza in molti se non stanno andando, scappano via (e ovviamente in genere verso l’Europa).

Ci sarebbe poi bisogno di ulteriori riconoscimenti da parte delle istituzioni internazionali dell’AANES e anche di fermare l’embargo in atto, sia da parte della Turchia che dell’Iraq (vedi il sostanziale collaborazionismo del clan Barzani). Rompendo tale isolamento, la regione potrebbe senz’altro risollevarsi.

D. Qualche tua considerazione sui recenti attacchi della Turchia in Bashur (il Kurdistan entro i confini iracheni). Attacchi condotti anche utilizzando armi chimiche, gas asfissianti proibiti dalla Convenzione di Ginevra.

R. Con questi gas la Turchia ha ucciso una cinquantina di militanti curdi. Abbiamo quindi chiesto alle Nazioni Unite di prenderne atto, di venire a verificare.

Chiediamo di inviare esperti in grado di interrogare gli abitanti delle zone colpite, di raccogliere campioni da analizzare dato che finora non sappiamo con certezza che tipo di gas abbiano usato.

Ma finora l’agenzia non ci ha nemmeno risposto.

Per questo motivo ci sono state – e ci sono tuttora – manifestazioni davanti alla sede delle Nazioni Unite di Ginevra a anche in Olanda, alla sede dell’Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons (OPCW). Concludo ricordando che il 12 febbraio si svolgeranno alcune manifestazioni per la liberazione del presidente Ocalan. A Roma, a Milano e anche a Cagliari. Invitando tutti coloro che hanno a cuore la democrazia, la libertà e i diritti dei popoli a partecipare.

Gianni Sartori