#Kurds #Repression – CURDI PERSEGUITATI OVUNQUE. USQUE TANDEM? – di Gianni Sartori

(Photo by Christoph Soeder/picture alliance via Getty Images)

L’impressione è che ci si stia avviando verso una persecuzione ampia e sistematica dei curdi. Sia in Bakur (il Kurdistan sotto occupazione turca) che in Rojhilat (il Kurdistan sotto occupazione iraniana). E anche, addirittura, in Bashur (il Kurdistan entro i confini iracheni, ma relativamente autonomo) dove, dietro la recente morte di alcuni militanti curdi si intravede la longa manus dei servizi iraniani.

Il 7 agosto nella città di Neqed (appunto in Rojhilat, il Kurdistan formalmente “iraniano”) altri due curdi sono stati assassinati. Stavolta per mano di alcuni razzisti azeri. Per primo è stato ammazzato Wirya Ibrahini e il suo assassino – Azeri Yunis Qadiri – avrebbe agito esplicitamente per odio razzista anti-curdo. Fermato dalla polizia, veniva portato in un commissariato per essere interrogato e qui, davanti all’edificio, si erano presto radunati familiari e amici della vittima per chiedere giustizia. Ma a questo punto un folto gruppo di azeri – che possiamo definire “fascisti di fatto”- aggredivano la folla lanciando slogan razzisti (tra l’altro nelle foto e nei video si vede chiaramente che alcuni indossano magliette con la bandiera turca) e ammazzavano un altro curdo, Mihemed.

Quanto alla polizia iraniana, non solo non interveniva per fermare gli aggressori, ma aggrediva duramente i curdi.

Brutte notizie anche dai territori della Siria del Nord, invasi e occupati dall’esercito turco e dagli ascari islamisti ormai da tre anni. Ai primi di agosto i servizi segreti turchi (il MIT) avrebbero sequestrato, rapito un medico curdo – Mohammad Sheikho – che lavorava come anestesista nell’ospedale di Afrin ancora da prima dell’occupazione. Per questo era già stato più volte minacciato. Al momento non si conosce altro sulla sua sorte e sulle attuali condizioni di salute. Non si esclude che, agendo come autentici gangster, i rapitori filoturchi abbiano già richiesto un riscatto (da fonti anonime si era parlato di una cifra intorno agli ottomila dollari).

 

Gianni Sartori

#Kurds #Iran – ALTRI RIFUGIATI CURDI ASSASSINATI IN BASHUR – di Gianni Sartori

Già si sapeva che la situazione dei curdi rifugiati in Bashur (il Kurdistan “iracheno”) e provenienti dal Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana) era tutto fuorché rosea. Al punto che alcuni di loro si erano immolati col fuoco per protestare contro la situazione di estrema precarietà e incertezza in cui sono costretti a vivere.

Anche recentemente. Il 18 maggio Behaz Mahmoudi si era dato alle fiamme davanti alla sede dell’ONU a Erbil e la sua tragica fine era stata ripresa da numerose telecamere

A questo ora si aggiunge il rischio, almeno peri militanti più esposti, di venir eliminati fisicamente.

Il caso più recente, di questi giorni, è quello di Musa Babacani. L’esponente del Partito democratico del Kurdistan-Iran (PDK-I) è stato ucciso a Erbil, presumibilmente per mano di agenti iraniani. Secondo Henhaw (Ong per la difesa dei Diritti umani) Teheran avrebbe inviato nel Bashur un gruppo speciale – una squadra della morte ? – per assassinare altri militanti curdi qui rifugiati. Ma cresce anche il sospetto di un possibile coinvolgimento, una complicità da parte delle autorità locali del Bashur (il Kurdistan del Sud, quello “iracheno”, relativamente autonomo). Ossia di altri curdi, in qualche modo complici, collaborazionisti…

Il rapimento di Musa Babacani (a quanto sembra già oggetto di minacce da parte dei servizi di sicurezza iraniani) risaliva al 5 agosto e il suo cadavere, con evidenti segni di tortura, è stato ritrovato il giorno 7 agostonella stanza di un albergo di Erbil.

Originario di Kirmasan, si era integrato nel PDK-I all’età di 18 anni e in seguito aveva fatto parte del comitato centrale del partito.

Meno di un mese fa, il 14 luglio, un altro curdo registrato come richiedente asilo in Bashur era stato assassinato.

Behrouz Rahimi, originario di Sanandaj era conosciuto come membro del PJAK (Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê) e militante ecologista.

Anche nel suo caso si sospetta si sia trattato di un’operazione di “guerra sporca” condotta da agenti iraniani.

L’imboscata contro Rahimi era avvenuta nella città di Sulaimaniyah mentre si recava al lavoro. Un telecamera ha registrato le immagini di una BMW con i vetri oscurati e senza contrassegni da cui vengono esplosi numerosi colpi di arma da fuoco contro il rifugiato. Trasportato all’ospedale, Rahimi è deceduto per le gravi ferite riportate. Stando alle dichiarazioni della moglie, Eye Zoleykha Nasseri, Rahimi aveva rifiutato le proposte degli agenti iraniani di collaborare con loro come infiltrato.

Una vicenda con risvolti analoghi a quella di Eghbal Moradi, militante curdo e padre del prigioniero politico Zanyar Moradi (poi giustiziato in carcere), ucciso in circostanze mai chiarite nel luglio del 2018 a Paniwen.

Senza dimenticare la drammatica vicenda di Mustafa Salimi. Dopo essere evaso da un carcere iraniano aveva chiesto asilo politico in Bashur, ma era stato riconsegnato all’Iran e qui giustiziato.

Da parte sua il PJAK con un comunicato ha condannato l’Iran in quanto “responsabile dell’assassinio di Moradi e Rahimi” invitando le autorità della regione del Kurdistan a “prendere posizione contro gli atti terroristici del regime di occupazione iraniano e dei suoi collaborazionisti curdi portando davanti alla giustizia gli assassini dei due compagni”.

Sarebbero ormai centinaia i curdi fuggiti dal Rojhilat per la repressione e uccisi o sequestrati in Bashur negli ultimi 30 anni.

 

Gianni Sartori

#Africa #Opinioni – “LE SPERANZE DI MANDELA ERANO LE SUE PROMESSE” – intervista a cura di Gianni Sartori

Alcuni eventi successivi arresto dell’ex presidente Zuma (proteste, scontri violenti tra fazioni, saccheggi…) che hanno interessato recentemente il Sudafrica potrebbero – ad un osservatore superficiale o quantomeno non sufficientemente addentro alla questione – apparire come imprevisti, incongrui.

Ma come? Non era tutto risolto con la fine dell’apartheid? L’eredità – politica e morale – di Mandela, il ruolo dell’ANC non erano una garanzia bastante?
Evidentemente no. E non da ora. Da questa “vecchia” intervista di dieci anni fa a uno dei protagonisti della lotta di liberazione dei Neri si comprende come appunto non sia da ieri e nemmeno dall’altro ieri che i problemi (disoccupazione, immigrazioni…per non parlare della sempre rinviata ridistribuzione delle terre) in questa estrema punta del continente rimangono irrisolti. Alcuni perlomeno.

 

“LE SPERANZE DI MANDELA ERANO LE SUE PROMESSE”

INTERVISTA AL PASTORE EMERITO METODISTA SOL JACOB*, UNO DEI PROTAGONISTI DELLA LOTTA CONTRO L’APARTHEID

(a cura di Gianni Sartori – maggio 2011)

 

La Repubblica Sudafricana aveva appena affrontato le elezioni amministrative del 2011 quando abbiamo avuto la possibilità di incontrare di persona il reverendo metodista Sol Jacob. Entrambi ospiti della comune amica Febe Cavazzutti Rossi nella sua abitazione in vista del Monte Rosso (in prossimità dei Colli Euganei). Dai risultati delle urne il calo di popolarità dell’ANC (African National Congress, il partito di Nelson Mandela al potere dal 1994) appariva evidente.

Il problema principale ci spiega Sol –  è non aver mantenuto quanto promesso al momento di prendere il poter. Nel 1994, l’ANC aveva garantito che le condizioni generali di vita (acqua, abitazioni, elettricità, strade…) sarebbero migliorate, ma in questi anni è stato realizzato poco, soprattutto per i poveri. Da allora è aumentata e si è arricchita soltanto la classe media nera. Chi faceva parte dell’ANC in genere si è “sistemato”, non solo con posizioni di governo”.

Non proprio tutti in realtà: molti ex guerriglieri e prigionieri politici – persone che comunque avevano sacrificato molto della loro vita per la causa – erano rimasti ai margini. 

Comunque a molti militanti dell’ANC è stata data la possibilità di entrare nei programmi di promozione per i neri, ottenendo sia posizioni di potere che l’occasione per arricchirsi. Per superare il passato della discriminazione venne stabilito che una percentuale, una quota, di neri doveva entrare nel governo, nell’amministrazione, negli affari. Con il risultato di promuovere una sorta di élite legata all’ANC. “Un punto debole – sottolinea Sol Jacob – è che queste persone, per quanto impegnate nel movimento durante la lotta  di liberazione, non sempre sono state all’altezza della posizione assunta”.

D.- Ultimamente qualche problema era emerso anche con il movimento giovanile dell’ANC e con i sindacati…

Sol Jacob: “Talvolta il movimento dei giovani si è comportato in maniere, come dire, “destabilizzante”. Per esempio durante la presidenza di Mbeki, il loro leader aveva chiesto esplicitamente di nazionalizzare le miniere e questo ha causato una significativa riduzione degli investimenti.

Quanto ai sindacati, si dicono delusi per le scelte operate dai dirigenti dell’ANC in materia di sviluppo economico. In particolare le Commissioni responsabili della pianificazione non farebbero abbastanza per combattere la disoccupazione, diffusa soprattutto tra la popolazione più povera”.

D.- E per quanto riguarda la questione immigrazione che ha provocato una sorta di “guerra tra poveri” tra lavoratori sudafricani, rifugiati dallo Zimbabwe e immigrati dal Mozambico?

Sol Jacob: “E’ un fatto che spesso il lavoro viene dato a rifugiati e immigrati in quanto vengono pagati meno. Inoltre, come l’Europa invia in Sudafrica la sua manodopera specializzata invece di assumere quella locale, lo stesso avviene con la Cina. In base ai recenti accordi con Pechinoper realizzare l’Alta Velocità in Sudafrica, la manodopera dovrà essere tutta cinese.Potrà sembrare incredibile, ma costa ancora meno di quella sudafricana. Oggi nel nostro Paese esistono leggi precise e garanzie per i lavoratori. I sindacati vigilano affinché certi standard vengano rispettati. Quindi molte aziende preferiscono ricorrere agli immigrati, anche in agricoltura.

D.- L’eredità dell’apartheid è ancora presente sotto forma di razzismo o di xenofobia (anche tra i neri)?

Sol Jacob: “Il razzismo, eliminato a livello legale e istituzionale, attualmente viene perseguito. Esiste ancora quello culturale e ideologico. Una mentalità coloniale, presente talvolta anche nelle Chiese.

Ritengo che per un definitivo superamento dovrà passare almeno un’altra generazione. Tra i bianchi, molti non riescono ancora ad accettare a livello psicologico che le persone siano parificate e cercano di mantenere le loro posizioni di comando.

Inoltre, in un Paese dove il 74% della popolazione vive in condizioni di povertà, è preoccupante che il razzismo politico venga sostituito da un “razzismo economico”, sociale.

D.- Come si configura, a livello di Unione africana, il ruolo del Sudafrica nella guerra di Libia? Lo chiedo pensando al fatto che il presidente Jacob Zuma si era fatto interprete di una soluzione politica…

Sol Jacob: “Non dimentichiamo che in passato molti esponenti dell’Unione africana erano sostenitori di Gheddafi.

Con la soluzione politica da loro proposta, c’era la possibilità che comunque il Colonnello rimanesse al potere. D’altra parte, non dimentichiamolo, gli Stati africani dipendonodai finanziamenti di Stati Uniti, Unione europea e Banca mondiale. Non sono abbastanza ricchi per avere voce in capitolo”.

D.- Africa e neocolonialismo, sia da parte dell’Occidente che delle nuove potenze economiche, in particolare la Cina. In questa prospettiva, la Libia rappresenta una possibile “testa di ponte” verso il resto del Continente?

Sol Jacob: “Sicuramente. Del resto questa è stata  la visione di Gheddafi. Appunto per questo voleva diventare il prossimo presidente dell’Ua. Si potrebbe parlare di una sostanziale convergenza di interessi tra Gheddafi, la Cina e anche la Russia. Ricordo che attualmente (2011 nda) i rapporti commerciali del Sudafrica con la  Cina sono enormi. Così come con l’India. Gli indiani vendono di tutto (acciaio, auto, computer…). L’Africa nel suo insieme sta diventando il loro principale campo commerciale, anche approfittando della recessione che aveva colpito l’Occidente e ora anche il Giappone.

Ma comunque questi nuovi poteri economici mondiali – oltre alla Cina e all’India anche il Brasile – non vengono percepiti e non costituiscono un’alternativa per il nostro continente”.

D.- Lei ha conosciuto il carcere per il suo impegno antiapartheid. Qualche considerazione pensando all’attuale situazione del Sudafrica e confrontandola con quelle che erano le vostre legittime aspettative…

Sol Jacob: “A volte mi capita di chiedermi se ne sia valsa la pena. Come tanti altri, sono stato incarcerato, tenuto in isolamento, ho rischiato la tortura…Per che cosa? Per questo risultato? Per un Paese con il 74% di poveri?

Sicuramente anche Mandela prova qualche delusione. Lui voleva che governassero i giovani, non ha mai avuto l’intenzione di restare a lungo al potere. Le sue speranze erano le sue promesse.

Penso si sia ritirato anche per il dolore di non vederle realizzate.

 

*nota 1:

Chi è Sol Jacob? Pastore emerito della Chiesa metodista in Sud Africa e docente di Etica al Federal theological seminary, il rev.  Sol Jacob è stato presidente dell’associazione delle Chiese metodiste. Ha partecipato alla lotta di liberazione dall’apartheid; è stato incarcerato (senza che gli fossero formulate accuse) e posto in isolamento. Sfidando il regime, nel 1977, nella regione del Kwa-Zulu a Pietermaritzburg ha fondato una scuola materna interrazziale e interreligiosa che attualmente, nel 2011, è diretta dalla moglie Isabel e ospita 130 bambini. Nel 2008 ha avviato un progetto di lotta all’HIV-Aids per prendersi cura soprattutto degli orfani. Dirige una catena di assistenza alla povertà estrema, con distribuzione di cibo, corsi di formazione e cura dei bambini di strada. Ha operato in campo ecumenico nel South African Council of Churches (collaborando con Desmond Tutu) e presso l’Onu per la Commissione rifugiati e migranti.

GS

#SüdTirol #MemoriaStorica – Le torture ai prigionieri sudtirolesi – fonte Süd-Tiroler Freiheit – (contributo di Luigi Sardi)

GRAVI TORTURE A BRESSANONE.
LE URLA POTEVANO ESSERE SENTITE FINO ALL’ HOTEL ELEPHANT.


6 agosto 2021

Esattamente 60 anni fa nella Provincia Autonoma di Bolzano si  verificarono gravi violazioni dei diritti umani. Dopo la ‘notte dei fuochi’ del 1961 molti sudtirolesi furono arrestati indiscriminatamente e brutalmente torturati dai carabinieri  con l’esplicita approvazione delle autorità italiane.
La Süd-Tiroler Freiheit ha commemorato ieri la tortura dove tutto ciò è avvenuto, cioè davanti alla caserma dei carabinieri di Bressanone. Qui la tortura è stata particolarmente crudele. Le urla dei torturati si sentivano in tutta la piazza e nell’Hotel Elephant. Il giovane padre di  famiglia Anton Gostner, è addirittura morto a causa di tali sevizie.

Con sei lettere rosso sangue “F-O-L-T-E-R” e una targa esplicativa integrata da   una camicia macchiata di sangue, i rappresentanti di Süd-Tiroler Freiheit hanno richiamato oggi l’attenzione davanti alla caserma dei carabinieri di Bressanone su quanto è avvenuto in quei locali. A quel tempo, alle famiglie dei combattenti per la libertà venivano deliberatamente mandati a casa i vestiti insanguinati dei congiunti per sfiancare anche psicologicamente i parenti.

I carabinieri definirono ironicamente “Trattamento speciale” le crudeli torture . Ciò aveva lo scopo di umiliare i sudtirolesi e di privarli della loro dignità umana.

Le descrizioni delle vittime lasciano ancora oggi senza parole: sigarette spente sulle labbra e sui genitali, pesi attaccati ai genitali, stare in piedi per giorni con le braccia tese, pugni e calci su tutto il corpo, privazione di cibo, bevande e sonno per giorni, torture con tenaglie e cinghie, acido, acqua salata e feci versate in bocca, l’uso di scarabei sotto la pelle e così via.

Le torture a Bressanone furono particolarmente crudeli. Il giovane padre di famiglia, Anton Gostner, ha espressamente segnalato ai carabinieri sulle sue precarie condizioni cardiache, ma questo non li ha dissuasi dal maltrattarlo brutalmente. Tuttavia, gli fu permesso di far chiamare i suoi figli in caserma per salutare la famiglia “perché non sarebbe uscito vivo da qui”. In effetti, le conseguenze dell’ abuso subìto furono talmente gravi da procurargli un infarto nel carcere di Bolzano. Anche quando stava già morendo, gli furono comunque negate le cure mediche. Poco dopo era morto.
Anche suo fratello Engelbert Gostner fu torturato tanto brutalmente a Bressanone, che sua moglie poteva sentire le urla del marito nell’Hotel Elephant di fronte. Non uno solo dei carabinieri torturatori è stato punito….

I Consiglieri Provinciali della Süd-Tiroler  Freiheit Sven Knoll e Myriam Atz-Tammerle hanno letto le testimonianze dei combattenti per la libertà torturati davanti alla caserma dei carabinieri, rinnovando la loro istanza che i pochi riparati in esilio per evitare queste crudeli torture possano finalmente tornare a casa.

Il Consigliere Comunale della Süd-Tiroler Freiheit di Bressanone, Stefan Unterberger, ha anche sottolineato la responsabilità della città di Bressanone per avere permesso  che questo crudele capitolo della storia della città sia dimenticato, mentre sarebbe il caso  di renderlo permanentemente visibile anche ponendo una apposita targa esplicativa.

La tortura dei combattenti per la libertà sudtirolesi da parte dei carabinieri è e rimane una brutale violazione dei diritti umani e della dignità umana. Non deve mai essere dimenticata!

(contributo di Luigi Sardi – Giornalista)

#EuskalHerria #SudAfrica – L’OMBRA DEL GAL SULLA MORTE DI DULCIE SEPTEMBER? – di Gianni Sartori

 
Solo un’impressione, un dubbio.
 
Un’intuizione? Forse.
 
Quando Dulcie Evonne September venne ammazzata – a Parigi nel marzo 1988 – tutti ovviamente puntammo il dito sui Servizi segreti sudafricani.
 
Ipotesi scontata, visti i precedenti. Per citarne uno, l’assassinio di Ruth First a Maputo nel 1982.
 
Senza per questo escludere una tacita approvazione (se non addirittura complicità) da parte di qualche autorità dell’Esagono. Soprattutto pensando che la rappresentante dell’ANC in Francia (oltre che per Svizzera e Lussemburgo) stava indagando sui traffici di armi tra Parigi e Pretoria (più o meno illegali visto che, almeno formalmente, c’era l’embargo).
 
Eppure, ripeto forse, potrebbe esserci dell’altro. Una collaborazione, una “sinergia” con la banda di mercenari parastatali denominata GAL (specializzata nell’eliminazione dei dissidenti baschi rifugiati in Francia e in cui ebbero un ruolo determinante alcuni neofascisti italici).
 
Del resto è storicamente documentato che militanti fascisti europei (vedi l’Aginter Press) avevano collaborato negli anni settanta col regime dell’apartheid contro i movimenti di liberazione in Namibia e Angola. Tra loro almeno un paio di italiani operativi nelle squadre della morte antibasche, (sia nei settanta con il BVE che successivamente con il GAL).
 
Nel 1987, poco prima della tragica fine, Dulcie September era stata a Gernika (Guernica) per il 50° anniversario del bombardamento nazifascista dell’aprile 1937.
 
Qui invitata da Herri Batasuna, il partito della sinistra indipendentista – abertzale – basca.
 
Solo una coincidenza?
 
O – da più parti magari – si temeva che tra i due movimenti di liberazione venisse a saldarsi una pericolosa (per i dominanti naturalmente) collaborazione?
 
Senza volerci costruire un romanzo, direi che la questione meriterebbe un approfondimento.
 
All’epoca rimasi colpito per il modo in cui era stata assassinata. Quasi spudoratamente mentre apriva la porta dell’ufficio dell’ANC in Rue des Petites-Ecuries.
 
Per certi aspetti, la stessa dinamica utilizzata per eliminare le tre femministe curde nel gennaio 2013. Sempre a Parigi, all’Istituto curdo in Rue Lafayette.
 
E anche qui non mancarono sospetti di complicità “interne”, visto e considerato che poi il principale sospettato è deceduto in carcere a pochi giorni dal processo (processo che era già stato ripetutamente rinviato).
 
Sempre allora, pensai anche a tutte le circostanze in cui mi ero trovato al fianco di Benny Nato, negli anni ottanta rappresentante dell’ANC in Italia (oltre che per la Grecia), sia per strada che in treno. Oppure a quella volta che – a Verona – Zanotelli ci indicò con lo sguardo un paio di personaggi che transitavano poco lontano, sussurrando “Sicurezza, Servizi…” (e di sicuro non si riferiva a quelli italiani).
 
Anni dopo rimasi colpito, direi commosso, scoprendo che sia a Parigi che a Nantes le era stata dedicata una piazza (e anche un paio di scuole in altre località).
 
Ma soprattutto per la targa posta dal Gernika Batzordea. Pakea eta Askatasuna (Comitato di Gernika Pace e Libertà) per ricordare appunto la sua partecipazione all’evento del 1987 nella città martire basca .
 
Con le due bandiere – l’ikurrina e quella dell’ANC – e la scritta sotto la sua foto: Agur eta ohore burkide maitea!
 
Mentre al centro della targa si legge: MAYBUYE AFRIKA! AMANDLA! JO TA KE IRABAZI ARTE.
 
 
 
Gianni Sartori
 
 
 
PS: Per la cronaca e a scanso di equivoci: qui eta (scritto minuscolo) sta per la congiunzione “e”.

#Americhe #Cile – ¡Luisa Toledo Presente! – di Gianni Sartori

Un mese fa, il 6 luglio 2021, moriva in Cile Luisa Toledo Sepulveda, madre di Eduardo e Rafael Vergara Toledo, rispettivamente di 20 e 18 anni. Studenti universitari, oppositori del regime fascista instaurato da Pinochet nel settembre 1973, avevano aderito al Movimiento de izquierda Revolucionaria (MIR) e vennero uccisi dalla polizia il 29 marzo a Santiago nei pressi della Estacion Central.

Tale evento viene ancora oggi commemorato ogni 29 marzo come Dia del Joven Combatiente con manifestazioni in onore dei dissidenti politici assassinati dal regime fascista cileno.

Un altro figlio di Luisa era poi stato ugualmente ammazzato dalla dittatura.

La notizia della sua scomparsa era stata data dai media in maniera riduttiva, con una sorta di eufemismo (“attivista in difesa dei diritti umani”). Sicuramente Luisa è stata anche  questo. E molto altro, come hanno ricordato coloro che hanno partecipato, numerosissimi,  ai suoi funerali (una cerimonia definita di “luto rebelde”)

Tenace resistente, Luisa rappresentò per decenni una spina nel fianco del potere, solidale con gli oppressi. Con tutti gli oppressi: dai mapuche (in molti hanno partecipato alle esequie) ai lavoratori (già ammalata, solidarizzò con l’Estallido social del 2019), dalle donne ai prigionieri politici (esperienza questa vissuta direttamente per la lunga detenzione della nipote, Sol). Contro quelli che lei chiamava “gli assassini e gli sfruttatori del popolo”.

A un mese di distanza, è giunta la notizia (non si conoscono i particolari) che in sua memoria sarebbe stato dato alle fiamme il cantiere di un commissariato in costruzione a Talcahuano.

 

 

Gianni Sartori