#ELSASS #RECENSIONI – Una recensione di Max Simeoni su “Arritti”

Su “Arritti”, pubblicazione edita in Corsica, è apparsa una recensione di Max Simeoni su un libro scritto dal prof. Bernard Wittmann dal titolo “Alsace, un langue q’on assassine” (ed. SALDE), dedicato alla repressione subita dalla Lingua alsaziana da parte dello Stato francese. Un ulteriore contributo alla collaborazione tra i Popoli che oggi vivono sottomessi a Parigi.

#VENETO – 1509, Padova, la Lega di Cambrai e la canzone della gatta – di Ettore Beggiato

Nel 1509 quasi tutta l’Europa, attraverso la lega di Cambrai, dichiarò guerra alla Serenissima; e dopo la disfatta di Agnadello (14 maggio) la Repubblica Veneta perse quanto aveva conquistato nei secoli precedenti: la Francia occupò la Lombardia Veneta (Crema, Bergamo e Brescia), l’imperatore Massimiliano conquistò le città venete (Verona, Vicenza e Padova), solo il popolo trevigiano rimase fedele a Venezia nel nome di San Marco.

Da lì a poco, il 17 giugno la Serenissima con Andrea Gritti e con l’apporto determinante del popolo padovano riconquista Padova e si prepara a difenderla dal contrattacco dell’Imperatore. 

Una delle roccaforti padovane fu il bastione Coalonga (Codalunga)  dove venne issato un drappo che, nelle intenzioni degli autori, doveva raffigurare il Leone di San Marco … peccato che l’ignoto artista non fosse particolarmente dotato e così il felino fu ironicamente chiamato “la gatta”.

La gatta venne proditoriamente rubata da un soldato spagnolo, alleato degli imperiali, che ricevette in premio dall’imperatore la bella cifra di 100 scudi e per le truppe spagnole l’opportunità di attaccare per prime il bastione e di essere avvantaggiate nella corsa alla ricompensa promessa dal cardinale Ippolito d’Este, per conto del papa Giulio II, di ben 10.000 scudi d’oro a chi avesse riconquistato per primo la città patavina.

Come si può leggere sul sito www.muradipadova.it,  contro il bastione furono orientati sei grossi mortai e un grande cannone a lunga gittata; gli furono sparati contro circa 1500 proiettili nella sola giornata del 26 settembre 1509.

Nello stesso giorno le truppe spagnole sferrarono l’assalto contro la fortificazione, riuscendo a conquistarla; il capitano Citolo da Perugia aveva sistemato al centro la polveriera e la fece saltare in aria uccidendo centinaia di nemici; questo permise ai padovani di ribaltare la situazione e di respingere l’offensiva delle truppe imperiali e spagnole.

Fu uno dei momenti decisivi per la sopravvivenza dello Stato Veneto; in quella occasione furono scritte diverse canzoni e canzonette; una delle più popolari fu questa conosciuta come “La canzone della gatta” :

Su su su, chi vuol la gata

Vengi innanti al bastione,

Dove in cima d’un lanzone

La vedeti star legata.

Su su su.

Su, Spagnoli, che avantati

‘nanti al sacro imperatore

S’el vi dà de’ soi ducati

Del bastion la gata tóre!

Citol v’è, e da tutt’ore

Se li tien la guarda fata.

Su su su.

Su, Todeschi onti e bisonti,

Su su su, for de la paglia;

Voi mai più passate i monti

Se verete a dar bataglia:

Vostre arme poco taglia

Se la faza v’è mostrata.

Su su su.

Su, Francesi, su, Vasconi,

Che le mure sum per terra,

E la gata cum so’ ongioni

Si vi chiama a questa guerra,

Dove a tuti in questa serra

Morte cruda vi fia data.

Su su su.

Su su, o ladri Ferraresi,

Su, asasini traditori,

Altro è qui che fanti presi

Da spogliare l’armi fori:

Ma per questi et altri errori

Fia Ferrara sachegiata.

Su su su.

Su, bastardi Taliani,

Di canaglie oltramontane,

De Francesi et Alemani

Figlie e moglie sum putane:

Vostre voglie sono insane

A voler con noi la gata.

Su su su.

Su su, o papa, o imperatore,

Su, tu, Franza, su, tu, Spagna,

Portarì il bel’ onore

D’esser stati a la campagna

Col Lion, che sol guadagna

Tanti re, tanta brigata.

Su su su.

Su, se altri è che disponga

De volerla, re o barone,

Vengi for de Coalonga

Della porta sul bastione,

Ch’ivi sta: ma chi è poltrone

Non vi vengi, ch’ela i grata.

Su su su.

Li Spagnuoli la voleano

Pur pigliar con suoi avanti,

Perché mai non credeano

Nostri fosen si bon fanti;

Si che morti tuti quanti

Impiérno i fossi quella fiata.

Su su su.

Venner poi Francesi asai

Con Tedeschi per brancarla,

E di loro alcun fo mai

Che se ardisse di tocarla;

Talché lor senza pigliarla

Fórno morti con gran strata.

Su su su.

Che la voglia questa gata

Non se trovan più persone,

Poiché insieme mai pigliata

Non l’han quattro gran corone;

Di che il mondo sta in sermone

Quanto l’è gagliarda stata.

Su su su.

Già doi mesi sum passati

Che persone centomillia

A la gata intorniati

Volean fare mirabillia;

Chi a piedi, chi a brillia,

De noi tuti far tagliata.

Su su su.

Or partita in la malora

È la cruda e vil canaglia,

Che credea da tutt’ora

A la gata dar travaglia;

Ma sue onge, che arme smaglia,

Morte acerba a molti ha data.

Su su su.

Il testo è alquanto …colorito (tedeschi  onti e bisonti, bastardi italiani, assassini ferraresi ecc.) ma mi sembra giusto riproporlo come l’ho trovato.

Ettore Beggiato

#Emergenza #Opinioni – #Brazil : CHIESE DIVISE DALLA PANDEMIA – di Gianni Sartori

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Diamolo per scontato. Si tratti di “oppio dei popoli” o del “sospiro della creatura oppressa, il cuore di un mondo senza cuore…” (ovvero consolatio afflictorum), la religione da sempre si sovrappone alla politica (e/o viceversa). Talvolta anche a sproposito.

Citerò solo due casi per averli conosciuti di persona: Irlanda del Nord e Sudafrica.

Non potendo contare sul diverso colore della pelle e nemmeno sull’etnia (entrambi – scozzesi e irlandesi – popoli di origine celtica) o sulla lingua (idem), gli anglosassoni – e anglicani – inglesi (popolazione di origine germanica), al momento di colonizzare sistematicamente l’Ulster strumentalizzarono la religione.

Divide et impera: cattolici gli indigeni irlandesi, protestanti (in genere presbiteriani) i coloni scozzesi. In realtà tra i padri del repubblicanesimo irlandese non mancarono poi, alla fine dl ‘700,  anche diversi protestanti. Ma comunque alla lunga la cosa sembrò funzionare, mantenendo (almeno fino agli novanta del secolo scorso) una forte discriminazione tra le due comunità (in materia di posti di lavoro, assegnazione di abitazioni…) funzionale alle logiche imperiali di Londra.

Arrivando talvolta a veri e propri pogrom da parte dei “lealisti” contro le aree cattoliche (“papiste”) di Derry e Belfast, con devastazioni e incendi.

Ovviamente, come mi aveva fatto notare Bernadette Devlin (a casa sua, nel 1985 mi pare) la questione non erano i principi religiosi, ma precisi interessi economici e strategici.

Invece nel Sudafrica del secolo scorso (in particolare all’epoca di Botha, anni ottanta) le Chiese, quelle protestanti in particolare, si dividevano radicalmente, anche al proprio interno, sulla questione dell’apartheid. Entrambi gli schieramenti trovavano nei passi della Bibbia argomenti per giustificare le rispettive, opposte, posizioni.

Fondamentale, a detta di molti osservatori, fu comunque l’impegno militante di personaggi come il vescovo Desmond Tutu. Sia nell’abbattere il regime segregazionista (vero razzismo istituzionalizzato), sia nel successivo superamento del conflitto con l’opera di pacificazione e riconciliazione tra bianchi e neri.

Nell’odierno caso del Brasile, la pandemia ha funzionato da cartina di tornasole, mettendo in evidenza, ben oltre le questioni teologiche, quali siano gli autentici rapporti sociali (gli interessi “di classe” mascherati con le distorsioni religiose del bolsonarimo) vigenti nel grande paese latino-americano. Nonostante l’aumento dei casi di Covid-19 rimanga preoccupante (ormai si parla di oltre diecimila morti accertati), buona parte delle Chiese sembra aver sottoscritto le posizioni negazioniste del presidente. Sia in materia di distanziamento sociale, sia nella scelta azzardata di riaprire servizi pubblici e imprese. Alla faccia delle raccomandazioni di scienziati e  organizzazioni sanitarie che paventano un possibile collasso del sistema sanitario.

La sostanziale convergenza ideologica con l’attuale governo di destra risale all’epoca precedente le elezioni del 2018 e interessa soprattutto gruppi come i pentecostali e i neo-pentecostali. Ossia i principali seguaci della cosiddetta “teologia della prosperità”, in evidente contrapposizione alla storica “teologia della liberazione” e in sintonia con vari movimenti politici di ispirazione ultra neoliberista e, ca va sans dire, i militari. Tutti ben rappresentati nei ministeri del governo Bolsonaro a cui gli evangelici garantiscono una cospicua base di massa. Secondo un recente sondaggio dell’Istituto Datafolha gli evangelici (compresa la minoranza – rispetto a pentecostali e neo-pentecostali – protestante)  rappresentano il 31% della popolazione.

Fin dall’inizio della pandemia, tra alcuni esponenti protestanti e quelli pentecostali si registravano reazioni divergenti, se non addirittura opposte. Mentre i principali leader evangelici appoggiano la prosecuzione delle attività economiche  (oltre che delle celebrazioni religiose), i protestanti riformati (ecumenicamente in sintonia con la maggioranza dei cattolici) hanno adottato misure preventive, sospendendo le celebrazioni e applicando il distanziamento sociale 

(talvolta in anticipo sulle stesse direttive sanitarie).

Nel frattempo il presidente brasiliano partecipa alle manifestazioni dei suoi seguaci e sostenitori, ostentando apertamente di non adottare la mascherina protettiva e senza evitare di toccare le persone.

Non si può escludere che Bolsonaro e camerati intendano approfittare della pandemia per eliminare fisicamente un consistente numero di soggetti “improduttivi e superflui” (stando ai parametri capitalisti) ossia indios dell’Amazzonia, diseredati delle favelas e prigionieri rinchiusi nelle carceri.

Una politica potenzialmente “genocida” secondo Nivia Souza Dias, esponente dell’Alleanza dei Battisti in Brasile.

Analoga a quella adottata dal regime di Erdogan che pur avendo aperto le celle per un gran numero di detenuti comuni (per evitare una possibile moria di masse nelle carceri sovraffollate) si guarda bene dal liberare i prigionieri politici di sinistra e curdi.

Gianni Sartori